Moi, un noir
(Francia 1957-59, 1959, colore, 70m); regia: Jean Rouch; produzione: Pierre Braunberger per Films de la Pléiade; fotografia: Jean Rouch; montaggio: Marie-Josèphe Yoyotte, Catherine Dourgnon; suono: Radio-Abidjan, André Lubin; musica: Yapi Joseph Degré.
Nella gigantesca bidonville di Treichville, sobborgo di Abidjan, in Costa d'Avorio, il 'mondo ricco' ‒ l'Europa e gli Stati Uniti ‒ è rappresentato da un pacchiano condensato dei suoi miti. Qui le insegne dei bar citano il Boul'Mich, Roy Rogers e l'esistenzialismo, mentre i personaggi di cui facciamo la conoscenza si fregiano dei grandi nomi del cinema: Edward G. Robinson (un nome che possiede il vantaggio di poter essere scambiato con quello del pugile Sugar Ray Robinson) è un bozori, cioè un manovale alla giornata; Eddie Constantine è un venditore ambulante, Dorothy Lamour una prostituta, Johnny Weissmuller, alias Tarzan, un taximan, termine che suona meglio di tassista... "Per sei mesi ‒ annuncia il commento di Jean Rouch che introduce il film ‒ ho seguito un piccolo gruppo di giovani immigrati nigeriani a Treichville. Poi ho proposto loro di realizzare un film dove ognuno avrebbe interpretato la parte di sé stesso, con il diritto di poter fare e dire qualsiasi cosa. È così che abbiamo improvvisato Moi, un noir. Uno dei ragazzi, Eddie Constantine, si è dimostrato talmente fedele al proprio personaggio, quello dell'agente federale americano Lemmy Caution, che nel corso delle riprese è stato condannato a tre mesi di carcere. Per un altro, Edward G. Robinson, il film si è rivelato una sorta di specchio in cui scoprire se stesso e il proprio passato di combattente in Indocina, scacciato dal padre per aver perduto la guerra! È lui il protagonista del film, perciò gli cedo la parola". Il film non segue dunque una sceneggiatura predeterminata, ma viene costruito improvvisando nel corso di quattro giornate. Si inizia con un giorno lavorativo come tanti altri, in cui scopriamo il contesto in cui agiscono i vari personaggi, la miseria di Treichville, i compagni di Robinson, la Fraternité Nigérienne (rifugio in cui vivono molti di loro), il pranzo all''hôtel des bozoris', il racconto di Robinson dei suoi viaggi in Europa; la sera, le partite a carte, Robinson che si allena come pugile. Il sabato è la giornata dedicata al riposo e al divertimento: la spiaggia, l'incontro di pugilato, il ballo. La domenica, "tutti cercano di realizzare i sogni del giorno prima": i riti religiosi, la preghiera e l'adescamento delle ragazze, la goumbé, la delusione amorosa di Robinson che si ubriaca. Il lunedì è "la fine di tutti i sogni": Robinson si batte con l'italiano che gli ha portato via Dorothy Lamour; Eddie Constantine è in carcere; i ragazzi ricordano la loro spensierata giovinezza in Niger; Robinson racconta all'amico Petit Jules la propria vita di soldato in Indocina nella commovente sequenza finale del film. "Signore, signorine e signori, la storia di Treichville è terminata ‒ conclude Robinson ‒ ed è una storia vera".
Nel 1957 l'etnologo Jean Rouch, appena quarantenne, puntò la sua piccola cinepresa 16 mm su una comunità che conosceva bene: quella dei giovani originari delle zone più remote del Niger venuti a cercare fortuna ad Abidjan, città bianca e moderna situata tra mare e laguna, città di tutti i miraggi. Finì invece per arenarsi in una sordida periferia, Treichville (e proprio Treichvil-le era il primo titolo del film). Moi, un noir è composto da una successione di momenti che costituiscono la trama reale della vita dei vari personaggi di questa zona degradata. Il punto di vista di Rouch si avvicina a quello del reporter di attualità: il cineasta cerca di cogliere un'azione che, per definizione, non si ripeterà. L'opera si basa quindi sul rifiuto di una costruzione a priori e il film rimane aperto a ogni avvenimento imprevisto, mentre le riprese stesse fanno parte della vita reale dei personaggi. "È evidente ‒ commenta Rouch ‒ che, essendo il mio scopo quello di mostrare la vita e non di ricostruirla, mi trovo di fronte a grandi difficoltà. Per ottenere la verità sono costretto a conoscere il mio soggetto in modo molto approfondito. Non posso, per esempio, far ricominciare una scena. Quindi devo riuscire a riprendere dall'inizio alla fine la sequenza che mi interessa. Una mattina dico al mio manovale: ti seguirò mentre cerchi lavoro, tu non fare caso a me. Lui parte e io lo devo seguire, a qualsiasi costo. Le riprese le faccio da solo, mentre un amico africano mi segue con un registratore. Il suono registrato è inutilizzabile così com'è, ma serve a fare in modo che l'attore possa ria-scoltare quel che ha detto. Questo metodo di lavoro è l'unico che mi permette di ottenere quell'autenticità che è lo scopo principale dei miei film" ("Les Lettres françaises", 8 agosto 1957).
Il progetto di Rouch non è separabile dai mezzi tecnici che egli utilizza. La cinepresa 16 mm tenuta a mano all'epoca era considerata uno strumento amatoriale, anche se la televisione stava iniziando a farne ampio uso. Essendo l'unico ad avere il controllo della situazione, il cineasta poteva avvicinarsi con maggiore facilità ai suoi personaggi e riprenderli in assoluta libertà, senza preoccuparsi delle 'regole' della scrittura e del montaggio. Il prezzo da pagare consisteva nel fatto di ottenere un'immagine di qualità fotografica mediocre (una volta 'gonfiata' a 35 mm), poco stabile, molto lontana dagli standard del 'cinema di qualità'.
Un altro contributo del film di Rouch che ha rivoluzionato la storia del documentario riguarda l'uso della colonna sonora. All'epoca il cineasta non aveva ancora la possibilità di registrare il suono sincronizzato al 16 mm, cosa che invece avverrà nei suoi film successivi. Per sonorizzare il proprio film Rouch pensò quindi di affiancare al proprio commento, di tipo documentaristico, un commento lirico e soggettivo improvvisato da Robinson e, di quando in quando, dai suoi compagni. La forza di queste parole, quasi un prolungamento delle immagini, conferisce al film un'autentica qualità poetica. Pochi mesi prima di girare À bout de souffle, Jean-Luc Godard pubblicò una recensione entusiasta di Moi, un noir sulla rivista "Arts"; all'uscita del suo film, apparve evidente che egli seppe trarre profitto dalla grande lezione di libertà offerta da Jean Rouch.
Interpreti e personaggi: Oumarou Ganda (Edward G. Robinson), Petit Touré (Eddie Constantine), Alassane Maiga (Tarzan), Amadou Demba (Elite), Seydou Guède (il postino), Karidyo Faoudou (Petit Jules), Gambi (Dorothy Lamour).
J.-L. Godard, Poésie et vérité, in "Arts", n. 713, 11 mars 1959, poi in Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Paris 1968 (trad. it. Milano 1971).
F. Tranchant, La réalité prise au piège de l'insolite, in "Cinéma 59", n. 36, mai 1959.
Ch. Zimmer, Moi, un noir, in "Études cinématographiques", n. 3-4, été 1960.
M. Delahaye, La règle du Rouch, in "Cahiers du cinéma", n. 120, juin 1961.
Anthropology, reality, cinema. The films of Jean Rouch, a cura di M. Eaton, London 1979.
Jean Rouch, un griot gaulois, a cura di R. Prédal, "CinémAction", n. 17, 1981.
H. Agel, Un art de la célébration: le cinéma de Flaherty à Rouch, Paris 1987.
Jean Rouch, le renard pâle, a cura di S. Toffetti, Torino 1991.
Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 265, avril 1981.