Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Si diffonde alla fine del XIV secolo una nuova malattia sconosciuta, mai catalogata dagli autori antichi: la sifilide. Oggi si ipotizza che sia stata introdotta in Europa dal continente americano, in seguito alle spedizioni spagnole; all’epoca l’assoluta novità viene percepita con difficoltà e reticenze, ma si pone alla base delle ricerche mediche future, superando il tradizionale sistema di riferimento aristotelico-galenico.
Il miasma e lo stigma sociale
In un passo dell’Anathomice (1502) Alessandro Benedetti riporta una delle prime osservazioni sulle insolite tumefazioni osservate sulle ossa di una donna morta di “morbo gallico”. A suo parere, la malattia deriva dal contatto sessuale con un ammalato, ed è stata fino a quel momento del tutto ignota alla medicina. Negli anni Novanta del secolo infatti si diffonde in Europa, con una rapidità che provoca lo sconcerto dei medici e la disperazione dei malati, una malattia sconosciuta e terribile: pur non avendo effetti letali immediati, e anzi essendo caratterizzata da lunghi periodi di apparente remissione, porta a mutilazioni gravissime e conduce a una vita di umiliazioni e difficoltà, oltre ad avere effetti ereditari non trascurabili.
Risulta evidente dal primo momento che la sifilide si trasmette per via sessuale; come sempre accade in questi casi, la malattia viene così associata a nozioni di purezza e impurità e, nonostante la sua ampia diffusione, coloro che ne soffrono sono colpiti da un grave stigma sociale. In questo caso, il gruppo degli “untori” viene identificato nelle prostitute, e la causa della malattia ricondotta in prima istanza ai peccati delle donne che esercitano questa professione e di coloro che hanno rapporti sessuali con loro. Lo sforzo di “allontanare” il male è anche registrato nelle variazioni dei suoi nomi. Lo si definisce, tra l’altro, morbo gallico, spagnolo, napoletano, indico, polacco, tedesco: è chiaro il tentativo di identificare di preferenza i diffusori in una popolazione o nazione nemica. La malattia sembra infatti aver avuto origine in Italia, e la sua diffusione viene osservata per la prima volta nell’armata di Carlo VIII che aveva conquistato il Regno di Napoli. La parola “sifilide”, un neologismo grecizzante, risale al 1530, quando il medico Girolamo Fracastoro descrive la malattia in un poema autobiografico, Syphilis, sive de morbo gallico.
L’insufficienza dei saperi antichi
La disputa che immediatamente si accende riguarda però la novità del morbo, la cui sintomatologia, impressionante per l’evidenza dei suoi segni e per la rapidità del suo decorso, non era riportata da nessun autore antico noto. Nicolò Leoniceno, come altri medici suoi contemporanei, ritiene che i testi che ne contenevano la descrizione siano andati dispersi. Per lui, come per i sostenitori più accaniti di un ritorno alle fonti antiche e più pure della medicina, la sapienza dei Greci non poteva che essere un vertice inattingibile, che ai moderni era solo dato recuperare, non modificare o arricchire.
Ma i più avvertiti, come appunto Benedetti, la descrivono senza esitazioni come una malattia del tutto nuova. La questione non è ancora risolta definitivamente. Infatti, nonostante periodicamente sia annunciato il ritrovamento di resti umani precedenti l’arrivo degli Europei nelle Americhe, e che porterebbero le tracce di lesioni sifilitiche – particolarmente evidenti a livello osseo –, finora non sono state trovate prove scientifiche convincenti né a conferma di una presenza della sifilide in Europa prima degli ultimi anni del XV secolo, né dell’esistenza di sindromi attenuate ma riconducibili al batterio treponema pallidus, che causa la malattia. Si può dunque ipotizzare che effettivamente la malattia sia stata introdotta in Europa dal continente americano in seguito alle spedizioni spagnole, e che la sua disastrosa diffusione e pericolosità siano state dovute all’assenza nelle popolazioni al di qua dell’oceano di un’immunità acquisita, che proteggeva, almeno in parte, le popolazioni amerindie. Peraltro, è importante sottolineare come lo scambio di malattie infettive con il mondo “nuovo” sia stato del tutto sbilanciato a svantaggio delle popolazioni native americane. A parte i disastrosi effetti demografici dello sfruttamento coloniale, che non ebbe alcun riguardo per le culture e gli usi che incontrava, configurando così casi di veri e propri genocidi, le malattie importate dagli Europei, anche quelle che non avevano un’alta letalità, come il vaiolo, decimarono popolazioni che avevano appunto basse o inesistenti difese immunitarie specifiche.
Nuove farmacopee
La medicina si trova dunque, come già era avvenuto con le nuove specie botaniche e i nuovi rimedi, a dover “catalogare” e accettare realtà nosologiche e patologiche estranee al quadro della scienza costituita. Lo fa con comprensibili difficoltà e resistenze.
Non è un caso che i due principali mezzi terapeutici impiegati contro la sifilide siano le infusioni di guaiaco (il “legno santo”), una pianta anch’essa proveniente dalle isole caraibiche, e le unzioni e fumigagioni di mercurio, caratteristiche della medicina chimica. Queste ultime, data l’estrema tossicità del metallo, provocano effetti collaterali quasi peggiori del male: caduta dei denti e dei capelli, gravi lesioni cutanee, e perfino la morte del paziente. Entrambi i rimedi provengono dunque da farmacopee “nuove”, l’una per ragioni geografiche e l’altra perché originata e utilizzata in un ambito, quale quello della pratica chimica, estranea e spesso ostile alla medicina ufficiale.
L’endemia di sifilide provoca anche un altro effetto, visibile sul lungo periodo e dunque ascrivibile più al XVI che al XV secolo: la creazione degli ospedali degli Incurabili. Come si è visto, le istituzioni ospedaliere si vanno trasformando proprio in questo periodo, perdendo il loro carattere di generico ricovero per pellegrini, vagabondi, bambini abbandonati, per diventare istituzioni a carattere più specificamente medico-assistenziale. La sifilide contribuisce sia a incrementarne la costruzione e la diffusione – ospedali degli Incurabili sono allestiti in quasi tutte le maggiori città italiane, e spesso hanno conservato nei secoli questo nome, anche quando sono stati adibiti ad altre funzioni – sia a portare in evidenza, sulla scena urbana come su quella medica, una malattia cronica la cui causa non è da ricercare nel regime di vita o nella costituzione individuale, ma in un imprecisato “veleno” che attacca le parti più intime del corpo. Negli ospedali degli Incurabili ci si prende cura – nei limiti in cui ciò può avvenire – di questi malati, distribuendo gratuitamente il legno santo e altri medicamenti, e riorganizzando l’architettura di queste istituzioni in modo significativo.
Il ripensamento scientifico
Sul piano della riflessione scientifica ed eziopatogenetica la comparsa della sifilide segna un mutamento che in principio sembra di scarso rilievo, ma che getta le basi per una delle più significative rivoluzioni nel pensiero medico, la scoperta del mondo dell’infinitamente piccolo e il riconoscimento del ruolo svolto da agenti patogeni viventi.
La microbiologia è una scienza del tardo Ottocento, ma il sapere medico è costretto già al principio del XVI secolo a prendere atto di fenomeni incompatibili con il quadro esplicativo aristotelico-galenico. Per la medicina antica la spiegazione delle malattie contagiose ed epidemiche era da ricercare in aria cattiva, miasmi che si sprigionavano dalla terra o erano originati da fenomeni celesti. Con un certo sforzo, anche il fenomeno del contagio può essere accomodato all’interno di questo quadro, e le insorgenze periodiche della peste vengono infatti spiegate in termini miasmatico-epidemici. Nel caso della sifilide questo adattamento non è possibile. L’evidenza del contagio per via sessuale, e il suo carattere esclusivo nel determinare la malattia, sono empiricamente evidenti, e al più si può concedere che vi sia un ruolo della “costituzione” dei singoli individui, più o meno ricettivi all’infezione.
Nessun miasma può essere invocato per un male la cui insorgenza è legata così evidentemente a episodi specifici di contatto con ammalati o ammalate. Si pensa che la “putredine”, ritenuta la causa materiale della malattia, possa originarsi nel corpo di un malato per poi tramettersi a un altro; ma anche questa spiegazione presenta problemi non indifferenti. Lentamente si fa strada l’ipotesi che il veleno della sifilide possa essere in qualche maniera “vivo”. Il medico veronese Girolamo Fracastoro, del cui poema si è detto, influenzato dal revival delle teorie atomistiche antiche, e in particolare lucreziane, individua la causa del male che lo aveva colpito in seminaria, entità capaci di trasmettersi da un individuo all’altro e di “germogliare”, analogamente ai semi delle piante, nell’organismo. La strada per una riconsiderazione del quadro nosologico ed eziopatogenetico antico viene così aperta da una malattia che veniva dal Nuovo Mondo.