Un mondo a colori: il linguaggio della ceramica italiota
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Intorno alla metà del V secolo a.C. ha inizio in Italia meridionale una ricca e variegata produzione di ceramica a figure rosse, definita nella letteratura scientifica ceramica italiota. Se i primi prodotti presentano una strettissima affinità con quelli realizzati negli stessi anni negli ateliers di Atene, ben presto questa ceramica assume caratteri propri, molto originali, per meglio rispondere alle specifiche esigenze della clientela locale, composta dagli abitanti delle colonie greche, ma anche da esponenti delle aristocrazie indigene.
Tra il VII e la metà del V secolo a.C. le officine ceramiche greche, prima quelle di Corinto e poi quelle attiche, monopolizzano di fatto il mercato dei vasi di prestigio con decorazione figurata nell’intero bacino del Mediterraneo, lasciando spazio tutt’al più a tentativi di imitazione/contraffazione non sempre riusciti, soprattutto dopo l’invenzione negli atelier di Atene di una tecnica relativamente complessa quale quella della ceramica a figure rosse.
Questa situazione subisce un cambiamento piuttosto repentino intorno alla metà del V secolo a.C., quando in diverse località della Magna Grecia, e un po’ più tardi della Sicilia ellenizzata, si inizia a produrre, in quantità cospicue, una ceramica a figure rosse di qualità talmente elevata da renderne complessa la distinzione dai prodotti ateniesi, almeno nelle primissime fasi di attività di queste officine occidentali. Anzi, è proprio lo stretto legame che i primi vasi magnogreci a figure rosse ostentano con i coevi prodotti delle officine di Atene, sia dal punto di vista strettamente tecnico, sia per quel che riguarda le scelte iconografiche e le tendenze stilistiche, a rendere estremamente probabile l’ipotesi che attribuisce le origini della produzione magnogreca a ceramisti e ceramografi ateniesi trasferitisi in Occidente. Il grande archeologo tedesco Adolf Furtwängler aveva riconosciuto nella fondazione di Thurii, la colonia panellenica sorta grazie all’iniziativa di Pericle nel 444-443 a.C., l’occasione perfetta per il trasferimento di maestranze artigianali attiche in Occidente; un’ipotesi seducente, che però posticipa di circa un decennio il probabile inizio dell’attività delle prime officine ceramiche italiote, e che non risulta comunque supportata dalla documentazione materiale, pressoché nulla per ciò che riguarda l’esistenza a Thurii di tracce di attività ceramica per il periodo in questione e assai limitata anche per la stessa quantità di ceramica italiota a figure rosse rinvenuta nella città e nella sua chora.
Non a Thurii, ma nell’area più interna dell’arco ionico, tra Taranto e Metaponto, è individuabile l’epicentro formativo della tradizione figurativa italiota, con le prime esperienze di ceramografi immigrati dall’Attica, che danno inizio a due distinte produzioni regionali, quella lucana e quella apula, all’inizio assai simili, ma destinate ad esiti molto diversi.
A Metaponto, gli scavi che hanno interessato il locale Ceramico nel corso degli anni Settanta hanno restituito scarti di lavorazione riconducibili alle prime personalità artistiche della produzione lucana, come il Pittore di Amykos e i più tardi pittori dell’Anabates, di Creusa e di Dolone; ma è probabile, anche se mancano testimonianze decisive al riguardo, che nella medesima città sia da localizzare anche l’officina del più antico vasaio italiota, il Pittore di Pisticci, i cui prodotti risultano ampiamente diffusi sia nella stessa Metaponto che nella chora metapontina.
La tradizione figurativa apula inizia un poco più tardi rispetto alla produzione di Metaponto, intorno al 425 a.C., con l’attività del Pittore della Danzatrice di Berlino: le officine apule hanno probabilmente sede a Taranto, città che va assumendo in questo momento un ruolo politico e culturale di sempre maggiore spicco nel panorama dell’Italia ellenizzata; occorre però tenere presente che nella città pugliese, il cui tessuto moderno insiste su quello antico rendendo difficili le indagini archeologiche, non sono state ancora individuate fornaci per la produzione di questo tipo di ceramica. In passato si tendeva a spiegare il trasferimento di maestranze attiche in Occidente con la crisi produttiva che avrebbe interessato le manifatture di Atene dopo la spaventosa pestilenza che devasta la polis nel 430 a.C. e ancor più dopo la fine della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.): ma le officine italiote iniziano la propria attività in un periodo precedente a questi eventi rovinosi, un periodo in cui gli atelier ceramici attici sembrano godere ancora di ottima salute e in cui, anzi, il volume delle loro esportazioni verso alcune aree della Magna Grecia aumenta, per raggiungere l’apice quantitativo in Puglia nel terzo venticinquennio del V secolo a.C.
È più ragionevole dunque pensare che sia stata semmai la crescita della concorrenza interna a spingere i ceramisti attici (in un momento in cui oltretutto risultano sempre meno vivaci i rapporti commerciali tra la Grecia e l’Etruria, tradizionalmente il più florido mercato per la ceramica attica figurata) a trasferire la propria attività nelle vicinanze dei mercati emergenti più interessati all’acquisto di ceramica di pregio, come Taranto, ma anche come la Puglia anellenica, in particolare l’area peuceta (Rutigliano, Ruvo di Puglia, Ceglie del Campo).
Qui il vaso attico si configura in questo periodo come un prestigioso status symbol, veicolo di ellenizzazione per l’aristocrazia indigena dominante che, attraverso l’acquisto e l’esibizione di prodotti dell’artigianato greco, ostenta la propria vicinanza alla cultura ellenica, cercando così una conferma ideologica al proprio potere. Del resto, le officine attiche avevano già un rapporto privilegiato con questa ricca committenza apula, per la quale avevano realizzato, probabilmente a partire dal 460 a.C., rielaborazioni di forme squisitamente indigene come la trozzella (un vaso rituale con anse alte ornate da rotelle plastiche), ma con una decorazione, del tutto attica nello stile e nei soggetti iconografici, realizzata da ceramografi attici di notevole valore: si tratta delle cosiddette special commissions, una forma di fidelizzazione della clientela che i ceramisti ateniesi avevano già sperimentato con successo, nel corso del VI secolo a.C., con il mercato etrusco, per il quale avevano prodotto forme locali di uso rituale come il kyathos e l’anfora “nicostenica”, derivanti da diffuse redazioni in bucchero, ma dipinte con la tecnica a figure nere.
Un rapporto di consequenzialità con il conflitto peloponnesiaco, e in particolare con la disastrosa spedizione ateniese a Siracusa del 415 a.C. è stato proposto da Arthur D. Trendall (1909-1995) – lo studioso neozelandese che ha dedicato la propria intera attività scientifica allo studio della ceramica italiota – per ricollegare ad Atene le origini della produzione ceramica siceliota a figure rosse, che sarebbe stata impiantata a Siracusa (e da qui in altri centri, come Lipari) da artigiani ateniesi prigionieri di guerra, che avrebbero avuto la libertà come riconoscimento della loro abilità professionale: anche in questo caso, un’ipotesi affascinante ma indimostrabile, modellata su un celebre episodio narrato da Plutarco (Vita di Nicia, 29). A ceramisti e ceramografi legati alla produzione siceliota sembra da riconnettere il gruppo di officine attive in Campania (a Cuma, a Capua, forse a Napoli) a partire dagli inizi del IV secolo a.C., rivolte pressoché esclusivamente al mercato locale; e l’importante atelier localizzabile a Paestum, in cui sono attivi Asteas e Python, gli unici due ceramografi della produzione italiota che firmino i propri prodotti (gli altri sono infatti identificati da nomi convenzionali).
Ma questa costellazione di centri artigianali “stabili” è soltanto la punta dell’iceberg di una realtà produttiva ben più complessa e articolata, che le recenti ricerche consentono di delineare almeno nei suoi aspetti essenziali: una realtà che comprende il fenomeno dell’artigianato itinerante e l’organizzazione di officine temporanee sia in città coloniali che in area indigena per rispondere a commesse di particolare importanza, come è possibile ipotizzare nel caso dei ricchi centri agricoli della Daunia (la regione settentrionale della Puglia) quali Canosa ed Arpi, almeno per la seconda metà del IV secolo a.C. Sono dunque cinque le distinte tradizioni regionali (lucana, apula, campana, pestana, siceliota) in cui si articola la produzione ceramica occidentale, che si sviluppa fino alla fine del IV secolo a.C. o agli inizi del successivo, e a cui è possibile ricondurre gli oltre 12 mila vasi catalogati nella monumentale opera del succitato Trendall, rinvenuti principalmente nelle necropoli dell’Italia meridionale e della Sicilia. In questo variegato mosaico di botteghe, di artigiani, di scelte stilistiche e di tendenze iconografiche spicca per ricchezza di attestazioni, per eterogeneità di forme e di motivi, per ambiziosità di stile e per solidità di tradizione artigianale la produzione apula, cui è possibile ricondurre oltre il 60 percento dei vasi attualmente noti.
Dall’iniziale rapporto identitario con la produzione attica, la ceramica italiota riesce ben presto a svincolarsi, seguendo un proprio, originalissimo percorso, che ne fa una insostituibile fonte di conoscenza della cultura magnogreca, e che dimostra come anche la committenza indigena non subisca passivamente l’influenza dei modelli culturali ellenici, e sia anzi in grado di reinterpretarli e di condizionarli, adattandoli alle proprie esigenze rituali, ideologiche e rappresentative.
I vasi italioti hanno essenzialmente una destinazione funeraria, riposti all’interno delle tombe come parte del corredo o utilizzati all’esterno come semata, segnacoli tombali: è questa destinazione a condizionare le scelte di artigiani e committenti, sia per i soggetti iconografici, sia per il repertorio morfologico, sia, infine, per ciò che riguarda la monumentalità e l’esuberanza decorativa che caratterizzano la ceramica italiota, ed in particolare quella apula appartenente alla fase dello stile cosiddetto “ornato” (dagli inizi del IV secolo a.C.), destinata a soddisfare le esigenze di gruppi elitari (soprattutto di area peuceta e poi daunia) che affidano al rituale funerario e alla tomba il compito di esprimere un chiaro messaggio di distinzione sociale.
Per quanto riguarda il repertorio morfologico, i ceramisti italioti selezionano alcune forme vascolari particolarmente rappresentative, alle quali è riconosciuto un significato simbolico: tra le forme più amate vanno naturalmente ricordati i grandiosi crateri a volute prediletti in area apula, che frequentemente presentano gorgoneia plastici e policromi nell’occhiello delle anse, ma anche il cratere a colonnette, una forma ormai in disuso nella produzione attica, continua ad essere apprezzato in Magna Grecia, soprattutto per le sepolture maschili; piuttosto frequenti anche la loutrophoros, una forma di pertinenza femminile (si tratta di un vaso destinato a contenere l’acqua per il bagno rituale prima del matrimonio), e il lebes gamikos, un altro vaso rituale legato alle nozze (e la connessione simbolica tra nozze e morte è un tema costante della ceramica italiota), che spesso, soprattutto nella produzione pestana, può diventare la base di un recipiente “sommato”, nel quale si impilano, l’uno sull’altro, vasi sempre più piccoli di forme diverse, in un’esuberanza ornamentale che serve anche a rafforzare il messaggio simbolico affidato ad ogni singolo vaso che fa parte della composizione. L’impressione di lusso e di fastosità che questi complessi contenitori sono chiamati a sollecitare nello spettatore risulta accresciuta dall’abbondante utilizzo di colori aggiunti in sovradipintura, sia nelle scene figurate che nelle partiture ornamentali: la tavolozza dei ceramografi magnogreci e sicelioti comprende colori argillosi, come il bianco, il giallo, il rosso, ma anche coloranti più rari, come l’azzurro ricavato dalla fritta egiziana, doviziosamente utilizzato sulle delicate pissidi policrome di produzione liparese; la scala cromatica risulta inoltre arricchita dall’abilità con cui i pittori sanno graduare la densità di applicazione dei colori e giocare con le sfumature.
Tra la fine del V e gli inizi del III secolo a.C. la grande pittura in Grecia vive la sua stagione migliore, una fase di intensa sperimentazione inaugurata da Zeusi di Eraclea e che raggiunge il proprio apice con Apelle: e l’eco delle ricerche di questi grandi maestri, miranti alla conquista della tridimensionalità e dell’illusionismo pittorico, si avverte chiaramente nella ceramografia italiota, in particolare in quella apula, nella quale vengono applicate audaci sperimentazioni luministiche e chiaroscurali (delle quali costituisce un celebre esempio il cratere attribuito al Pittore di Tarporley, databile agli inizi del IV secolo a.C., con Perseo che guarda la testa della Gorgone riflessa nello scudo di Atena) e interessanti soluzioni spaziali, come l’uso dello scorcio, della prospettiva e dell’ombra portata. La maestria nell’uso delle sovradipinture trova un campo di applicazione particolarmente stimolante per i ceramografi apuli nella sovrabbondante decorazione fitomorfa che si dipana sul collo di crateri o sulla spalla di anfore e di lekythoi: intrecci di tralci vegetali e di viticci, ornati di fiori di ogni tipo, spesso sviluppantisi ai lati di una testa femminile talvolta alata, e la cui lussureggiante ricchezza, portatrice di un messaggio consolatorio allusivo alla forza della vita che sempre si rinnova, risulta potenziata dall’effetto tridimensionale raggiunto grazie ad un sapiente impiego del colore. L’uso del colore, della prospettiva e dei giochi di luce nella ceramografia apula trova frequenti riscontri nella decorazione pittorica delle tombe reali della necropoli di Vergina in Macedonia; ma anche i temi iconografici presenti nella ceramografia apula di maggiore impegno possono mostrare interessanti connessioni con l’ambiente artistico e culturale della corte macedone.
Esemplare, da questo punto di vista, è il notissimo cratere del Pittore di Dario attualmente conservato a Napoli, rinvenuto nel 1851 con un sontuoso corredo all’interno di un ipogeo di Canosa. Il fulcro della complessa composizione del lato B, articolata su tre registri, è il re persiano Dario (identificato da una iscrizione) seduto in trono, mentre ascolta un messaggero stante su una pedana circolare su cui corre la scritta Persai, “Persiani”: all’ambasceria assistono dignitari in abiti orientali disposti ai lati dei due personaggi, mentre sul registro superiore compare un’assemblea di divinità e di personificazioni, tra cui Asia ed Ellade. La scena è riconducibile alle guerre persiane, un tema tornato di attualità all’epoca dello scontro tra Alessandro Magno e Dario Codomanno, conclusosi con la vittoria macedone, presentata dalla propaganda di corte come erede di quella conseguita dagli Ateniesi a Maratona nel 490 a.C.; e questo vaso rappresenta una straordinaria testimonianza dell’ambizione dei nobili apuli, ansiosi di appropriarsi dei simboli e dei modelli dell’ideologia principesca.
Il Cratere dei Persiani, capolavoro dello stile apulo tardo, è ritenuto da molti studiosi ispirato alla tragedia i Persiani di Frinico, rappresentata ad Atene nel 476 a.C.; ma in tutta la ceramografia italiota sono frequenti le scene di ispirazione teatrale, a differenza di quanto accade nella ceramografia attica, dove il teatro sembra aver lasciato poche tracce.
L’ispirazione scenica è esplicita nei vasi cosiddetti fliacici, frequenti nella produzione pestana ma presenti anche in quella apula e in quella siceliota, in cui sono riprodotte, con particolare attenzione alla realtà materiale del teatro (dai palcoscenici ai costumi alle maschere), divertenti performance comiche ispirate alla Commedia attica Antica e di Mezzo, oltre che a parodie di episodi celebri del mito e dell’epos, come nello straordinario frammento pestano, firmato da Asteas, in cui compare un Aiace dal volto grifagno che si aggrappa tremebondo al Palladio mentre Cassandra lo ghermisce per la sommità dell’elmo; è invece piuttosto improbabile che in queste rappresentazioni sia possibile trovare traccia del teatro fliacico, fiorito nell’Italia meridionale con il tarantino Rintone intorno al 300 a.C., in un momento cioè in cui il filone comico della ceramografia italiota sembra già di fatto essersi esaurito.
Per quanto riguarda invece le pitture vascolari di ispirazione tragica (che rappresentano la più consistente percentuale della ceramica magnogreca di argomento teatrale, circa 400 vasi), esse sono in genere tradotte iconograficamente in forme non “teatrali”, cioè con un linguaggio figurativo molto simile a quello con cui sono trattati altri racconti epici e mitici che non hanno subito una rielaborazione drammatica: mancano spesso, dunque, elementi che rimandino esplicitamente alla realtà performativa del teatro, con alcune eccezioni di grande interesse, tra le quali basti ricordare un notevole cratere a calice da Siracusa in cui una scena dell’Edipo Re di Sofocle è ambientata su un vero e proprio palcoscenico. Le opere sofoclee sono, comunque, le meno frequentemente attestate nella ceramografia italiota: l’autore più amato è naturalmente Euripide, ma non mancano episodi tratti dalla produzione di Eschilo, con particolare riferimento alla trilogia dell’Orestea. Sono soprattutto le classi agiate ellenizzate dei centri indigeni ad essere interessate ai vasi con soggetti tragici, che presumibilmente rivestono un ruolo significativo nelle cerimonie funebri, diventando oggetto di descrizioni e di commenti verbali che coinvolgono quanti partecipano al rito, invitandoli alla riflessione e al raccoglimento.
La tragedia offre un conforto, dimostrando che la vita degli eroi non è stata esente dalle prove dolorose e dai lutti che segnano l’esistenza umana, ma mostra anche modelli esemplari di come ci si comporta nella sofferenza: ad esempio, l’incontro tra Oreste e Elettra alla tomba del padre Agamennone, frequente nella ceramografia italiota, è la proiezione mitica del compito del culto dei defunti e della conservazione del ricordo affidato alle giovani generazioni. La destinazione funeraria di questi vasi condiziona anche le scelte iconografiche che attingono al mondo del mito: nella ceramica figurata magnogreca c’è poco spazio per storie spiccatamente ateniesi, come le saghe di Eracle e di Teseo, mentre si prediligono episodi e figure che hanno un rapporto con le tematiche della morte e dell’oltretomba, come le Danaidi o come Niobe, la mater dolorosa che ha visto sterminare la sua numerosa prole dalle frecce di Apollo e di Artemide, e che sui vasi italioti compare assorta sulla tomba dei figli, con la parte inferiore del corpo sovradipinta in bianco perché il dolore la sta trasformando in una statua di pietra.
Né possono mancare immagini cariche di significati soteriologici, che suggellano la speranza in una vita dopo la morte, o quantomeno quella in un ausilio nel momento della dipartita: è significativo, ad esempio, che nelle immagini dell’oltretomba presenti sui vasi italioti compaia Orfeo, il mitico cantore trace che con il suo canto meraviglioso aveva commosso gli dèi infernali, che avevano concesso a lui, vivo, di scendere agli inferi per salvare la sposa Euridice. Dal secondo venticinquennio del IV secolo a.C. diventano sempre più frequenti, soprattutto sui grandi vasi apuli (crateri, anfore, loutrophoroi) utilizzati come segnacoli tombali, le immagini dei naiskoi, edicole funerarie dipinte in prospettiva, che accolgono l’immagine del defunto, sovradipinta in bianco a simulare una statua, in marmo o in calcare stuccato, ma anche a segnalare la sua alterità rispetto ai vivi che, intorno al monumento, celebrano i riti per il defunto, e che sono rappresentati con la tecnica a figure rosse. L’immagine-statua del defunto esalta le sue qualità e la sua maestà: così, le donne sono generalmente raffigurate sedute, avvolte in eleganti e seducenti panneggi semitrasparenti e ornate di gioielli, tra schiave sollecite che le riparano dal sole coll’ombrellino o ne curano le acconciature, circondate da tanti piccoli oggetti che sono i simboli di una vita raffinata e piacevole. Gli uomini, invece, sono celebrati come eroi: giovani vigorosi, raffigurati come guerrieri o cavalieri, in nudità eroica o coperti da corazze di tipo anatomico; in alcuni casi, il naiskos, in una atmosfera quasi metafisica, accoglie solo le loro armi, che rimandano simbolicamente al tema della “bella morte”.