Un fiume di immagini: i vasi attici a figure nere e rosse
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La ceramica figurata prodotta ad Atene e nell’Attica tra la fine del VII e il IV secolo a.C. costituisce la prima forma artistica veramente popolare dell’Antichità; una produzione di altissimo livello artigianale, ma anche una insostituibile e ricchissima fonte di informazioni sulla società greca, sui suoi costumi, la sua cultura e i suoi valori.
Nell’ultimo quarto del VII secolo a.C., dopo una crisi economica e demografica che non aveva mancato di produrre conseguenze anche nell’ambito dell’attività artigianale, ad Atene rifiorisce la produzione di vasi monumentali provvisti di una ambiziosa decorazione figurata.
È in questo periodo che i ceramografi attici adottano una nuova tecnica pittorica, mutuata dalla ceramica corinzia (nella quale è in uso da almeno un paio di generazioni), regina in quest’epoca dei mercati mediterranei. La tecnica è quella delle “figure nere”: silhouette campite a vernice nera che si stagliano sulla superficie del vaso lasciata nel colore naturale della terracotta e caratterizzate da dettagli interni resi in sovradipintura o con la tecnica del graffito.
Con i ceramografi attivi tra la fine del VII e il primo quarto del VI secolo a.C., il Pittore di Nesso, il Pittore della Gorgone e Sofilo, la nuova tecnica giunge rapidamente a maturità, mentre si arricchisce il repertorio delle forme vascolari e si inseriscono nuovi temi narrativi, che mostrano un interesse crescente nei confronti del mito e dell’epos. Il talento narrativo di Sofilo, il primo artista del Ceramico di Atene a firmare orgogliosamente le proprie creazioni, trova accenti di fresco realismo nella raffigurazione degli spiritati ed eccitati spettatori che assistono ai giochi funebri in onore di Patroclo (soggetto del libro XXIII dell’Iliade) su un celebre frammento di dinos (un ampio vaso da simposio a fondo convesso, molto amato in questo periodo) rinvenuto a Farsalo; mentre assume un tono più ampio e solenne per raffigurare la processione degli dèi e delle dee dell’Olimpo per le nozze di Peleo e Teti, tema che il ceramografo affronta in due distinte occasioni. In questa fase della produzione ceramica a figure nere, la ripresa di forme e di stilemi tratti dalla tradizione corinzia, quali l’organizzazione zonale della decorazione in fregi sovrapposti o l’abbondanza delle iscrizioni, è una scelta imposta dal peso commerciale di cui la ceramica corinzia gode, soprattutto nei ricchi mercati dell’Etruria e della Magna Grecia: i ceramisti attici, probabilmente assai aumentati di numero a seguito dei provvedimenti di Solone tesi ad agevolare i cittadini stranieri (meteci) intenzionati a praticare ad Atene attività artigianali, si trovano nella necessità di espandersi in questi mercati già abituati ad un linguaggio figurativo ben definito, forse anche a causa di un calo della domanda interna di ceramica figurata a seguito della legge suntuaria soloniana, che ha posto un freno alla ricchezza dei corredi funerari.
Ma l’iniziale debito nei confronti dello stile di Corinto non inibisce la creatività e l’originalità degli artigiani attici; il gusto miniaturistico e l’organizzazione in fregi sovrapposti della decorazione trovano anzi compiuta espressione nel capolavoro della ceramica attica a figure nere, il grande cratere a volute noto come Vaso François, dal nome del suo scopritore, Alessandro François. Rinvenuto nel 1844 in una tomba di Dolciano nei pressi di Chiusi, il cratere François, databile intorno al 570 a.C., è il più significativo esempio della prima generazione di vasi attici ad essere massicciamente esportata verso Occidente e costituisce un’opera unica per dimensioni, per impegno formale e soprattutto per la varietà dei miti raffigurati, che ne fanno una sorta di enciclopedia per immagini della mitologia e dell’epica greche: un’opera i cui artefici, il pittore Clizia e il vasaio Ergotimo, dovevano andare orgogliosi, tanto da firmare per ben due volte il loro capolavoro. Nei registri sovrapposti, il particolareggiato e ricchissimo racconto figurato si dipana affrontando in successione temi celebri, all’identificazione dei quali aiutano le iscrizioni (oltre 120) che designano ogni personaggio, e talvolta anche gli oggetti raffigurati: sulle pareti del vaso si alternano la caccia al cinghiale calidonio, i giochi funebri per Patroclo, l’agguato di Achille a Troilo, il ritorno di Efesto all’Olimpo, la lotta tra Lapiti e Centauri, il ritorno di Teseo da Creta con la danza dei fanciulli e delle giovinette che l’eroe ateniese ha salvato dal Minotauro, mentre, nella più ampia fascia sotto le anse, si snoda, senza soluzione di continuità, il corteo divino per le nozze di Peleo e Teti, e su entrambe le anse compare il frutto di quelle nozze, Achille, ormai privo di vita e pietosamente caricato sulle spalle del compagno Aiace. Solo il registro inferiore presenta un tradizionale fregio animalistico, mentre, sul piede, il combattimento tra i Pigmei e le gru alleggerisce il tono dell’insieme, un po’ come il dramma satiresco recitato in teatro a chiudere la trilogia tragica. Il miniaturismo e l’uso dei fregi sovrapposti, tramite i quali Clizia riesce ad esprimere tutta la freschezza e l’originalità delle proprie doti di affabulatore, costituiranno, nel trentennio seguente, la cifra espressiva di decoratori meno dotati e colti, ma particolarmente abili ad incontrare le preferenze e le tendenze del mercato, soprattutto di quello occidentale.
Un caso emblematico è quello delle anfore ovoidi con decorazione a registri, prodotte in Attica nel secondo venticinquennio del VI secolo a.C., ma definite convenzionalmente “tirreniche” in virtù della frequenza dei rinvenimenti in Etruria: prodotti creati ad hoc per conquistare il mercato etrusco, assetato di novità provenienti dalla Grecia, forse allo scopo di esportarvi il pregiato olio di oliva attico (di cui è probabile costituiscano gli accattivanti contenitori), attraverso la combinazione di concessioni a tendenze stilistiche più tradizionaliste (nei fregi teriomorfi) e di un vivace gusto narrativo, che si ispira ad una ricca serie di episodi mitologici ed epici senza trascurare soggetti più terreni (frequenti, ad esempio, le scene erotiche), e che si esprime in uno stile senza troppe pretese, ma gradevole e dotato di un certo colorismo negli abbondanti ritocchi sovradipinti in bianco e paonazzo. Come nel Vaso François, in questi vasi è costante il ricorso a didascalie, ma anche a false iscrizioni, sequenze di lettere prive di senso, segno di una sorta di autocompiacimento di questi artigiani per la propria alfabetizzazione, o del tentativo di solleticare la grecomania della clientela etrusca, o di un interesse estetico nei confronti dell’elegante decorativismo dell’alfabeto greco; fenomeni tutti probabilmente alla base della vera e propria grafomania che caratterizza la prima classe ceramica attica che raggiunga sui mercati d’oltremare gli stessi volumi di esportazione già toccati dalla ceramica corinzia.
Si tratta delle coppe dei Piccoli Maestri, prodotte tra 560 e 540 a.C. ca., e così convenzionalmente definite per il raffinato miniaturismo che ne caratterizza le semplici decorazioni (teste femminili di profilo, quadrighe, animali, episodi mitici come Teseo in lotta con il Minotauro), ma anche la forma: piccole kylikes impostate su uno stelo sottile, dalle linee svelte e audaci di una coppa da champagne, firmate significativamente non dai ceramografi, ma dai ceramisti, fieri della propria abilità e della novità del prodotto. La coppa da vino, la kylix, è una forma già presente nel repertorio morfologico delle officine di Corinto: quelle attiche ne faranno un inesausto campo di sperimentazioni morfologiche e decorative, il vero fiore all’occhiello delle proprie produzioni, e uno straordinario mezzo di trasmissione e di diffusione delle nuove tendenze stilistiche e iconografiche.
Tra il 560 e il 530 a.C., la pittura vascolare attica è dominata dalla personalità di tre grandi maestri, Lido, Amasi ed Exechia, dotati ognuno di un gusto e di uno stile ben definiti, e capaci di portare, per grandiosità e per respiro epico, la ceramografia al livello delle arti maggiori. Nelle loro creazioni, e in quelle degli artigiani della loro cerchia, si introduce una inedita monumentalità nelle figure che campeggiano sui grandi vasi (anfore e crateri soprattutto) che essi prediligono proprio perché offrono ampio spazio alla narrazione: uno splendido cratere a colonnette di Lido, oggi a New York, ha un’altezza totale di 56 centimetri, e le corpose figure di Dioniso e dei satiri e delle menadi del suo seguito, alte oltre 25 centimetri, si articolano in un’unica, alta fascia risparmiata sotto le anse, come in una sorta di quadro.
In questo momento Dioniso acquista un ruolo di primo piano nella ceramografia, che non è da giustificare solo sulla base della prevalente destinazione simposiaca dei prodotti ceramici attici o con la tradizione mitica che lo vuole padre di Cerameo, capostipite dei ceramisti; bensì anche con l’istituzione ad opera di Pisistrato, delle Grandi Dionisie, che costituiscono l’apice del ciclo delle feste ateniesi in onore di Dioniso e che assumeranno un ruolo fondamentale per la nascita del teatro. Altra figura dominante nel repertorio iconografico dei ceramografi attici del periodo è Eracle: il protetto di Atena, divinità poliade della città (nonché protettrice degli artigiani, nella sua qualifica di Ergane), è il modello dei ceti dirigenti, colui che giunge all’apoteosi dopo un lungo percorso di vita che mette in evidenza le sue virtù e i suoi valori (la forza fisica ed il coraggio, ma anche l’abilità di atleta e di domatore di animali, di suonatore e di cacciatore di fiere pericolose...), che stimolano alla ricerca dell’eccellenza gli esponenti della più elevata classe sociale ateniese. È probabile che questo rapporto preferenziale tra la città di Atene ed Eracle sia sfruttato anche in chiave politico-propagandistica: il tiranno Pisistrato farà ritorno nella polis dal primo esilio (quello del 555 a.C.) con una messinscena allusiva all’episodio dell’apoteosi di Eracle, accompagnato da una donna vestita da Atena (Erodoto, Storie I, 60).
L’Atene pisistratea, secondo molti studiosi (ma su questo punto non c’è accordo), è altresì l’ambiente in cui si giunge alla redazione scritta dei poemi omerici; di certo è un ambiente in cui l’epos è al centro dell’ispirazione degli artisti figurativi, come dimostra anche la ceramografia del periodo, che tocca con Exechia una profondità di ispirazione ed una capacità di scandagliare la psiche dei protagonisti dell’epica anticipatrici dell’umanità della tragedia classica. E come faranno i poeti tragici, Exechia decide spesso di concentrarsi sulla raffigurazione di momenti non cruciali della narrazione, ma in cui i protagonisti dell’epica si mettono a nudo e in cui prevale l’intensità drammatica: sull’anfora di Boulogne, Aiace si china ad infiggere con cura nel terreno la spada su cui si getterà per suicidarsi e, sulla celeberrima anfora vulcente conservata ai Musei Vaticani, lo stesso Aiace e Achille, forse per stemperare l’attesa della battaglia, o forse per lasciarsi alle spalle la violenza dello scontro avvenuto, si spogliano delle loro identità di guerrieri per diventare, semplicemente, uomini che giocano a dadi.
Ma questo è anche il momento in cui i ceramografi iniziano a rivolgere uno sguardo più attento e curioso alla realtà quotidiana, come dimostra una nota lekythos (un vaso di forma affusolata per olio profumato) di Amasi che raffigura le donne al lavoro intorno ad un telaio verticale: è l’inizio di un filone destinato a godere di un certo successo, soprattutto verso la fine del VI secolo a.C., nel quale immagini del lavoro (la raccolta delle olive, la bottega del ciabattino) si alternano a scene che rivelano un interesse nuovo nei confronti del mundus muliebris, tra le quali abbondano le immagini di donne intente a prender acqua alla fontana: una delle loro quotidiane fatiche, ma anche una delle rarissime occasioni di evadere dagli stretti confini del gineceo.
Ma il vecchio stile, formalizzato e rigido, impone ormai dei limiti alla creatività e all’abilità dei ceramografi: le figure nere sono piatte, impossibile conferir loro maggiore plasticità, e la faticosa tecnica del graffito inibisce la resa degli arti in movimento e la cura dei dettagli.
È verosimilmente un allievo di Exechia, il Pittore di Andocide, ad inventare la nuova tecnica a figure rosse, intorno al 530 a.C.: lo sfondo del vaso sarà ricoperto da una ricca vernice nera, mentre le figure saranno risparmiate sul fondo arancio dell’argilla: i dettagli interni alle figure saranno resi a pennello con vernice diluita e sarà più semplice l’inserimento di dettagli policromi. Da questo momento i pittori più creativi del Ceramico ateniese si esprimeranno attraverso questa tecnica nuova, anche se un’abbondante produzione a figure nere proseguirà almeno fino alla metà del V secolo a.C., con un graduale scadimento qualitativo.
Un caso a parte è quello delle anfore panatenaiche: capaci contenitori per l’olio dei sacri olivi di Atena che costituiscono il premio per i vincitori dei giochi panatenaici (che si tengono nella polis ogni quattro anni a partire dal 566 a.C.), e che presentano una decorazione standard, fissata intorno al 530 a.C. e destinata a rimanere sostanzialmente invariata almeno fino alla fine del IV secolo a.C. (epoca a cui risale il più recente esemplare conosciuto). Su un lato l’immagine di Atena Promachos (“combattente”), che rappresenta sicuramente una statua di culto, è inquadrata da due colonnine doriche sormontate da due galli (simboli dello spirito agonistico) e affiancata dall’iscrizione “[premio] delle gare di Atene”; sul lato opposto è illustrata una delle gare dei giochi. La decorazione è a figure nere e così rimarrà fino alla fine, offrendo anche ai principali ceramografi della tecnica a figure rosse l’opportunità di cimentarsi con lo stile più antico in questa produzione a committenza statale, affidata di volta in volta alle migliori officine ceramiche ateniesi.
I primi pittori di vasi a figure rosse si preoccupano di abituare la clientela al nuovo stile figurativo, dimostrandone le potenzialità e la versatilità: a tale scopo si producono vasi bilingui, ovvero decorati con entrambe le tecniche, spesso impiegate sui due lati dello stesso vaso a riprodurre la medesima scena, come in una bella anfora da Vulci del Pittore di Andocide con Eracle sdraiato a banchetto alla presenza di Atena.
Ma è un gruppo di ceramografi attivi tra il 520 e il 500 a.C. ad esplorare in profondità, con una vena sperimentale, le opportunità offerte dal nuovo stile, soprattutto nell’ambito della rappresentazione del movimento: sono i cosiddetti “pionieri”, Eufronio, Eutimide, Finzia, artigiani di notevole livello e dotati di una certa cultura, rivali tra loro (“Come non dipinse mai Eufronio” è scritto su un’anfora di Eutimide), che si dedicano con passione soprattutto allo studio anatomico del corpo umano. Frequenti sui loro vasi sono le immagini di atleti, in cui sono messi in evidenza lo splendore, la forza e l’agilità dei loro giovani corpi, e che rispondono perfettamente all’importanza che nella cultura greca riveste l’atletica, considerata la forma più nobile di educazione ed investita di un ruolo etico. Ma anche gli episodi del mito offrono loro la possibilità di approfondire la ricerca artistica legata al nudo anatomico e al movimento, come dimostra un cratere di Eufronio oggi al Louvre di Parigi con la lotta tra Eracle ed Anteo, ma soprattutto un altro cratere dipinto dallo stesso artista, quello ormai notissimo rinvenuto a Cerveteri, giunto a New York all’inizio degli anni Settanta e restituito recentemente al nostro paese: sollevato pietosamente da Hypnos e Thanatos(il Sonno e la Morte), il cadavere monumentale di Sarpedonte, il principe licio figlio di Zeus e Laodamia ucciso in combattimento da Patroclo, campeggia al centro della scena, nudo anatomico che mostra il virtuosismo del pittore nella resa delle partizioni dell’addome maschile e dell’articolazione del ginocchio. La transizione dalle figure nere alle figure rosse avviene con successo solo negli atelier attici, che diventano da questo momento i padroni incontrastati del commercio della ceramica figurata; il costante aumento della domanda provoca la crescita del volume della produzione, ed una sostanziale distinzione tra i ceramografi specializzati nella decorazione dei grandi vasi e quelli che si dedicano esclusivamente alle coppe da vino, il prodotto più richiesto (su dieci vasi prodotti dagli atelier attici in questo periodo, otto sono coppe).
Tra l’ultimo quarto del VI e il primo decennio del V secolo a.C., fiorisce la personalità artistica di pittori di coppe di grande livello, come Epitteto e Olto, che affrontano il problema compositivo del “tondo” interno delle kylikes, scegliendo spesso di riempirlo con un’unica figura, di respiro grandioso. Sempre più frequenti e particolareggiate diventano le scene di simposio, istituzione centrale della società aristocratica che domina l’Atene dell’epoca; tra le immagini mitologiche, uno spazio amplissimo è riservato a Dioniso e al suo corteggio di satiri e menadi. Verso la fine dell’età arcaica i simposi assumeranno sempre più l’aspetto di festini sfrenati, caratterizzati da una frenesia sessuale raffigurata talvolta in tutta la sua crudezza, e dalla crapula nel mangiare e nel bere, di cui non si manca via via di registrare i fastidiosi postumi, come in una celebre kylix del Pittore di Brigo oggi a Würzburg; ai satiri e alle menadi, creature liminari e dell’eccesso, il compito di incarnare i desideri e le smanie più censurabili e meno degne del cittadino ateniese, l’onanismo esibizionistico, il furore orgiastico, il ritorno a istinti ferini.
Negli stessi anni però aumentano nella pittura vascolare, e soprattutto nelle coppe, anche le immagini di artigiani (in primo luogo di vasai e di ceramografi), probabile segno di una evoluzione della loro posizione sociale e della loro condizione economica, in una città che appunto all’artigianato deve una parte così importante del proprio benessere; questa tendenza toccherà l’apice nella straordinaria kylix della Fonderia (databile intorno al 480 a.C.), che rappresenta l’interno dell’atelier di un fonditore in bronzo, con la fucina, gli attrezzi del mestiere ed una grande statua di guerriero in fase di rifinitura: importante testimonianza figurata di un’arte, quella della statuaria in bronzo, in un momento di eccezionale fioritura.
Per quel che riguarda la pittura di grandi vasi, i primi decenni del V secolo a.C. sono dominati da due straordinarie personalità artistiche, forse i due massimi ceramografi dello stile a figure rosse, il Pittore di Cleofrade e il Pittore di Berlino. Entrambi risentono della tensione emotiva e dell’atmosfera drammatica che caratterizzano gli anni dello scontro tra Atene e la potenza persiana, ma sono anche profondamente coinvolti nel clima dinamico e propositivo che segue quel conflitto, e che costituisce il brodo di coltura di tutti i progetti per la ricostruzione artistica di Atene, distrutta dai Persiani nel 480 a.C.
I segni di quell’episodio scioccante e indimenticabile si possono cogliere nel capolavoro del Pittore di Cleofrade, l’hydria Vivenzio (dal nome del collezionista) rinvenuta a Nola e oggi conservata presso il Museo di Napoli; il tema della distruzione di Troia, presente nel repertorio iconografico della ceramica attica fin dal VI secolo a.C., è qui trattato con un pathos del tutto inedito, che trova accenti di grande potenza espressiva nella rappresentazione del terrore della troiana rannicchiata sotto la palma che assiste alla violenza di Aiace su Cassandra, dell’annichilita disperazione di Priamo con il corpo trucidato del piccolo Astianatte riverso sulle sue ginocchia, ma anche del coraggio ostinato della donna troiana che si difende con un mattarello: colmi di dignità, i vinti, e oggetto, con i vincitori, della stessa profonda, umana pietà. Eccellente disegnatore come il Pittore di Cleofrade, il Pittore di Berlino concentra la propria ricerca espressiva sulla rappresentazione di statuarie figure isolate, che spesso campeggiano, una per lato, su vasi di grandi dimensioni (principalmente anfore e crateri): sono “estratti” che rimandano, come in una sineddoche, ad episodi complessi del mito, e che richiedono l’intervento attivo dello spettatore per la ricostruzione del significato complessivo della scena. Ne è un sommo esempio l’anfora a Basilea, in cui il tema dell’apoteosi di Eracle è suggerito dalla presenza su un lato di Atena che protende l’oinochoe mentre, da quello opposto, l’eroe stringe il kantharos che dovrà essere riempito dalla dea: un capolavoro che mostra come la cifra stilistica del Pittore di Berlino tragga la propria ragion d’essere dalla necessità di svincolarsi dalla tradizione figurativa precedente e di riflettere sui singoli protagonisti delle vicende mitiche, conferendo loro una dignità ed una profondità ispirate ai contemporanei sviluppi delle arti maggiori, in particolare la scultura.
Una feconda e continua interrelazione tra la ceramografia e le altre arti figurative diventerà norma nei decenni intorno alla metà del V secolo a.C.: un periodo di ricerca e di sperimentazione nell’ambito pittorico, condotte da artisti celebrati come Polignoto di Taso e Micone di Atene, impegnati nella decorazione dipinta di importanti edifici pubblici come il Theseion e la Stoà Poikile ad Atene con temi che non a caso hanno nella ceramografia contemporanea una notevole fortuna, come l’Amazzonomachia o le imprese di Teseo, eroe-simbolo dell’Atene democratica che nel corso del V secolo a.C. di fatto sostituisce Eracle come modello di vita.
I ceramografi attivi tra 460 e 440 a.C. che maggiormente fanno riferimento ai modelli della grande pittura contemporanea, come il Pittore dei Niobidi, riescono ad applicare alle loro creazioni gli accorgimenti messi a punto nella megalografia per la rappresentazione della profondità spaziale e della plasticità delle figure: nello splendido cratere da Orvieto oggi conservato a Parigi, sia nella scena della strage dei figli di Niobe da parte di Apollo e Artemide presente sul lato A, sia in quella sul lato B di interpretazione controversa (si tratta forse dell’episodio di Eracle che scende agli inferi a prendere Teseo e il suo compagno di imprese Piritoo affinché combattano al fianco degli Ateniesi a Maratona), i personaggi si dispongono ad altezze diverse, sulle linee ondulate del terreno che acquista in questo modo una profondità inedita nella precedente pittura vascolare.
La fascinazione esercitata dalle conquiste della pittura monumentale sui ceramografi di età classica li spinge a superare i limiti della severa bicromia dello stile a figure rosse e a tentare la strada della policromia nella ceramica, con una ricca tavolozza di colori (il paonazzo, il giallo, l’azzurro, il marrone, l’oro), talvolta stesi su fondi suddipinti in bianco con una preparazione a base di latte di calce: una tecnica delicata che trova le sue più compiute applicazioni su un cratere a calice del Pittore della Phiale da Vulci con la consegna di Dioniso bambino da parte di Ermete alle Muse dell’Elicona. Anche la ricerca psicologica, con l’introspezione nella personalità dei personaggi raffigurati, che costituisce un elemento fondamentale della grande pittura (Polignoto di Taso è l’ethographos, il “pittore di caratteri”) attrae i ceramografi; esemplare sotto questo aspetto è la grande coppa da cui prende il nome il Pittore di Pentesilea, databile intorno al 440 a.C., in cui l’episodio dell’uccisione della regina delle Amazzoni da parte di Achille riceve una coloritura romantica: l’eroe si innamora della donna nel momento stesso in cui la trafigge e la drammaticità del connubio amore-morte emerge nell’intreccio degli sguardi e delle membra dei due protagonisti. Una effettiva predilezione per gli episodi romantici, per la figura divina di Afrodite con il suo corteggio di amorini, per tutto un delicato mondo femminile si afferma nettamente subito dopo la metà del secolo: sono gli anni dolorosi della guerra del Peloponneso, con il loro carico di lutti e di miserie, e la clientela del Ceramico ateniese vuole forse rifugiarsi con la fantasia in questo mondo rassicurante e gentile, in un tentativo di rimozione della realtà.
È il cosiddetto stile “fiorito”, raffinato ma spesso lezioso, di cui emblematiche sono le creazioni del Pittore di Meidias: Faone suona la lira per Demonassa mentre si libra in aria il carro di Afrodite trainato da Himeros e Pothos (il “desiderio” e il “rimpianto d’Amore”) su una hydria da Populonia, mentre sull’esemplare gemello rinvenuto nella stessa tomba del precedente compare Adone abbandonato tra le braccia di Afrodite e circondato da eleganti personificazioni femminili identificate da iscrizioni (come Eutychia, la “buona fortuna” o Eudaimonia, la “felicità”). Le figure femminili sono adorne di gioielli, resi con preziose applicazioni in oro zecchino, e avvolte in sottili panneggi “bagnati” di chiara derivazione fidiaca.
Lo stile fiorito è l’ultima manifestazione veramente originale della ceramografia attica, che prosegue uno stanco cammino nel corso del IV secolo a.C.: il declino della potenza etrusca e l’imporsi in Magna Grecia di una significativa produzione ceramica autonoma hanno notevolmente ristretto il mercato dei ceramisti attici, che oltretutto si trovano ad operare in una città sconfitta, che non ha più nulla dell’effervescenza e dello slancio del dopo Maratona. Nei miti non crede ormai più nessuno: nessuno si riconosce più in quelle immagini, espressioni di una identità collettiva, che rendono la ceramica attica la più straordinaria arte “popolare” dell’antichità classica. Popolare perché svincolata dalle logiche dell’arte ufficiale, fatta con materie prime semplicissime e dunque di costo modesto, per questo destinata ad entrare in tutte le case e ad avere un ruolo importante nel momento del culto e della festa. Di rapida esecuzione e perciò pronta a modellarsi sulle trasformazioni politiche e culturali della società greca, sui suoi sogni e sui suoi valori; straordinaria cassa di risonanza, proprio grazie alla sua diffusione, di quei sogni e di quei valori, nel mondo greco ma anche nel mondo anellenico, soprattutto in quello etrusco. Molte civiltà del mondo antico hanno prodotto e utilizzato ceramica decorata: nessun’altra presenta però la ricchezza narrativa e l’abilità artistica che caratterizzano la ceramica attica.
Un prodotto eccezionale, coronato da straordinario successo, che è però figlio di una terra povera: l’Attica non ha materie prime e basa il proprio artigianato su quanto ha a disposizione, l’argilla. Un’argilla, quella della cava di Amarousion (a 12 km da Atene) che può essere definita come l’argilla perfetta per fare ceramica, plastica e ricca di ferro: elemento quest’ultimo che le conferisce quello splendido colore rosso in cottura e quel bel nero profondo e denso di ciò che viene impropriamente definito “vernice” (che campisce le silhouette nel periodo delle figure nere e gli sfondi in quello delle figure rosse); che non è altro, in realtà, che la stessa argilla con cui viene realizzato il vaso, stemperata in acqua. Il colore nero della “vernice” e il rosso delle parti “a risparmio” sono poi ottenuti in virtù di un’abile conduzione del fuoco all’interno della fornace, con una alternanza di fasi riducenti (in scarsità di ossigeno all’interno della camera di cottura) e di fasi ossidanti (con abbondanza di ossigeno). Questo, naturalmente, per quanto riguarda l’aspetto più strettamente tecnico; il resto lo fanno ceramisti e ceramografi di eccezionale abilità, una città che è un inesausto laboratorio artistico e creativo, e infine una società che crede davvero nei suoi miti e che, circondata dai suoi miti, vuole vivere.