Un imperatore esteta: il culto del bello nel classicismo dell'eta di Adriano
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’imperatore Adriano, dotato di una personalità poliedrica ed affascinante, nutre una sconfinata ammirazione per l’arte e la cultura greca, e ama comporre poesia, dipingere, progettare grandiosi edifici, come il tempio di Venere e Roma. L’arte e l’architettura del suo tempo sono lo specchio della sua cultura e dei suoi gusti, ma anche delle sue passioni private, come l’amore per il bellissimo Antinoo.
Nel 117 muore in Cilicia Traiano, l’optimus princeps, l’imperatore-soldato che ha saputo tenere salde nelle sue mani per quasi vent’anni le redini dell’impero, espandendone nel contempo i confini fino alla massima estensione mai toccata. Muore senza figli, Traiano, e senza aver chiaramente indicato il proprio successore; a seguito di un’adozione in extremis, che non manca di suscitare sospetti e pettegolezzi (come, del resto, nell’ambiente della politica romana è ritenuta sospetta la morte stessa dell’imperatore) sale al trono suo cugino, Publio Elio Adriano, come lui di origine spagnola, e protegé della moglie di Traiano, Plotina.
Le circostanze della successione impongono al nuovo imperatore di trasmettere, con i primi atti pubblici del proprio principato, tranquilizzanti messaggi di lealismo e di devozione verso il predecessore, enfatizzando i concetti propagandistici di continuità dinastica e di prosecuzione della positiva attività di governo di Traiano. Sceglie dunque di celebrare il trionfo postumo per la campagna partica che era stata guidata dall’optimus princeps, ed inserisce nelle prime serie monetali del proprio regno l’eloquente immagine della fenice, simbolo di continuità; ma soprattutto dedica a Traiano divinizzato dei monumenti celebrativi, tra cui un tempio, del quale non resta che l’iscrizione dedicatoria (oggi conservata presso i Musei Vaticani) e che, per lungo tempo localizzato in via ipotetica nell’area settentrionale del Foro di Traiano, è stato recentemente identificato da Eugenio La Rocca, con una ipotesi assai suggestiva, con il cortile della Colonna Traiana, da interpretarsi come templum sub divo. Ma Adriano ha una personalità, una concezione del potere e una cultura ben diversi da quelli del suo predecessore: basta a dimostrarlo il modo in cui il nuovo imperatore si presenta ai suoi sudditi, con una barba corta e ben curata che segna una profonda cesura rispetto all’immagine tradizionale romana dell’uomo di potere dal volto ben rasato, imponendo una moda che avrà lunga fortuna presso i suoi successori, e che verrà ampiamente ripresa anche dalle persone comuni. Secondo la testimonianza di Sparziano (Historia Augusta, Adriano, 26), Adriano porta la barba per celare degli sfregi che ha sul volto fin dalla nascita, e questo è possibile; ma si tratta, soprattutto, di una barba da intellettuale, evocativa di quella che caratterizza l’immagine del filosofo greco, e che sta a significare la profonda fascinazione che su Adriano esercita la cultura greca, e che potentemente indirizza le sue scelte, i suoi gusti, il suo modo di vivere, modellando la sua stessa immagine esteriore. È probabile che Adriano avesse iniziato a portare la barba sin da giovane, forse da quando aveva rivestito la carica di arconte ad Atene; ma la scelta di mantenere questo look, tanto diverso da quello austero e tradizionalmente “romano” di Traiano, è certo meditata e consapevole, configurandosi come allusione agli ideali cui l’imperatore si ispira. Ben presto appare evidente che Adriano non intende proseguire la politica del predecessore, ispirata a principi marcatamente imperialistici ed espansionistici: riconoscendo la difficoltà di difendere i confini orientali, il princeps infatti, con una decisione che non manca di suscitare la disapprovazione dell’aristocrazia senatoria, abbandona i territori conquistati da Traiano oltre l’Eufrate, e sceglie di concentrarsi sulla sicurezza dell’impero.
Una scelta che trova la propria più impressionante concretizzazione nel grandioso Vallum che in Britannia definisce il limite settentrionale dell’impero, stendendosi tra la foce del Tyne e quella del Solway per oltre 120 km con un muro seguito lungo tutto il suo percorso da un fossato con terrapieno e da una strada, e scandito da forti per le legioni (castra), fortini per le truppe ausiliarie e torri di guardia: il tutto costruito nel breve volgere di pochi anni, tra il 122 e il 130. Alla rinuncia definitiva all’espansione territoriale si accompagna un capillare riordinamento delle strutture amministrative, militari e politiche dell’impero, espressione di un governo accorto e lungimirante, che tende a colmare il dislivello esistente tra l’antico centro del potere, Roma, e le realtà provinciali, attribuendo a queste ultime un nuovo peso politico, finalmente corrispondente al loro fondamentale ruolo economico e produttivo.
L’affermazione dell’ideale di un impero ecumenico, coeso ed armonico, è un elemento che caratterizza fortemente il regno di Adriano e che significativamente troverà espressione nel programma iconografico dell’Hadrianeum, il maestoso tempio dedicatogli a Roma nel 145 dal successore Antonino Pio, e del quale resta in situ un lato, con 11 colonne corinzie, inserito nel moderno edificio della Borsa in Piazza di Pietra; la cella del tempio era originariamente delimitata da semicolonne poggianti su uno zoccolo ornato dalle personificazioni delle province dell’impero (ne restano 20, sparse in vari musei), scolpite ad altissimo rilievo su fondo neutro e caratterizzate da una iconografia che nulla ha a che vedere con l’idea di sottomissione, quanto piuttosto con il concetto della provincia pia fidelis, fedele e collaborativa con il governo centrale. Adriano giungerà a conoscere bene lo stato che si era trovato a governare, i suoi problemi e le sue difficoltà ma anche la sua straordinaria e feconda eterogeneità, trascorrendo in viaggio circa 12 anni del suo principato, sospinto dal proprio senso di responsabilità e dalla propria inesausta curiosità intellettuale: un lungo peregrinare, che lo condurrà a visitare tutte le province, fatte segno delle sue iniziative edilizie ed urbanistiche, ma che lo spingerà, soprattutto, verso la Grecia e l’Asia Minore, irresistibile polo di attrazione per un uomo così profondamente imbevuto di cultura ellenica.
È soprattutto Atene a godere della generosità e delle cure dell’imperatore: Adriano porta finalmente a compimento il colossale tempio di Zeus Olimpico, iniziato e lasciato interrotto già nel VI secolo a.C., all’epoca della tirannide pisistratea, portato avanti da Antioco IV Epifane di Siria e poi barbaramente saccheggiato da Silla, che ne aveva reimpiegato le colonne nel restauro del tempio di Giove Capitolino a Roma; tra le opere che promuove nella città greca assume un rilievo particolare la grande, splendida biblioteca realizzata nei pressi dell’agorà romana, simbolo dell’unica cultura universale esistente, quella greca, e del ruolo di capitale culturale di Atene nel panorama cosmopolita dell’impero romano.
Quella adrianea è un’epoca punteggiata da costruzioni importanti ed imponenti anche nell’Urbe, benché l’imperatore si trovi a dover fare i conti con il livello di saturazione edilizia che il centro di Roma ha ormai raggiunto; è significativo che per la realizzazione del tempio di Venere e Roma (iniziato nel 121 ed inaugurato probabilmente nel 135), che sorge nell’area già occupata dal vestibolo della Domus Aurea, siano necessari imponenti lavori preliminari di sbancamento e di livellamento del terreno, e lo spostamento, con l’ausilio di ben 24 elefanti, del colosso bronzeo di Nerone, che verrà collocato nell’area antistante l’Anfiteatro Flavio.
Il tempio di Venere e Roma, che segna l’introduzione nella capitale del culto della dea Roma (già presente fin dall’età augustea nelle province, in particolare in quelle orientali) associato a quello di Venere, divina capostipite di quella gens Giulia alla quale l’imperatore idealmente si ricollega, è destinato a rimanere il più grande dell’Urbe: una colossale struttura diptera, erede della tradizione arcaica dell’edilizia santuariale della Ionia orientale, con due celle opposte e congiunte a livello delle absidi, una soluzione questa del tutto inedita per l’architettura romano-italica, e che Adriano riprende da modelli greci (come il tempio di Afrodite ed Hermes ad Argo).
È intorno ai progetti per questo edificio che, come narra Cassio Dione (Storia Romana, LXIX. 4, 1-6), si consuma drammaticamente il dissidio tra Adriano, ideatore in prima persona dell’edificio, e Apollodoro di Damasco, il grande architetto di Traiano, molto critico, pare, verso le idee del potente dilettante, al punto da esserne condannato a morte: un aneddoto da interpretare forse come spia della contrapposizione tra due concezioni diverse dell’architettura e del suo ruolo politico-propagandistico, quella traianea, rappresentata da Apollodoro, mirante alla canonizzazione e all’imposizione dei modelli romani, e quella adrianea, tesa all’elaborazione e alla diffusione di modelli sì unitari ma innovativi, vivificati dalla combinazione tra le suggestioni esercitate dagli archetipi greci ed orientali e la perizia edificatoria della tradiziona romana.
Ed è un mirabile esercizio di equilibrio tra tradizione ed innovazione, tra antico e nuovo, il Pantheon adrianeo, ricostruito tra il 118 e il 125 sul precedente edificio eretto da Agrippa tra 27 e 25 a.C. L’edificio originario era un canonico tempio periptero, orientato a sud; Adriano imposta su di esso il pronao della nuova costruzione, orientata verso nord, e dietro fa costruire la grande rotonda, celata esternamente dalla profondità del pronao e dagli edifici che la circondano, ma che svela all’interno tutta l’audacia della concezione: una cupola perfettamente emisferica, ottenuta con un unico getto, che deve la sua leggerezza e la sua solidità all’abile utilizzo di diversi materiali da costruzione, via via più leggeri salendo dal basso verso l’alto, e al sapiente sistema di volte e di archi di scarico che innervano l’intera struttura; lo studiato gioco proporzionale dell’interno genera un senso di misura e di armonia riscontrabile soltanto in certe realizzazioni del Rinascimento, come la Cappella Pazzi in Santa Croce a Firenze. Un forte richiamo all’architettura augustea e, insieme, agli edifici dinastici dell’Oriente ellenistico è alla base del progetto del Mausoleo fatto erigere da Adriano negli ultimi anni del suo principato, dal 130 circa, sulla sponda destra del Tevere, ma collegato tramite il Ponte Elio al Campo Marzio, centro di memorie imperiali e già luogo destinato ad importanti sepolture pubbliche in età repubblicana.
Il monumento dinastico, voluto dall’imperatore per sé e per i propri successori e oggi noto come Castel Sant’Angelo, rielabora gli elementi caratterizzanti il Mausoleo di Augusto in Campo Marzio, come la forma a tumulo e la pianta centrale, allineandosi però all’ideologia funeraria espressa dai monumenti dei sovrani ellenistici sulla base di modelli orientali, di cui il Mausoleo di Alicarnasso è di gran lunga l’esempio più rappresentativo e più autorevole. Di questo, in particolare, il sepolcro di Adriano riprende il gusto per una sovrabbondante decorazione scultorea, della quale si conservano solo pochi resti (tra cui gli splendidi pavoni in bronzo dorato oggi ai Musei Vaticani) e che doveva concludersi sulla sommità del monumento con una quadriga regale in bronzo, così come ad Alicarnasso il sepolcro di Mausolo era coronato da una quadriga marmorea.
Ma il luogo più caro all’imperatore non è a Roma, e neppure nella sua amata Atene, bensì a Tivoli, dove Adriano fa costruire, probabilmente almeno in parte sulla base di propri progetti, la monumentale villa che porta il suo nome, e i cui resti coprono un’area di oltre 100 ettari. A Villa Adriana la grande tradizione romana della villa di otium (una tradizione peraltro assai presente nel mosso paesaggio tiburtino, con esempi anche significativi), ampia, fantasiosa, lussuosa fino all’eccesso, si incontra con i prestigiosi modelli delle architetture d’apparato delle regge ellenistiche, trovando formulazioni originali tramite l’applicazione delle acquisizioni della tecnica costruttiva di età neroniana e flavia, che favoriscono lo sviluppo di quelle tendenze imposte da Adriano in ambito architettonico anche nell’Urbe, come la predilezione per le formule planimetriche curvilinee e per gli ambienti voltati a cupola.
La complessità e l’infinita varietà dell’insieme non è tuttavia riducibile a mero sfoggio esteriore di magnificenza e di sfarzo, perché Villa Adriana è molto di più di una residenza imperiale: è forse la più sincera, la più diretta creazione di un uomo dalla complessa personalità, profondamente colto e che conosce il mondo, della cui infinita ricchezza e bellezza intende fare un compendio nel luogo in cui ha scelto di vivere. Sparziano, nell’Historia Augusta (Adriano, 26), ricorda come Adriano avesse riprodotto nella propria villa i luoghi visitati nel corso dei suoi viaggi, come il Liceo e l’Accademia di Atene, templi della filosofia, o il Pecile, che ad Atene conservava opere di alcuni tra i più grandi pittori greci, Polignoto e Micone, o il celebre canale di Alessandria, il Canopo, o ancora la Valle di Tempe in Tessaglia, celebre per le sue bellezze naturali; e sulla base di questo passo per secoli si è cercato di ricostruire questa topografia miniaturizzata tra i resti di Villa Adriana, anche allo scopo di avere informazioni planimetriche sugli edifici originali. Ma non è certo una riproduzione fedele dei monumenti e dei luoghi visitati ciò a cui Adriano mira, quanto piuttosto la costruzione di una geografia ideale, del cuore e dell’intelletto, che sia un serbatoio di ricordi personali e di memorie erudite, ma che sia anche la rappresentazione enciclopedica, onnicomprensiva, del mondo su cui Roma domina. C’è un continuo gioco tra microcosmo e macrocosmo, a Villa Adriana, di cui costituisce un esempio rappresentativo il cosiddetto Teatro Marittimo, l’isolotto artificiale, delimitato da un euripo circolare, che è una sorta di “villa nella villa”, completa di ogni comfort, compresi impianto termale e biblioteca.
Ed è un’ambizione enciclopedica a informare anche l’apparato decorativo, che fa di Villa Adriana un dovizioso museo, ricco di pitture, di stucchi, di splendidi mosaici, di rilievi e soprattutto di sculture a tutto tondo. Queste ultime, in particolare, sono copie che consentono di ripercorrere idealmente il cammino dell’arte greca, cominciando almeno dal gruppo dei Tirannicidi di Crizio e Nesiote, per proseguire con i maestri del V secolo, da Mirone con il suo Discobolo a Fidia, con l’Amazzone tipo Mattei, a Cresila, con l’Amazzone tipo Sciarra e la Pallade tipo Velletri; ricco il campionario di copie di sculture di IV secolo a.C., nel quale emerge l’Afrodite Cnidia collocata all’interno di un monoptero di ordine dorico in uno degli angoli più suggestivi dell’intera residenza, forse evocativo della collocazione originaria dell’opera prassitelica sull’isola di Cnido; ben rappresentata, infine, la scultura ellenistica, con copie di opere assai apprezzate in epoca romana come l’Afrodite di Dedalsa e il gruppo di Eros e Psiche, e di originali di scuola pergamena e rodia, come il Pasquino, il gruppo dell’accecamento di Polifemo e quello di Scilla che assale la nave di Ulisse. Le sculture, così come i rilievi e i mosaici, sono di notevole qualità, prodotti di un artigianato artistico di raffinato tecnicismo, il cui sviluppo è determinato dal fervore edilizio che si diffonde in età adrianea in ogni angolo dell’impero. È questo clima a favorire l’affermazione di scuole di scultori specializzati ed itineranti, tra le quali spicca quella di Afrodisia di Caria: eclettici, virtuosi di tutte le tecniche, conoscitori di tutti gli stili, capaci di lavorare con ogni tipo di marmo, gli scultori afrodisiensi, già attivi a Roma nel grande cantiere delle terme di Traiano, lavorano alacremente per Adriano, interpretando con abilità le sue preferenze e i suoi gusti in campo artistico, e realizzando per la sua residenza tiburtina alcune delle opere scultoree più celebri del complesso, come i due Centauri in marmo bigio morato, firmati da Aristea e Papia, oggi ai Musei Capitolini, caratterizzati da un’esasperazione virtuosistica della resa anatomica che ha conosciuto, fin dal loro rinvenimento nel 1736, una fortuna critica altalenante, tra entusiasmi e critiche feroci.
È un artista di Afrodisia, Antoniano, a firmare uno splendido rilievo, palesemente ispirato alle stele funerarie attiche di V secolo a.C., nel quale compare, identificato con Silvano, dio latino dei boschi e protettore dell’agricoltura e delle greggi, la figura più emblematica dell’età adrianea: Antinoo. Antinoo è il giovane, bellissimo favorito bitinio dell’imperatore, morto nel 130, appena ventenne, per annegamento in circostanze poco chiare (una disgrazia? un suicidio rituale? un omicidio politico?) in Egitto, nei pressi di Hermoupolis: la sua figura e la sua relazione con Adriano sono al centro del romanzo più bello (e meglio documentato) ispirato al mondo antico che sia mai stato scritto, le Memorie di Adriano della scrittrice di origine belga Marguerite Yourcenar.
La morte del giovane getta Adriano in una disperazione considerata con disapprovazione dai biografi antichi, e lo conduce a tributargli una serie di onori di gran lunga superiori a quelli normalmente attribuibili a chiunque non sia un imperatore: nel luogo della sua morte fonda una città, Antinopoli, fa celebrare con feste sontuose gli anniversari della sua nascita e della sua morte, e soprattutto incentiva intorno alla sua figura, divinizzata e assurta al cielo sotto forma di costellazione, un culto che si diffonde in varie città dell’impero, ma anche in Italia: il già citato rilievo di Antoniano viene da Lanuvio, dove si trova un tempio per la venerazione del nuovo dio, associato ad Artemide. Gli atti di Adriano sono certo dettati dal dolore; ma dietro essi è probabilmente da leggersi anche un accorto calcolo politico, teso a colmare il vuoto religioso che caratterizza il periodo con un culto unificante, da diffondere in tutto l’impero, strettamente connesso alla casa imperiale, ed anzi emanazione dello stesso imperatore.
Il culto di Antinoo probabilmente si spegne poco dopo la morte di Adriano, ma la sua diffusione, per quanto effimera, è dimostrata dalla massiccia presenza delle immagini del giovane in statue, busti, teste-ritratto, gemme, che ne riproducono all’infinito il volto malinconico, dagli occhi allungati e dalle labbra sensuali, dalle linee carnose ed ampie, coronato dalla massa chiaroscurata della capigliatura a folti riccioli corposi, che crea un suggestivo contrasto coloristico con i piani luminosi del viso. Nelle immagini a figura intera Antinoo è assimilato spesso a figure di dèi giovani come Apollo o Dioniso (di cui già l’arte ellenistica aveva enfatizzato le forme molli e sensuali, talvolta quasi androgine) o di personaggi mitici segnati da un destino doloroso, in cui si intrecciano amore e morte, come Ganimede o Attis; assume un significato particolare l’assimilazione ad Osiride, ispirata dal luogo in cui Antinoo ha trovato la morte, ma anche dalla drammatica vicenda mitica di morte e resurrezione della divinità egizia, che verosimilmente costituisce il tema del complesso programma iconografico del triclinio estivo, noto come Canopo, di Villa Adriana. È a proposito dell’elaborazione dell’iconografia di Antinoo che gli storici dell’arte hanno potuto parlare di creazione dell’ultimo tipo di statua atletica classica, spingendosi sino a definire (come ha fatto la studiosa inglese Jocelyn Toynbee in un libro celebre) l’arte adrianea “un capitolo della storia dell’arte greca classica”. Ma il classicismo adrianeo, inquieto, soffuso di malinconia, aperto a contaminazioni e suggestioni, è ben diverso da quello nitido e sereno, rassicurante, dell’età augustea, al punto che Ranuccio Bianchi Bandinelli ha potuto anzi riconoscervi tendenze romantiche, parlando della “prima apparizione di elementi romantici nella cultura europea”.
Nella scultura ufficiale adrianea, destinata ad eternare il ricordo dei riti e delle cerimonie imperiali, le forme classiche di rigore diventano addirittura gelide, come nei due rilievi reimpiegati in età tardoantica nel cosiddetto Arco di Portogallo, in uno dei quali compare l’apoteosi di Sabina, la moglie morosa (“bisbetica”) e poco amata di Adriano, morta e divinizzata nel 136. Un tono più caldo e sincero assumono gli stilemi classici nei celebri “tondi” reimpiegati nel IV secolo nell’arco di Costantino, che si possono annoverare tra i prodotti più felici dell’arte dell’età di Adriano. I rilievi sono otto, di notevoli dimensioni (oltre due metri di diametro), e presentano episodi di caccia (al cinghiale, all’orso, al leone) alternati a scene di sacrificio (a Diana, a Silvano, a Ercole, ad Apollo), ed uno (che in origine doveva essere il primo della serie) raffigura la partenza per la caccia; secondo il gusto classico, le poche figure si stagliano nitide sul fondo neutro, appena interrotto da elementi paesistici che conferiscono alle composizioni un tono rarefatto, quasi sognante. Nulla è noto circa il monumento di cui facevano originariamente parte questi rilievi, assai singolari sia per la forma circolare che per la scelta del tema venatorio, che inizierà a conoscere una fortuna crescente nella produzione artistica romana soltanto dopo l’età adrianea, nonostante la forte valenza simbolica di cui la caccia, intesa come manifestazione del potere e della virtù del sovrano, era stata investita già nell’arte dell’Egitto faraonico e in quella del Vicino Oriente antico, in quella persiana e infine in quella greca ellenistica di ambiente dinastico, sulla scia delle celebri cacce di Alessandro Magno. Una interessante ipotesi di Filippo Coarelli attribuisce i tondi ad una struttura (forse un arco di ingresso) connessa alla tomba di Antinoo a Roma, alla quale farebbe riferimento l’iscrizione geroglifica su un obelisco oggi eretto tra i vialetti del Pincio, e da localizzare forse nell’area della Vigna Barberini, tra la residenza imperiale sul Palatino e il tempio di Venere e Roma.
La recente scoperta a Villa Adriana di un’esedra monumentale con una ricca decorazione scultorea di gusto egittizzante, il cosiddetto Antinoeion, ha riaperto la questione della tomba di Antinoo; ma sembra incontestabile l’idea di un rapporto particolare delle scene dei tondi dell’arco di Costantino con la figura del favorito imperiale. In effetti il giovane bitinio compare in tutti i tondi, ad eccezione di quello che raffigura il sacrificio ad Apollo; nella serie dei rilievi sarà forse da leggersi una sorta di “storia sacra” della vita del favorito imperiale, scandita, con un chiaro intento di eroizzazione, dalla sua partecipazione al fianco di Adriano (appassionato di arte venatoria, come sappiamo dalle fonti antiche) a battute di caccia, compresa quella (da riconoscere nel tondo con la caccia al leone) nel deserto egiziano, in cui il giovane aveva rischiato la vita proprio pochi giorni prima della sua tragica fine ad Hermoupolis; la sequenza doveva concludersi proprio con il sacrificio ad Apollo, in cui il giovane non compare perché già divinizzato ed assimilato al dio delfico. Il tema della composizione si configura dunque come assolutamente inedito, privo di precedenti nella tradizione dell’arte ufficiale romana, perché intimamente legato al vissuto dell’imperatore, al suo privato, per quanto rielaborato in un monumento rivolto al pubblico; e l’abusato linguaggio formale classico trova accenti di rinnovata autenticità per esprimere i sentimenti di un uomo cui la Yourcenaur fa dire: “L’impero, l’ho governato in latino [...]; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto”.