Un dittico imperiale: Oriente e Occidente dopo il 395
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Già altre volte l’impero romano era stato governato in maniera collegiale, come sotto la tetrarchia, o al tempo dello stesso Teodosio. L’elemento di differenza che contraddistingue la divisione del 395 è il fatto che l’unanimitas tra le due parti dello stato viene meno, soprattutto a causa della rivalità delle corti di Arcadio ed Onorio. Oriente ed Occidente, entrambi governati da discendenti di Teodosio, si allontanano sempre di più: il primo si avvia ad un lungo periodo di sostanziale pace e prosperità, l’altro incontra difficoltà sempre maggiori.
Teodosio muore a Milano, poco dopo aver definitivamente soppresso la ribellione di Eugenio, il 17 gennaio del 395, lasciando come suoi successori i figli Arcadio (che all’epoca ha 17 o 18 anni) e Onorio (un bambino di dieci anni), precedentemente nominati augusti. Arcadio è rimasto a Costantinopoli, mentre Onorio ha seguito il padre in Italia; è quasi per caso che i due nuovi imperatori si occupano, rispettivamente, degli affari dell’Oriente e dell’Occidente.
C’è da chiedersi, peraltro, se veramente Teodosio intendesse spartire nettamente l’impero: vari elementi lasciano sospettare che in realtà la divisione sia esasperata dai cortigiani che affiancano e manovrano i due sovrani, che alla giovane età uniscono un carattere piuttosto debole. Arcadio è soggetto all’influenza, e alla rivalità reciproca, del prefetto del pretorio Rufino e del ciambellano (nonché eunuco) Eutropio; fin da subito Onorio si trova guidato da Stilicone, generale di origine vandalica imparentato con la stessa famiglia imperiale che, forse non del tutto implausibilmente, proclama fin dall’inizio che lo scomparso Teodosio gli avrebbe affidato la custodia di entrambi i figli. I potenti cortigiani di Costantinopoli, ovviamente, non hanno la minima intenzione di lasciare la propria presa sul debole Arcadio, e una serie di incursioni barbariche non fa che peggiorare la crisi e cristallizzare una divisione forse nata più per caso che per un piano preciso.
Quando i Goti stanziati come federati nella Mesia Inferiore si ribellano, al tempo della morte di Teodosio, quasi tutto l’esercito mobile della pars orientis si trova in Italia, dove ha accompagnato l’imperatore. La corte di Costantinopoli si trova pressoché impotente contro le scorrerie di Alarico, così come contro una contemporanea incursione degli Unni. Stilicone si sente in dovere di intervenire e marcia con l’esercito unito fino alla Tessaglia, dove raggiunge i Goti.
Appena prima dello scontro decisivo, tuttavia, riceve da Arcadio l’ordine di restituirgli le truppe, al quale obbedisce, forse anche in considerazione del fatto che sua moglie e i suoi figli sono tenuti come ostaggi a Costantinopoli. Alarico continua a devastare la penisola balcanica, pressoché indisturbato; nel 397 Stilicone arriva in Grecia nel tentativo di fermarlo, ma è raggiunto da un nuovo ordine di Arcadio che gli intima di tornare indietro. La rivalità tra le due partes imperii è ormai cosa evidente, e sembra chiaro che Teodosio, se anche ha pianificato in anticipo la divisione, sicuramente non avrebbe mai desiderato una situazione del genere, della quale possono approfittare solo i nemici esterni.
La corte di Costantinopoli, incapace di neutralizzare Alarico con i propri mezzi e decisa a rifiutare l’aiuto di Stilicone (dichiarato nemico pubblico), finisce per concedere al capo goto il titolo di magister militum per Illyricum, che sostanzialmente legalizza la sua occupazione dei Balcani. Non mancano altri preoccupanti segnali del fatto che, rispetto a quanto era avvenuto in precedenza sotto la tetrarchia o negli anni di regno congiunto dei vari Valente, Valentiniano, Graziano e Teodosio, la divisione dello stato romano si rivela sempre più profonda e caratterizzata da un clima ostile. Nel 397 vi è il tentativo di Gildone, governatore dell’Africa, di trasferire all’impero d’Oriente il controllo della sua provincia, cruciale per i rifornimenti di grano verso l’Italia: la sua sedizione viene soppressa l’anno successivo, mentre Stilicone si lega sempre più strettamente ad Onorio al quale dà in moglie sua figlia Maria.
Se fino a quel momento, in sostanza, il rapporto di forza tra i due imperi rivali è bilanciato, la situazione comincia a volgere a sfavore dell’Occidente nel 401. In quell’anno infatti l’irrequieto Alarico, partendo dalle sue basi nell’Illirico, penetra nell’Italia settentrionale, da dove Stilicone riesce a cacciarlo a fatica, e senza una vittoria decisiva, solo l’anno successivo. Sicuramente il governo orientale non fa nulla per ostacolare i Visigoti, e anzi, si è supposto che la loro spedizione possa essere in qualche modo fomentata da Costantinopoli, come ulteriore mezzo di pressione verso l’impero rivale. Stilicone, in effetti, accusa il colpo: il suo esercito, composto in massima parte da elementi barbarici, dà segni di irrequietezza e inaffidabilità; il fatto che, per l’ennesima volta, non sia riuscito a schiacciare Alarico alimenta sospetti sulla sua lealtà, accresciuti dal suo sangue germanico.
È solo dopo un ulteriore peggioramento delle relazioni tra i due Stati e la vittoria su un altro invasore goto, Radagaiso, che nel 405-406 Stilicone, forte di un prestigio riconquistato, fa la mossa che, secondo i suoi piani, dovrebbe consentirgli di ristabilire la situazione. La prefettura dell’Illirico, precedentemente di gravitazione occidentale, dopo la morte di Teodosio si trova spartita tra le due partes imperii: la Pannonia va a Onorio e la Dacia e la Macedonia ad Arcadio. Stilicone asserisce che, secondo il volere di Teodosio, tutta la prefettura deve tornare sotto controllo occidentale. Stilicone fa nominare un suo prefetto del pretorio per l’Illirico e incarica Alarico di occupare le province orientali per suo conto, in attesa dell’arrivo dell’esercito di Occidente. Non si tratta affatto di uno sgarbo dettato da pura rivalità: il riassorbimento dell’Illirico fornirebbe a Stilicone un’ottima base demografica per il reclutamento di soldati romani, che gli permetterebbero di fare a meno dei suoi problematici ausiliari barbari; e in secondo luogo, il controllo dei Balcani renderebbe probabilmente più facile la difesa delle frontiere orientali dell’Italia. Il piano non manca di efficacia, ma gli eventi trasformano ben presto questo tentativo nella rovina del suo ideatore, infliggendo al contempo all’impero d’Occidente un colpo gravissimo. L’invasione della Gallia da parte delle popolazioni germaniche alla fine del 406 e al contempo la ribellione in Britannia dell’usurpatore Costantino III, che ben presto passa sul continente, costringono Stilicone a inviare gran parte delle sue truppe al di là delle Alpi: la spedizione nell’Illirico, ovviamente, viene annullata. Alarico ha rispettato i patti, e ovviamente viene danneggiato dal mancato arrivo dei rinforzi occidentali: non meraviglia che nel 408 faccia richiesta di un pesante indennizzo. Stilicone sostiene che il pagamento sia necessario, ma questo lo rende ancora più inviso a molti personaggi della corte, che non hanno difficoltà a sobillargli contro lo stesso Onorio. La contemporanea morte di Arcadio, in Oriente, fa definitivamente precipitare gli eventi. Sia l’imperatore d’Occidente sia il suo massimo generale desiderano andare a Costantinopoli per porre sotto la propria influenza il figlio di Arcadio, Teodosio II, che all’epoca ha sette anni. Paradossalmente, finiscono per ostacolarsi a vicenda e questo proposito, che forse potrebbe condurre ad una reale riunificazione dell’impero, cade nel vuoto. Stilicone, infatti, dapprima persuade Onorio a rimanere in Italia; l’imperatore e il suo entourage, tuttavia, subito dopo fomentano una ribellione dell’esercito che spazza via l’intero stato maggiore di Stilicone, il quale viene catturato e messo a morte a Ravenna.
Con la scomparsa di Stilicone e Arcadio, le relazioni tra i due imperi tornano tutto sommato a distendersi, nonostante qualche residua frizione (dovuta perlopiù a questioni di successione). In realtà, anche nel periodo precedente, almeno a livello formale non mancano attestazioni relative all’unità dello stato romano e all’unanimitas dei suoi augusti che, dopo tutto, sono fratelli (o comunque, dopo il 408, sempre parenti: zio e nipote nel caso di Onorio e Teodosio II, cugini quando sul trono d’Occidente, nel 425, sale Valentiniano III).
Con la nomina di un console (la magistratura è ormai puramente onoraria) per ciascuna delle due parti, ad esempio, si intende rimarcare come ognuna di esse costituisca la metà di un insieme statale che rimane idealmente unitario, sotto un governo che teoricamente dovrebbe essere collegiale. In Occidente sono coniate monete a nome di Arcadio e viceversa in Oriente; sotto Teodosio II e Valentiniano III (che deve il suo trono al cugino e ne sposa la figlia) compaiono emissioni congiunte, che ritraggono i due sovrani seduti sul medesimo trono, mentre reggono il globo crucigero (simbolo del dominio congiunto sul mondo, almeno quello romano), con una legenda che recita Salus rei publicae, "Salvezza della res publica", il nome collettivo che indica i due imperi. E anche in seguito, soprattutto (ma non solo) finché tra le due corti rimangono attive le relazioni dinastiche, non mancano tentativi di iniziative congiunte, in particolare contro la minaccia vandalica nel Mediterraneo. Resta il fatto, però, che dopo l’aperta ostilità del quindicennio successivo alla morte di Teodosio le due partes imperii, per quanto formalmente unite sotto l’egida della romanità, prendono due strade distinte che con il tempo le portano fatalmente ad allontanarsi, per andare incontro a due destini profondamente diversi. La parte occidentale, sicuramente, è svantaggiata dal punto di vista geografico (l’Oriente, soprattutto nelle floride province orientali, è molto più protetto dalle invasioni barbariche), demografico, economico; non bisogna però dimenticare che dà comunque prova di una certa tenacia, e ci si può chiedere cosa sarebbe accaduto se, invece di allontanarsi l’uno dall’altro, i due figli di Teodosio e i loro collaboratori avessero mostrano una unanimitas sostanziale, e non solo formale. I rischi della divisione tra augusti d’Oriente e d’Occidente, del resto, sono in una certa misura preconizzati dallo stesso disastro di Adrianopoli, se è vero che lo scoordinamento tra Valente e Graziano ne costituisce una delle cause principali. Nessuno meglio di Teodosio dovrebbe conoscere questa lezione, ma evidentemente egli non è in grado di trasmetterla ai suoi figli.
Mentre l’Occidente sprofonda ancora di più nel caos dopo l’uccisione di Stilicone e l’esplodere di rappresaglie antigermaniche che inducono molti dei suoi uomini a passare dalla parte di Alarico (che com’è noto nel 410 finirà per saccheggiare la stessa Roma), in Oriente ha inizio il lunghissimo (42 anni, ineguagliato in tutta la storia dell’impero) e tutto sommato pacifico regno del mite Teodosio II, affiancato e spesso guidato dall’energica sorella Pulcheria.
Questo periodo di tranquillità e prosperità (che prosegue anche nei decenni successivi), secondo l’analisi di molti, è cruciale per permettere all’impero d’Oriente di raggiungere quella stabilità che agevola le riconquiste di epoca giustinianea, e gli consente di sopravvivere alle devastanti invasioni persiana e islamica degli inizi del VII secolo.
La pace, al contrario, è proprio ciò che continua a mancare a Onorio, che affrontare tutta una serie di ribelli e usurpatori in Gallia, Africa e infine nella stessa Ravenna, dove si trova ai ferri corti con sua sorella Placidia che infine fugge a Costantinopoli insieme al figlio Valentiniano. Alla morte dello zio, nel 423, Teodosio II rimane l’unico imperatore. È stato ipotizzato che forse nei suoi piani potesse esserci la riunificazione dello stato, ma in ogni caso la notizia che a Roma il trono è stato rivendicato da un funzionario civile, il primicerio Giovanni, spalleggiato dal generale Ezio, lo spinge a proporre il nipote, Valentiniano III, come legittimo imperatore d’Occidente. Il giovane viene intronizzato nel 425, affiancato da Ezio che, sembra dietro un consistente pagamento, è passato dalla sua parte. Per i successivi dieci anni, la scena politica risulta dominata dallo scontro tra lo stesso Ezio, al quale in origine era stato destinato il comando della Gallia, ed i suoi due rivali, Felice in Italia e Bonifacio in Africa. Alla fine Ezio riesce ad imporsi, soprattutto con il ricorso all’aiuto degli Unni; di queste discordie interne naturalmente approfittano le popolazioni barbariche entrate nell’impero nel 406-408, ed in particolare la più aggressiva, quella dei Vandali, che sotto l’abile guida di Genserico si espandono nell’Africa romana.
Il periodo di relativa tranquillità interna che segue permette all’impero d’Occidente di tenere a freno i barbari stanziati in Gallia o ai suoi confini, sempre con l’aiuto degli Unni. Si può peraltro osservare che questa forma di pressione, se anche contribuisce a contenere i sempre turbolenti hospites, risulta in definitiva inefficace, perché non va nella direzione di un loro sradicamento dal territorio, che così potrebbe essere recuperato, e al contempo li rende sempre più ostili e sospettosi verso Roma: non è un caso che, come si è detto, Ezio abbia grandi difficoltà nel 451 a convincere proprio Visigoti e Burgundi a partecipare alla sua coalizione (nella quale l’esercito romano, decimato dal crollo delle finanze imperiali, ha un ruolo decisamente marginale) contro gli Unni di Attila, che da alleati dell’impero si sono trasformati in una minaccia. Nonostante la vittoria della coalizione presso i Campi Catalauni, Attila non è debellato e muove pressoché indisturbato verso l’Italia (sembra che Ezio, giustamente, tema l’idea di far transitare nella penisola i suoi alleati Burgundi e Visigoti), da dove si allontana nel 452, secondo la tradizione convinto dalle parole di papa Leone (non bisogna però dimenticare che un’epidemia affligge il suo esercito, e che l’imperatore d’Oriente, Marciano, lo minaccia alle spalle). La morte di Attila nel 453 e le guerre interne tra gli Unni danno alla corte d’Occidente l’impressione che non ci sia più bisogno di Ezio, eliminato nel 454 dallo stesso Valentiniano III, il quale pochi mesi dopo viene assassinato da due uomini fedeli al generale, che con la sua influenza personale era riuscito a rallentare un processo di dissoluzione destinato a riprendere inarrestabile dopo la sua morte.