Un nuovo approccio alla relazione psicosomatica
La relazione mente-corpo alla luce delle neuroscienze
La psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) rappresenta un nuovo modello teorico, basato sulle recenti scoperte della biologia, capace di interpretare in modo innovativo le malattie e di spiegare con grande accuratezza l’effetto placebo, l’effetto nocebo e quanto lo stress e le emozioni possano modificare il network biologico. La medicina psicosomatica per anni ha tentato di dare una spiegazione del legame esistente tra emozioni e malattie, ma in realtà ha sempre attribuito allo stato emotivo una dimensione psicologica. Questo approccio scientifico non era però in grado di spiegare il meccanismo con cui le emozioni condizionano la salute del corpo. Con lo sviluppo della PNEI invece è stato possibile dare alle emozioni una valenza funzionale permettendo quindi di rileggere la relazione psicosomatica attraverso un approccio integralmente biologico. In tal modo la medicina assume una nuova logica, consentendo al medico di prendersi carico del paziente in modo olistico.
I tre cardini su cui si fonda la PNEI sono: a) il sistema neuroendocrino (SNE); b) il sistema immunitario (SI); c) il sistema nervoso centrale (SNC).
Il sistema neuroendocrino
La definizione del sistema neuroendocrino diffuso ha subito negli ultimi anni continue modifiche, conseguenti alle progressive scoperte sulla sua struttura e sul suo funzionamento. In linea generale il termine neuroendocrino è utilizzato per definire un sistema di cellule diffuse in tutto l’organismo che hanno la capacità di secernere i loro prodotti in maniera controllata rispetto a uno stimolo specifico. Le cellule neuroendocrine non sono organizzate in veri e propri organi, ma sono diffuse nei vari tessuti e sono comunque capaci di produrre neurormoni, cioè sostanze elaborate sia dagli organi endocrini sia dalle strutture nervose. Le cellule neuroendocrine sono pertanto ubiquitarie nell’organismo e si attivano in funzione del microambiente che le accoglie e che richiede in quel momento determinate prestazioni. L’attuale concetto di sistema neuroendocrino diffuso non si basa più sull’ipotesi dell’origine embriologica comune di tutte le cellule neuroendocrine, poiché è stato dimostrato che differenti tipi di cellule con caratteristiche neuroendocrine derivano da regioni diverse del neuroectoderma. Per questo motivo, attualmente una cellula si definisce neuroendocrina se risponde a vari requisiti. Innanzitutto deve produrre un neurotrasmettitore o un neuromodulatore o un neurormone; tali sostanze sono contenute all’interno di vescicole o granuli intracellulari, dai quali sono rilasciate con un processo di esocitosi conseguente a stimoli nervosi. Inoltre le cellule neuroendocrine differiscono da quelle nervose per la mancanza di terminazioni nervose specializzate. Infine, differenti tipi di cellule neuroendocrine condividono molte proprietà specifiche ed esprimono diverse proteine in comune, anche se l’espressione di ciascuno di questi markers proteici non è un criterio assoluto per definire la cellula neuroendocrina (I tumori neuroendocrini, 2003). Anche le cellule del sistema immunitario, pur non essendo neuroendocrine, sono ugualmente in grado di produrre ormoni peptidici e peptidi neurotrasmettitori.
Il SNE consta di tre maggiori compartimenti anatomici: a) neuroni e fibre del sistema nervoso periferico; b) cellule epiteliali endocrine disseminate nelle mucose dei visceri cavi, in particolare del tubo gastroenterico e delle vie respiratorie, ma anche nella tiroide, nel timo, nella cute, nella mammella, nella laringe, nel rene, nella vescica e nella prostata; c) cellule parenchimali dei classici organi endocrini quali l’adenoipofisi, le paratiroidi e la midollare del surrene. Questi ultimi due tipi di cellule sono pertanto, a tutti gli effetti, cellule neuroendocrine, in quanto rispondono ai requisiti suddetti. Questa molteplicità morfologica si traduce in una molteplicità funzionale che gioca un ruolo fondamentale nel regolare non solo il corretto sviluppo embriologico, ma anche molteplici aspetti della fisiologia dell’organismo (attività metabolica, funzioni chemorecettoriali, motilità e secrezione gastrointestinale ecc.). L’aspetto più affascinante della biologia del SNE è rappresentato dalle strette similitudini fra i suoi vari costituenti cellulari. Infatti, sia i neuroni sia le cellule epiteliali endocrine contengono piccole vescicole di tipo sinaptico e granuli neurosecretori: le prime rappresentano organuli di accumulo di neurotrasmettitori semplici, come acetilcolina, catecolamine e acido γ-amminobutirrico (GABA, Gamma-AminoButyric Acid); i secondi contengono neurotrasmettitori peptidici e varie sostanze proteiche a funzione regolatrice.
Accanto a quest’attività secretiva esistono però fondamentali differenze morfofunzionali: i neuroni infatti, sono provvisti di assoni, di dendriti e di neurofilamenti, mentre le cellule epiteliali sono ricche di filamenti di citocheratina ed esprimono differenti tipi di sistemi di adesione cellulare. Il fatto che le cellule neuroendocrine siano capaci di produrre neurormoni, ossia sostanze elaborate sia dal sistema endocrino sia da quello nervoso, fa del sistema neuroendocrino diffuso, come già detto precedentemente, uno degli assi portanti della PNEI.
Attraverso la PNEI è possibile spiegare come tessuti e organi molto dissimili possano convivere nello stesso organismo formando un’unità. Tale unità è costituita essenzialmente dalla capacità che i vari apparati hanno di comunicare fra loro. Un esempio in tal senso è costituito dal sistema nervoso centrale che è in grado di produrre sostanze analoghe a quelle prodotte dal sistema immunitario, quali interferoni, interleuchine ecc., utili nel combattere le infezioni; ma anche le cellule immunitarie (v. tabella) possono produrre sostanze nervose come i neurotrasmettitori e neurormoni in grado di interagire con tutti gli organi. È attraverso questo linguaggio comune che la medicina andrebbe riscritta.
Sotto questo aspetto è proprio la ricerca di nuovi farmaci che ha portato allo sviluppo di sostanze capaci di mimare l’attività del nostro organismo, quali appunto le interleuchine, gli interferoni e le sostanze appartenenti al nuovo filone degli anticorpi monoclonali, sviluppatosi negli ultimi anni nella lotta contro i tumori. Attraverso questa nuova lingua, che utilizza una grammatica unitaria, è possibile correlare l’attività nervosa con quella di altri sistemi, quali il sistema immunitario e quello neuroendocrino.
La stessa molecola, per es. l’acetilcolina, è il neurotrasmettitore della memoria e quello del movimento; la serotonina è il regolatore dell’umore e del transito intestinale; una semplice reazione chimica trasforma il testosterone, ormone maschile, in estradiolo, ormone femminile e così via. Sono numerosi gli esempi che si possono utilizzare per spiegare la natura olistica del nostro organismo nonché per evidenziare l’importanza delle emozioni nello sviluppo di questo linguaggio. Negli ultimi anni, in particolare negli Stati Uniti, un notevole numero di ricerche scientifiche ha documentato la capacità dello stress ambientale di influenzare diversi parametri immunitari valutati in vitro. È stato provato che i fattori stressanti, eterogenei a seconda del tipo di sperimentazione delle varie scuole di medicina, gli eventi gravi della vita, quali privazioni, separazioni o divorzi, e gli stati ansiogeni cronici possono essere associati a effetti disfunzionali del sistema immunitario (The biological basis for mind body interactions, 1999).
Il sistema immunitario
Il sistema immunitario va considerato come un organo di senso composto da innumerevoli unità in grado di riconoscere qualsiasi elemento estraneo venga in contatto con il nostro organismo. Si tratta di una vera e propria rete cognitiva, la cui funzione è quella di difenderci dalle quotidiane aggressioni operate da virus, batteri e tossine, e nello stesso tempo di interagire con il SNE e il SNC, al fine di mantenere il controllo della nostra omeostasi, ossia del nostro equilibrio interno.
Le possibilità di usufruire nella pratica clinica delle continue scoperte dell’immunologia sono assai scarse, e proprio per questo motivo, nei primi anni del 21° sec., un’autorevole rivista scientifica, il «New England journal of medicine», ha pubblicato una serie di articoli di aggiornamento nel tentativo di fornire al settore medico una preparazione culturale su questo argomento. Tale scelta è stata motivata dal fatto che i principi dell’immunologia pervadono la clinica medica. Medici generici e specialisti – pediatri, chirurghi, ostetrici e ginecologi, neurologi, anestesisti e psichiatri – devono tutti fare i conti con situazioni in cui il sistema immunitario fa sentire i suoi effetti diretti o indiretti oppure, al contrario, con disordini che colpiscono l’immunità come conseguenza di una malattia non immunitaria.
In medicina, i primi esempi di stimolazione del SI risalgono ai tempi in cui i cinesi praticavano l’inoculazione di croste di vaiolo o anche l’insufflazione di materiale infetto nel naso tramite un tubicino d’argento. Tale pratica era diffusa anche in Africa e nelle campagne inglesi. D’altro canto, l’efficacia di questa procedura era piuttosto ridotta, e si dovette all’intuizione di Edward Jenner l’elaborazione nel 1796 del primo vaccino nella storia della medicina. Fu proprio questo medico a rilevare come nelle campagne inglesi, dov’era endemico il vaiolo bovino, le persone si ammalassero di meno (in tutta l’Inghilterra, a quell’epoca le epidemie di vaiolo uccidevano il 20% delle persone colpite, sfigurando i superstiti), in quanto stavano a contatto con gli animali ammalati e di conseguenza sviluppavano una difesa naturale verso la malattia. In seguito a questa intuizione Jenner inoculò materiale infetto di vaiolo vaccino a vari soggetti. Sulla base dell’osservazione clinica, nel 1798 fu pubblicato un rapporto sufficientemente chiaro riguardo ai risultati, ma in realtà non venne data nessuna vera interpretazione a questa pratica: essa funzionava e basta, e questo fu sufficiente perché si propagasse rapidamente in tutto il mondo. Nel 1881 Louis Pasteur dimostrò con esperimenti su animali che è possibile attenuare, ossia indebolire, germi patogeni e quindi ottenere vaccini definiti svirulentati, in grado di provocare la risposta immunitaria nei soggetti trattati. Iniziarono così le prime vaccinazioni per la rabbia, il colera e l’antrace. Negli anni successivi la ricerca in questo campo esplose e, da Pasteur a Paul Ehrlich, si svilupparono numerose teorie sul SI e sulla relazione antigene-anticorpo, identificata come la chiave fondamentale della risposta immunitaria. Fu però Niels K. Jerne, nel 1955, a proporre un cambiamento radicale, ipotizzando la selezione da parte dell’antigene di proprietà già esistenti. In altre parole, non era la chiave (anticorpo) a produrre la propria serratura (antigene), ma era la serratura giusta che incontrava casualmente la propria chiave. Frank M. Burnet, qualche anno dopo, introdusse il principio della selezione clonale, al fine di identificare le proprietà essenziali del SI, ovvero la sua capacità di memoria. La teoria della selezione clonale ipotizza che, se un antigene si adatta bene a un recettore cellulare, si lega a questo e stimola la cellula a dividersi e a produrre altri recettori, costituendo una progenie di cellule identiche a quella selezionata dall’antigene, in altre parole un clone cellulare con anticorpi specifici per quell’antigene. Se un soggetto, per es., è vaccinato contro l’influenza, nel caso in cui il virus influenzale lo colpisca, un clone di linfociti specifici è già pronto ad attaccare il virus e a eliminarlo, con un notevole risparmio di fatica da parte del SI. Questo tipo di reazione antigene-anticorpo si definisce immunità specifica ed è quella che da anni la ricerca oncologica affronta al fine di sconfiggere il cancro e abbandonare l’era della chemioterapia con le sue note conseguenze tossiche. Se infatti fosse possibile selezionare in modo preciso l’antigene di ogni tipo di tumore si potrebbe allestire il vaccino specifico con cui combatterlo. In particolare, uno dei tumori su cui da oltre trent’anni si sta sperimentando il vaccino specifico è il melanoma, ossia il nevo cutaneo degenerato. Questo tumore, pur provocando nell’organismo la produzione di anticorpi specifici, in realtà non gli consente di difendersi in quanto paralizza l’attività del SI, consentendo lo sviluppo di metastasi in tempi assai rapidi.
Uno dei filoni di studio in cui l’Italia si colloca fra i primi posti nel mondo è proprio quello dei vaccini contro i tumori. Attualmente queste ricerche riguardano prevalentemente vaccini aspecifici, cioè non diretti contro l’antigene tumorale, ma in grado di stimolare tutte le risorse del SI mettendolo in condizione di eliminare o ridurre le cellule neoplastiche. Il Dipartimento di biologia cellulare dell’Istituto superiore di sanità ha in corso ricerche avanzate per la produzione di vaccini contro il melanoma, il tumore renale, quello del colon retto e quello della prostata. Tutti questi tumori si caratterizzano per la loro capacità di interagire con il SI. Su queste neoplasie la chemioterapia risulta poco efficace, e attualmente la migliore cura consiste nella chirurgia precoce, in modo da eradicare il tumore prima che questo possa sviluppare metastasi. In letteratura i casi di guarigione spontanea di tumori sono raramente descritti e vengono genericamente attribuiti a quella che è nota come immunità aspecifica. Nel caso del tumore renale, per es., dagli anni Novanta del 20° sec. si pratica una terapia intramuscolare con interferone gamma (IFN-γ), nel tentativo di migliorare la prognosi nei pazienti operati di carcinoma renale con il rischio di recidiva metastatica. La funzione di questo farmaco di natura biologica, peraltro prodotto anche dal nostro organismo, è quella di fare riconoscere meglio al sistema immunitario l’antigene tumorale da combattere.
Negli anni Ottanta, un protocollo terapeutico diffuso dall’European organisation for research and treat-ment of cancer (EORTC) prevedeva la somministrazione del vaccino antitubercolare di Calmette-Guérin (tramite il bacillus Calmette-Guérin, BCG) ai pazienti operati di cancro polmonare in 1° stadio, allo scopo di prolungarne la sopravvivenza riducendo l’incidenza di metastasi. Il tumore polmonare, anche se operato in fase precoce, tende a sviluppare metastasi, tanto che su 100 pazienti operati precocemente, nei successivi 5 anni circa il 30% muore per comparsa di recidiva metastatica. La chemioterapia postchirurgica definita adiuvante non modifica queste percentuali, per cui si preferisce potenziare l’immunità naturale o aspecifica con l’attivazione di cellule immunitarie definite natural killer, in grado di uccidere le cellule tumorali riconoscendole come estranee all’organismo. Il vaccino BCG, specifico contro la tubercolosi, è costituito da germi svirulentati e ha la caratteristica di essere fortemente immunogeno, cioè in grado di attivare il SI sia in senso specifico, producendo anticorpi contro il bacillo di Koch, sia in senso aspecifico. Per immunità aspecifica si intende una generica risposta del nostro sistema immunitario in cui si attivano i cofattori dell’immunità e in particolare, come già detto, i linfociti natural killer. In altre parole, se con l’esercito di linfociti bene organizzati siamo in grado di combattere selettivamente il nemico, una volta identificato, possiamo anche, con l’attivazione dei fattori aspecifici immunitari, tenere alto il livello di difesa, riuscendo in questo modo a eliminare un considerevole numero di cellule tumorali. Negli anni Ottanta, il protocollo terapeutico di pazienti operati di tumore polmonare nello stadio iniziale definito 1° stadio A (tumore di diametro non superiore ai 3 cm e linfonodi regionali non interessati da metastasi) prevedeva un trattamento costituito da vaccinazioni mensili con tre dosi vaccinanti di BCG, intradermiche, agli arti superiori e in regione parasternale. Il trattamento fu mantenuto per un anno e i pazienti furono monitorati per 10 anni. In successivi studi di metanalisi sviluppati da gruppi di ricerca francesi e inglesi, il trattamento con BCG fece aumentare dell’8% la sopravvivenza nel gruppo di pazienti immunizzati, rispetto al gruppo di pazienti tenuto semplicemente in sorveglianza postoperatoria. Ancora oggi il trattamento con vaccino BCG viene attuato regolarmente, con periodiche instillazioni locali nel tumore vescicale operato e a rischio di recidiva locale.
Il SI è a tutti gli effetti un organo sensoriale in grado di distinguere tra ciò che è proprio dell’organismo (self) e ciò che gli è estraneo (non self). Attraverso il riconoscimento degli antigeni esso può percepire un’immagine interna del corpo e allo stesso tempo reagire ad alterate comunicazioni. Questo sistema cognitivo riceve e trasmette informazioni contribuendo ad ampliare le conoscenze dell’organismo e a definirne la sua identità biologica.
Secondo l’immunologo J. Edwin Blalock (1994, p. 509), il sistema immunitario e quello neuroendocrino rappresentano un circuito di informazioni integrate che comunica con legami recettoriali. La possibilità di decifrare un comune linguaggio biochimico fra cervello, sistema immunitario e sistema endocrino apre nuove vie interpretative su tutto il comportamento biologico.
Nel 1960, nel suo discorso per il ricevimento del premio Nobel per la medicina, Burnet affermò che in immunologia si ha a che fare con un microcosmo che riflette vividamente tutte le caratteristiche del cosmo biologico. La premessa di questo sistema è dunque quella di ignorare il self, cioè esserne inconsapevole, e identificare il non self al fine di acquisirne la nuova conoscenza o rigettarlo se troppo estraneo e quindi pericoloso per la sopravvivenza dell’organismo. Il SI inoltre ha una caratteristica adattativa, nel senso che è in grado di rispondere in maniera adeguata e flessibile alle sfide dell’ambiente, con caratteristiche legate alla stessa evoluzione biologica. Con il passare del tempo, in relazione alle continue novità esperienziali, il SI va arricchendosi di informazioni che vengono storicizzate e rimangono in archivio pronte ad attivarsi al momento necessario. L’analogia fra SI e SNC a questo punto è evidente, e non è un caso se Gerald M. Edelman, premio Nobel nel 1972 per la medicina o la fisiologia, con il proseguire dei suoi studi si sia indirizzato verso il campo delle neuroscienze. I due sistemi sono dotati di un analogo numero di cellule (oltre 100 miliardi), e sia neuroni sia linfociti condividono la capacità di produrre un ricordo sulla base delle esperienze acquisite. Entrambi i sistemi hanno una memoria arcaica e una memoria che continua ad arricchirsi, e le cellule possiedono un linguaggio comune attraverso i recettori cellulari, i neurotrasmettitori e i neurormoni (Soresi 2005).
In tempi più recenti, in particolare da quando è sorta la questione immunologica in merito ai trapianti, si è molto discusso su come l’organismo riesca a discriminare durante l’ontogenesi i costituenti propri (self) da quelli non propri (non self). È implicito che l’organismo, durante la fase dell’ontogenesi, apprende come distinguere le strutture molecolari caratteristiche della propria individualità genetica da quelle estranee, a cui successivamente sarà in grado di rispondere immunologicamente. Il timo, organo appartenente al tessuto linfoide, è responsabile della maturazione dei linfociti e del rigetto degli organi trapiantati. Richard K. Gershon ipotizzò nel 1972 il ruolo dei linfociti T (di origine timica) nell’induzione della tolleranza immunitaria. Le sue ricerche portarono all’identificazione delle sottopopolazioni cellulari T, come i linfociti T helper, la cui funzione è quella di attivare le cellule B (linfociti di origine midollare), i linfociti T suppressor, che inibiscono la risposta immunitaria, e i linfociti T citotossici, che attaccano direttamente i tumori e gli organi trapiantati (Bottaccioli 2002, 20082). Esiste poi un sistema parallelo costituito da molecole glicoproteiche, della stessa famiglia delle immunoglobuline e che si trovano su ogni cellula dell’organismo, le quali rappresentano gli antigeni di istocompatibilità. È la presenza di questi antigeni che consente al sistema immunitario il riconoscimento del self e quindi condiziona la tolleranza immunitaria. Nello sviluppo dell’immunologia dei trapianti è emerso in tutta la sua importanza il significato degli antigeni di istocompatibilità nella risposta immunitaria specifica dipendente dai linfociti T. La comparsa in medicina delle malattie autoimmuni è relativamente recente, e la loro identificazione è stata possibile grazie alla conoscenza della tolleranza immunitaria. In sostanza si tratta di malattie in cui l’organismo si rivolta contro sé stesso e tende a distruggere determinati organi disconoscendoli. Sulle cause scatenanti si sa ancora poco e non a caso, come ha precisato l’immunologo Alberto Mantovani, la gravidanza può rappresentare un fattore scatenante di queste malattie in donne già predisposte. Infatti, il SI della madre è impegnato a non ‘rigettare’ il feto che porta gli antigeni paterni. Le malattie autoimmuni sono aumentate del 50% negli ultimi 20 anni, in particolare le tiroiditi autoimmuni nelle giovani donne.
Le nuove ricerche, con la comparsa dei farmaci cosiddetti biologici, potrebbero permettere di non usare i cortisonici e i farmaci immunosoppressori, evitando in questo modo l’insorgere delle complicanze che ne derivano. Quanto poi, anche in questo caso, lo stress cronico possa rappresentare una delle tante cause scatenanti saranno i prossimi anni e le nuove ricerche sulla PNEI a dimostrarlo. Già nel 1964 lo psichiatra George F. Solomon introdusse il termine di psicoimmunologia, descrivendo alcuni casi di lupus eritematoso in pazienti psicotici, e tracciò anche alcuni profili di personalità e malattie autoimmuni, quali l’artrite reumatoide (Canali, Pani 2003). Da tutte queste considerazioni si evince che il SI può essere preso come modello per capire come si sviluppi un sistema adattativo e come la relazione esperienziale costruisca e formi la nostra personalità. Lo sviluppo del cervello e la sua plasticità si correlano allo sviluppo del SI e alla serie di esperienze che ognuno di noi affronta dal momento della nascita. Di conseguenza, la coscienza di noi stessi è frutto non solo di stimoli culturali ma anche di stimoli biologici, confermando come lo stato mentale sia la summa di una complessa fusione mente-corpo. Il medico, come ha precisato Edoardo Boncinelli (2000, 20062), grazie alle nuove scoperte della genetica si troverà sempre di più di fronte a individui anziché a una serie di fenomeni. Questo sarà un modo nuovo di fare interagire la parte scientifica della medicina (cioè la biologia) con il suo essere arte. Non cambierà però l’idea di obiettività che sta alla base della scienza, basata su verità astratte e su un confronto intersoggettivo di conoscenze. La medicina, sostiene ancora Boncinelli, non è mai stata scienza, non lo è oggi e forse non lo sarà mai. Il medico possiede piuttosto dei rudimenti di conoscenza, proprio perché la scienza della medicina è recente e si chiama biologia. Con il progredire delle conoscenze biologiche non potremo considerare più gli uomini una classe omogenea, e il dogma dei protocolli terapeutici uguali per tutti dovrà essere rivisto alla luce della loro individualità biologica. Si dovrà parlare di singoli individui e delle loro malattie, e quindi lo sforzo maggiore del medico sarà quello di comprendere le caratteristiche individuali dei pazienti. La nuova medicina sarà costruita a misura del paziente.
Le citochine
Si definiscono citochine quelle proteine, secrete in abbondanza nel nostro organismo, con funzioni di regolazione della crescita, della differenziazione e nell’attivazione di numerose cellule. Le citochine inoltre determinano il tipo di risposta immunitaria, controllano la mobilizzazione delle cellule immunocompetenti e regolano la disposizione cellulare negli organi immunitari; in altre parole vanno considerate come gli ormoni del SI. Il tipo di citochine rilasciate in seguito a uno specifico stimolo immunologico condiziona il tipo di risposta del SI. Tale risposta può essere: citotossica, umorale, cellulo-mediata o allergica. Una singola citochina può innescare una cascata di numerosi eventi infiammatori. Le citochine comprendono quattro gruppi fondamentali: gli interferoni (IFN, di tipo α, β o γ), i fattori di crescita (GF, Growth Factors), il fattore di necrosi tumorale (TNF, Tumor Necrosis Factor) e le interleuchine (IL, da 1 a 39). Le citochine deputate a promuovere processi infiammatori sono: TNF, IL-1, IL-6, IL-8, IL-12, IL-15, IL-18, IL-23. Sono prodotte principalmente da tutte le cellule immunitarie, dalle cellule neuroendocrine, dalle cellule epiteliali e anche dalle cellule della microglia.
Per microglia si intende parte delle cellule gliali (astrociti, oligodendrociti, cellule della microglia), che rappresentano circa l’85% delle cellule cerebrali e la cui funzione si è andata chiarendo nei primi anni del 21° sec. (Bottaccioli 1995, 20052). Il ruolo delle cellule gliali, che fino a poco tempo fa erano considerate di semplice sostegno alle più nobili cellule neuronali, sta cambiando in modo significativo con il progredire delle ricerche. Attualmente si sa che gli oligodendrociti servono a fabbricare la guaina mielinica che riveste alcuni tipi di nervi, mentre le cellule microgliali hanno assunto un ruolo analogo a quello svolto dai macrofagi del sistema immunitario, ossia quello di cellule ‘spazzino’, ma nello stesso tempo sono in grado di produrre anche numerose citochine. Gli astrociti invece svolgono una funzione di alimentazione dei neuroni e sono determinanti nella modulazione delle sinapsi.
Da quanto esposto, le citochine appaiono i messaggeri della comunicazione fra i tre grandi sistemi (immunitario, endocrino e nervoso), e rappresentano uno degli aspetti fondamentali della PNEI. Queste evidenze, soprattutto quelle relative al ruolo delle citochine nella regolazione dell’espressione genica nell’SNC, sempre più confermano l’ipotesi che il cervello sia in grado di influenzare i processi immunitari e viceversa, cioè che le risposte immunitarie modifichino le funzioni neuronali e quindi gli stati psicologici. L’azione neurotropica delle citochine è evidente anche nei cambiamenti dell’assetto psichico, e anche nei sintomi psichiatrici che esse possono indurre. Le citochine influenzano il ciclo sonno-veglia, il comportamento alimentare, la percezione del dolore, il tono dell’umore. L’uso delle citochine, come l’interferone e le interleuchine, in medicina interna e in oncologia può essere associato a svariati effetti psichiatrici collaterali come la depressione, l’inclinazione al suicidio, le disfunzioni cognitive, le psicosi (Canali, Pani 2003).
Il sistema nervoso centrale
Il cervello si può distinguere, secondo la teoria di Paul D. MacLean (Canali, Pani 2003), in tre diverse strutture: la prima, definita cervello di rettile o archencefalo, risale a circa 500 milioni di anni fa ed è responsabile dei comportamenti elementari; la seconda, detta cervello antico o cervello di mammifero, è rappresentata prevalentemente dal sistema limbico, ove risiede l’affettività, e risale a circa 300 milioni di anni fa; la terza, più recente, definita neocorteccia, è responsabile delle attività intellettive superiori. Se tutta la storia del mondo fosse condensata in un periodo di 24 ore, il nostro cervello comparirebbe 5 minuti prima della fine della giornata e la quasi totalità della storia umana occuperebbe l’ultimo minuto. La suddetta ripartizione anatomica non è rigida, ma presuppone continue interazioni di aree cerebrali.
È stato il neurofisiologo Antonio R. Damasio (2003) a valorizzare le emozioni come premessa a ogni atto decisionale. Studiando numerosi pazienti portatori di handicap neurologici, Damasio ha dimostrato come sia impossibile un atto decisionale non supportato da un intervento emozionale. In altre parole, emozione e sentimento sono indispensabili per la razionalità, e quindi nel costruirsi della ragione cooperano sia le regioni cerebrali di livello alto sia quelle di livello basso. Dai lobi frontali, direttori d’orchestra delle nostre azioni, si scende all’ipotalamo, al midollo allungato e, tramite il sistema neuroendocrino diffuso, si interagisce con la periferia attraverso un processo di fusione mente-corpo. Secondo Francisco J. Varela, «la mente è fondamentalmente qualcosa che deriva dalla tonalità affettiva, che è incastonata nel corpo. […] Nel processo del sorgere momentaneo di uno stato mentale, gli stadi iniziali sono radicati nelle superfici senso-motorie vicino al midollo spinale nel mesencefalo, poi salgono nel sistema cosiddetto limbico» (2000, p. 11) e da ultimo nella corteccia superiore. Tutti noi, in particolare i medici, siamo convinti che il processo cognitivo sia solo quello legato alla comunicazione razionale espressa attraverso il linguaggio e la scrittura, ma se ci abituassimo a considerare cognitivo ogni stimolo percettivo riusciremmo a sviluppare una medicina molto più ricca di contenuti biologici. L’emozione infatti è già intrinsecamente cognitiva. Il tronco encefalico, proseguimento del midollo allungato che risiede nello speco vertebrale, tramite i nervi cranici riceve segnali da tutto il corpo, al quale ne invia poi, a sua volta, in continuazione. È nel tronco che sono collocati i nuclei che, in integrazione con l’ipotalamo, governano i sistemi simpatico e parasimpatico. In tale area, antichissima in senso evolutivo, si concentra il controllo delle funzioni vitali che riguardano la respirazione, l’attività cardiaca, la motilità intestinale, il sonno e la veglia. Da queste strutture cerebrali vengono secreti i più importanti neurotrasmettitori, quali la dopamina, la serotonina, l’acetilcolina, la noradrenalina e l’istamina. Nel tronco encefalico, secondo alcuni neuroscienziati, si può ipotizzare la nascita della coscienza. Proseguendo verso l’alto si trova una porzione del cervello definita diencefalo, che comprende il talamo e l’ipotalamo. Attraverso il talamo passano tutti i segnali che vanno dalla corteccia al tronco e viceversa, e quindi questa struttura si può considerare a tutti gli effetti come una ricetrasmittente. L’ipotalamo invece, che alcuni vorrebbero associare all’area limbica, è composto da una serie di nuclei neuronali che integrano numerose funzioni vitali, quali, per es., la fame, la sete, la temperatura corporea, l’attività endocrina, il comportamento sessuale, l’attività del SI e così via. Per questo motivo l’ipotalamo si collega con quasi tutte le strutture cerebrali, ma in realtà riceve informazioni anche dalla periferia e in particolare dal SI. I nuclei ipotalamici inoltre si interfacciano con aree cruciali quali l’amigdala, depositaria della memoria emozionale e in parte cognitiva, e l’ippocampo che svolge un ruolo chiave nella memoria cognitiva e sul quale i più recenti studi hanno fornito nuove importanti conoscenze. Infatti l’ippocampo produce nuovi neuroni (neurogenesi) e quindi nuovi ricordi a qualsiasi età, ed è collegato alla corteccia prefrontale, fondamentale per l’integrazione della memoria e il suo continuo aggiornamento. L’ippocampo e gli strati profondi della corteccia cerebrale, come il giro del cingolo, costituiscono l’area limbica, così definita nel 19° sec. da Pierre-Paul Broca. Questa struttura, con amigdala e diencefalo, è alla base dei processi emozionali e cognitivi.
La corteccia cerebrale, spessa pochi millimetri, ricopre gli emisferi e ha un aspetto convoluto, grazie a solchi o giri che le consentono di contenere circa 30 miliardi di neuroni. La corteccia viene divisa in quattro aree o lobi: frontale, parietale, temporale e occipitale. Una caratteristica peculiare della corteccia è la sua organizzazione in strati e in colonne. Le colonne sono come dei microscopici circuiti integrati costituiti da neuroni appartenenti ai diversi strati, che quindi lavorano in sinergismo fra di loro. Alcuni neuroscienziati considerano le colonne corticali come gli elementi unitari da cui nasce il network biologico origine della coscienza. Le funzioni della corteccia, per quanto riguarda la vista e l’udito, sono rappresentate prevalentemente nei lobi parietoccipitale e temporale. Le informazioni che giungono dai sensi vengono integrate ed elaborate nelle diverse aree con un meccanismo associativo. Nel caso della vista, per es., l’immagine di un oggetto viene scomposta in dimensioni, forma, profondità, colore e collocazione nello spazio. Tutti questi frammenti, situati in diverse aree associative, vengono poi ricomposti in un’immagine unitaria. Nella corteccia prefrontale, invece, si trovano le aree che presiedono ai movimenti e i circuiti dell’attenzione e della memoria. Le connessioni fra le aree della corteccia e le aree profonde del cervello sono bidirezionali. Dal talamo, per es., le informazioni raggiungono gli strati inferiori della corteccia, che a loro volta le trasmettono agli strati superiori, da cui verranno poi inviate al sistema limbico, ai nuclei della base e al cervelletto. La funzione del cervelletto è stata recentemente rivalutata, in quanto non è solo responsabile dei movimenti, ma collabora alla formazione della memoria, sia procedurale sia cognitiva. Ricordiamo infine che la maggior parte degli organi riceve una innervazione dal sistema sia simpatico sia parasimpatico o vagale, mentre uno dei pochi organi che riceve solo l’innervazione simpatica è la midollare del surrene, che attraverso particolari cellule di tipo neuroendocrino libera catecolamine (adrenalina, noradrenalina e dopamina). Questa via diretta che collega il cervello e il surrene è importante nella regolazione dello stress.
Lo stress
Il primo clinico a utilizzare il termine stress fu Hans Selye, che lo ricavò da strain, utilizzato in fisica con il significato di strappo, sforzo. Nel 1936 Selye, in seguito ad alcuni esperimenti, arrivò a identificare questo fenomeno come una condizione morbosa prodotta nelle cavie da laboratorio da stimoli nocivi e caratterizzata da modificazioni fisiopatologiche quali ipertrofia della corticale del surrene, ipotrofia del timo e degli organi linfatici e comparsa di ulcere sanguinanti dello stomaco. Più in generale, lo stress può essere considerato un insieme di reazioni a catena scatenate da uno stimolo esterno (stressor), che si estrinseca seguendo due vie, una comportamentale e l’altra biologica. Dal punto di vista comportamentale si osserva una modifica di atteggiamento dell’individuo che tenta di rimuovere l’evento stressante; dal punto di vista biologico l’attivazione del sistema neurovegetativo e neuroendocrino mette l’individuo in una condizione di ‘allerta’ (aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, degli atti respiratori), al fine di rispondere allo stimolo esterno. Gli eventi stressanti o stressor sono stimoli di varia natura che interessano comunemente gli individui; essi vengono classificati in biologici (infezioni), fisici (esposizione al caldo, al freddo, traumi), psicosociali (disoccupazione, separazione, lutti ecc.) e intrapsichici (paure, conflitti interni ecc.). I meccanismi che coinvolgono a catena il SNC, il SI e il SNE sono molteplici e dimostrati da numerose ricerche scientifiche sperimentali e cliniche (Cafiero, Prota, Marenzi et al. 2006). Gli ormoni ipotalamici e ipofisari e gli ormoni timici regolano la risposta immunitaria che, in presenza di eventi stressanti, può deprimersi o al contrario potenziarsi. La grande novità, dimostrata da pochi anni, è rappresentata dalla scoperta che le cellule di sostegno del SNC (astrociti, oligodendrociti e cellule della microglia) esprimono un’attività simile a quella delle cellule immunitarie, con liberazione di citochine, direttamente immesse nel sangue da parte delle cellule della microglia. Il nostro organismo è in grado di tollerare solo per brevi periodi uno stato di alterata omeostasi, che viene definito allostasi. Quanto più si rimane in questa condizione organica disarmonica o ‘eroica’, tanto più vi saranno conseguenze negative, che si possono così riassumere: a) aumenta il cortisolo ematico; b) si riducono i globuli bianchi e si altera la formula leucocitaria; c) si riducono i linfociti CD4 responsabili delle difese immunitarie; d) si riducono i linfociti natural killer; e) si riduce l’indice di blastizzazione, ossia la capacità dei linfociti di reagire a stimoli estranei e nuovi per l’organismo; f) si riduce la produzione di IFN-γ, IL-1, IFN-β; g) aumentano i titoli anticorpali dei virus latenti (herpes simplex 1 e 2, virus Epstein-Barr, citomegalovirus ecc.); h) si riducono le cellule nervose dell’ippocampo; i) aumenta la pressione arteriosa; l) aumenta la frequenza cardiaca.
Lo stress può essere nocivo, ma anche benefico. Una certa tensione, paragonabile al tono muscolare, è persino necessaria per potere fornire prestazioni efficienti. Non è semplice capire quando siamo in pericolo, in quanto lo stress è una condizione personalizzata sia per quanto riguarda la capacità di risposta del nostro organismo sia per il tipo di eventi scatenanti. Molti ricercatori nel campo della endocrinologia e della neuropsichiatria sono alla ricerca di indicatori dello stress al fine di elaborare uno strumento che ci permetta di capire quale sia la nostra tolleranza allo stress.
L’omeostasi, come ha spiegato Steven Rose (1997), è la tendenza dell’organismo a operare per regolare il proprio ambiente interno, ovvero si tratta della costante messa a punto fra il biologico e il sociale. I valori programmati per l’omeostasi cambiano continuamente in quanto lo stesso organismo gioca un ruolo attivo nel determinare il proprio destino, essendo dotato di grande plasticità nel corso dello sviluppo. Rose ha introdotto il concetto di darwinismo dinamico, secondo il quale l’organismo si modifica in relazione all’ambiente non in maniera passiva bensì attiva, in base all’ambiente sociologico nel quale si trova. Questa autopoiesi, ossia costruzione del Sé, è quindi caratteristica di noi umani, ma è importante, quando affrontiamo situazioni eroiche, avere la percezione di ciò che stiamo pagando in quel momento per sostenere quella determinata situazione operativa. A quel punto abbiamo due possibilità: o rientrare rapidamente nello status quo ante per evitare di ammalarci, o capire che l’organismo è in grado di sostenere quella scelta in quanto è riuscito a modificare la sua omeostasi. Chiave di volta del controllo dello stress è l’ippocampo, piccola formazione situata nei nuclei della base cerebrale, che immagazzina in memorie precostituite o engrammi neurali la rappresentazione dell’ambiente esterno frutto di esperienze precedenti. In tal modo l’ippocampo è in grado di valutare gli eventi reali con modelli teorici predeterminati. Una volta eseguito questo esame, l’ippocampo innesca una cascata neuroendocrina attivando l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Così facendo, questa efficientissima struttura cerebrale opera in due modi: controllando il mondo esterno e, in certe situazioni, trasformandosi in centro di attivazione neuroendocrina. Questa cascata neuroendocrina a sua volta si ripercuote sul comportamento dei linfociti T help-er, registi della risposta immunitaria.
I linfociti T helper sono suddivisi in due classi, Th1 e Th2, il cui equilibrio definisce la bilancia immunitaria analogamente al modello yin-yang della medicina cinese, ossia polarità opposte di un medesimo processo. Una condizione di stress cronico, creando uno sbilanciamento a favore dei Th1, può favorire la comparsa di malattie autoimmuni, quali la sclerosi multipla per il sistema nervoso, il morbo di Crohn per l’intestino e l’uveite per l’occhio. Una polarizzazione opposta invece può portare a un eccesso di risposta anticorpale, in particolare verso gli allergeni, con una iperproduzione di immunoglobuline di tipo E (IgE). Si ritiene che le allergie e il LES (Lupus Eritematoso Sistemico, malattia autoimmune da immunocomplessi) siano da attribuire all’eccessiva polarizzazione del circuito Th2.
Effetto placebo
Per effetto placebo s’intende la capacità dell’organismo di liberare sostanze endogene con finalità terapeutiche. L’effetto placebo viene utilizzato con frequenza nel campo della ricerca scientifica e in oncologia, e spesso vengono sviluppati protocolli scientifici terapeutici che comparano un nuovo farmaco antiblastico a un prodotto inerte definito appunto placebo. La statunitense Food and drug administration (FDA) considera il controllo effettuato con il placebo il migliore possibile. Le sue linee guida per la registrazione di nuove molecole ne prevedono l’utilizzo almeno per certe classi di farmaci. Sul piano scientifico sono tre gli argomenti che vengono addotti a sostegno dell’utilizzo del placebo nella ricerca clinica: a) il placebo costituisce un punto di riferimento; b) spesso risulta difficile decidere con quale trattamento sia più opportuno confrontare una nuova molecola; c) è più facile valutare la significatività statistica negli studi clinici controllati con il placebo. Che i pensieri e le emozioni possano influire sulla nostra salute, alla luce dello sviluppo della PNEI e delle ricerche scientifiche su di essa, non è una novità, e sempre più in questi ultimi anni stanno nascendo pratiche sanitarie scientificamente validate i cui risultati vengono ascritti al placebo.
Studiosi dell’University of Michigan hanno dimostrato che il placebo induce il nostro cervello a produrre una maggiore quantità di endorfine, analgesici naturali. In un lavoro del 1997 (Fields, Price) si è potuto osservare, grazie alle tecniche più avanzate di imaging cerebrale, ossia PET (Positron Emission Tomog-raphy) e fMRI (functional Magnetic Resonance Imag-ing), quello che succede nel cervello dopo la somministrazione di un placebo. Questo studio conferma quanto riportato in un precedente lavoro (Ma, Shi, Han 1992), da cui si evince che il naloxone, farmaco che blocca l’azione della morfina e delle endorfine, somministrato assieme al placebo ne riduce gli effetti. La mente, quindi, in qualche modo controlla la chimica del cervello. Come si attivi questa capacità e come indurla in base alla necessità sono oggetto di studio. La sfida della medicina odierna consiste nell’identificare i percorsi che collegano le condizioni mentali alle risposte organiche fisiologiche e patologiche. Da anni è noto il circuito del piacere, conosciuto come sistema dopaminergico mesolimbico e caratterizzato da una rete specializzata di neuroni che usano come neurotrasmettitore la dopamina. Si tratta di una via cerebrale comune a diversi stimoli positivi, naturali o sintetici che siano, nella quale il risultato finale è sempre lo stesso, e cioè il rilascio di dopamina, il neurotrasmettitore coinvolto nei processi di gratificazione.
Più di recente è stato identificato il sistema endocannabinoide con i suoi recettori per la morfina (CB1), che ha consentito di capire meglio i collegamenti fra le cellule del sistema nervoso. Recettori CB1 sono stati trovati anche negli adipociti, e infatti il sistema endocannabinoide è coinvolto nell’assunzione del cibo, nel bilancio energetico e nel consumo di tabacco. Gli endocannabinoidi svolgono un importante ruolo nella regolazione dell’ansia e del vomito, nel controllo del dolore e nel prevenire la morte neuronale; questo è il motivo per cui la ricerca scientifica è impegnata a sviluppare farmaci derivati dalla marijuana, senza i suoi effetti collaterali. La marijuana, infatti, presenta notevoli vantaggi terapeutici in quanto allevia l’ansia e il dolore ed elimina il riflesso del vomito, riducendo i danni tossici della chemioterapia. Recenti scoperte della biologia e della neurobiologia permettono di ricostruire l’interpretazione dell’effetto placebo in modo assai nuovo e accurato, in quanto questo particolare effetto costituisce per ogni individuo un patrimonio biologico frutto di una complessa storia evoluzionistica collettiva, e nel contempo è espressione di una individualità biologica correlata a una summa di esperienze cognitive. Lo sviluppo della PNEI, infatti, ha potuto spiegare come ogni minimo stimolo cerebrale si traduca in uno stimolo elettrico, e come questo a sua volta possa indurre modificazioni neurochimiche e liberazione di neurotrasmettitori che attraverso la via ematica si diffondono in tutto l’organismo.
Le risposte del SI e i neurormoni prodotti dalle cellule immunitarie inducono parallelamente una serie di modificazioni a carico del sistema neuroendocrino e del sistema nervoso centrale, per cui questa intricata rete di recettori e messaggeri cellulari rappresenta il complesso sistema di comunicazione fra psiche e soma e spiega ampiamente sia l’effetto placebo sia l’effetto nocebo. A proposito di quest’ultimo, è stato dimostrato come l’ansia attivi una serie di circuiti nervosi che dall’ipotalamo passano all’ipofisi e da qui arrivano alla ghiandola surrenale, con conseguente liberazione di ormoni dello stress (come il cortisolo). Questo meccanismo spiega l’aumento del dolore o del vomito nei pazienti portatori di tumori, in chemioterapia.
Come ha scritto Edelman (2004), la mente di un individuo non risiede nel cervello, ma è rappresentata da un Io cognitivo inteso come struttura in continuo mutamento; da questa considerazione deriva che l’effetto placebo è frutto di una summa di eventi biologici vissuti dall’organismo attraverso continui mutamenti indotti dalle varie esperienze. Le conclusioni finora raggiunte nel campo delle neuroscienze indicano che i processi mentali derivano dall’attività di sistemi cerebrali straordinariamente intricati a molti e diversi livelli di organizzazione. Allo stato attuale delle conoscenze, tali livelli comprendono sicuramente quelli molecolari, cellulari, di organismo (l’intera creatura) e di transorganismo (la comunicazione empatica). È sorprendente, afferma Edelman, rendersi conto di quante connessioni si proiettino da ognuno di questi livelli a un altro, da una reazione di paura indotta, da un grido di avvertimento a un processo biochimico che condiziona il comportamento futuro. Da un’infezione virale come stimolo del sistema immunitario si arriva a una modificazione dello sviluppo del cervello con una sua conseguente diversa maturazione. Esemplificando, se un bambino contrae una malattia esantematica di natura virale con forte reazione febbrile, espressione della produzione di anticorpi in risposta all’attacco virale, viene indotta un’intensa modificazione delle strutture cerebrali conseguente al bombardamento di neurotrasmettitori e ormoni prodotti dai linfociti, che contemporaneamente si attivano per produrre anticorpi. Questo evento biologico determina, come conseguenza, notevoli modifiche a carico delle strutture cerebrali plasmandole in senso evolutivo come risposta a uno stimolo cognitivo derivante dal sistema immunitario. Quindi, la summa di eventi emozionali e biologici modella lo sviluppo del bambino che potrà, a seconda delle esperienze vissute, costruire un’immagine di sé forte o inadeguata, distaccata o dipendente. Lo sviluppo della mente va reintegrato all’interno della natura; nel corso dell’evoluzione, infatti, i corpi sono pervenuti ad avere menti, ma questa osservazione non basta ad affermare che la mente è parte integrante del corpo: occorre dimostrare in che rapporto strutturale e funzionale la prima interagisca con il secondo.
Se riportiamo queste riflessioni sullo sviluppo della mente attraverso il processo evoluzionistico all’effetto placebo, possiamo comprendere come tale risposta biologica, collegata al processo dell’apprendimento, non sia esclusivo appannaggio dell’uomo, ma appartenga in generale al mondo animale. L’effetto placebo, infatti, è collegato alle aspettative costruitesi attraverso l’apprendimento. Se a un topo di laboratorio viene iniettata sottocute una minima dose di apomorfina in un ambiente che gli è familiare, all’animale aumenta la salivazione e si rizza il pelo; quindi esso si appallottola manifestando sintomi di sofferenza per un breve periodo. Qualche mese dopo, se allo stesso topo, posto nello stesso ambiente, si inietta una minima dose di soluzione fisiologica, egli ripropone lo stesso tipo di comportamento sofferente. Questa reazione si definisce, al contrario dell’effetto placebo, effetto nocebo collegato all’apprendimento (Wall 1999). Se l’effetto placebo è la realizzazione di un’aspettativa, le aspettative si apprendono a livello individuale; se più persone condividono le stesse aspettative si genera una cultura. La cura, in generale, non può prescindere dall’aspetto relazionale, per cui se medico e malato nutrono fiducia l’uno nell’altro, la terapia, se corretta, in genere funziona. Conseguentemente, anche la compressa assume nella cultura medica occidentale il valore di un simbolo, quello della vittoria dell’intelligenza umana sui mali provocati dalla natura.
Conclusioni
Allo scopo di rendere chiaro quanto l’assetto psichico possa modificare una risposta biologica, riporto un caso clinico, paradigmatico, affrontato negli anni Novanta all’ospedale di Niguarda, a Milano. Il paziente era un uomo di 40 anni, vestito sempre con grande accuratezza, molto preciso nel suo eloquio e nella spiegazione dei suoi sintomi che registrava su un piccolo blocco di appunti. Soffriva di asma notturna e fin dalle prime visite il suo caso risultò di difficile soluzione terapeutica. Clinicamente l’auscultazione del torace e la spirometria confermavano l’asma bronchiale. Ricevuta la prescrizione dell’adeguata terapia, il paziente si presentava mensilmente alla visita, specificando che dopo qualche giorno di benessere l’asma notturna si era comunque ripresentata. Si proseguì in questo modo per oltre un anno; di questo paziente colpiva l’atteggiamento estremamente pignolo nella descrizione dei sintomi, il che rappresentava la spia di uno stato psichico ossessivo. Dopo che gli era stata prescritta l’ennesima terapia, il paziente non si fece vedere per un lungo periodo. In seguito ricomparve per un controllo, comunicando la sua guarigione dall’asma e specificando di essersi finalmente liberato grazie all’intervento di una fattucchiera, che aveva infilato una serie di spilloni nel suo letto. Inviato dallo psichiatra, il paziente risultò in una condizione psicotica tipica dei malati borderline, che passano da stati normali a stati psicotici. Clinicamente, in quella condizione psichica, il paziente non risultava asmatico e la spirometria era normale. La deduzione ricavata da questo caso fu lineare: quando il paziente si trovava in uno stato psichico di normalità soffriva d’asma, quando invece entrava nella condizione psicotica l’asma scompariva, a conferma di come l’assetto psichico possa modificare il comportamento biologico.
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