di Noemi Lanna
Negli ultimi tre lustri, il peso della memoria storica ha condizionato in modo determinante le interazioni tra gli attori del Nord-Est asiatico, una sub-regione cruciale per gli equilibri mondiali sia sul piano geostrategico, come dimostrano le drammatiche implicazioni della questione nucleare nordcoreana, sia su quello geoeconomico, essendo localizzate in questo quadrante della regione le tre economie (Cina, Corea del Sud, Giappone) che insieme producono circa il 75% del pil dell’Asia Orientale. In particolare, il ‘problema della storia’, cioè l’insieme delle controversie generate dal complesso rapporto tra identità nazionale e la memoria del breve ma distruttivo ordine regionale nippocentrico (1931-45), è diventato uno dei principali motivi di attrito nelle relazioni tra il Giappone e la Cina e la Corea del Sud. Sono stati il ‘problema dei libri di testo’ (kyokasho mondai) e le reiterate visite di uomini politici giapponesi al santuario Yasukuni di Tokyo a porre la questione al centro dell’agenda politica nordestasiatica.
Il ‘problema dei libri di testo’ è legato al sistema di adozione dei testi scolastici in vigore in Giappone, che prevede uno scrutinio preventivo dei manuali (inclusi quelli di storia) da parte del ministero dell’istruzione. Nel 1982, per la prima volta, Cina e Corea del Sud criticarono duramente il Giappone per le decisioni prese dal ministero riguardo ad alcuni manuali di storia. Rimostranze analoghe vennero formulate nel 1986, nel 2001 e nel 2005 e furono accompagnate da massicce manifestazioni anti-giapponesi in Cina e Corea del Sud. Le critiche dei vicini asiatici riguardavano la descrizione della storia del Giappone successiva alla Restaurazione Meiji (1868) presente in alcuni dei libri di storia, approvati dal ministero. Tra i passaggi bollati come revisionistici figuravano, per esempio, quelli relativi alle ‘donne conforto’ (le donne asiatiche costrette a prostituirsi a beneficio dell’esercito nipponico), alla deportazione coatta di cittadini coreani in Giappone e all’eccidio di Nanchino (1937).
Negli stessi anni in cui la controversia sui manuali diventava una questione scottante nelle relazioni bilaterali tra il Giappone ed i suoi vicini, uomini politici giapponesi si recarono in visita al santuario shintoista Yasukuni, il monumento che custodisce le spoglie dei giapponesi caduti per la patria, incluse quelle di alcuni leader condannati come ‘criminali di guerra’ dal tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente. Nakasone Yasuhiro, in carica dal 1982 al 1987, è stato il primo premier a visitare in veste ufficiale Yasukuni nel 1985. Visite analoghe sono state effettuate dal premier Koizumi Junichiro (in carica dal 2001 al 2006) e, più recentemente, dall’attuale primo ministro giapponese Abe Shinzo che si è recato a Yasukuni il 26 dicembre 2013, formulando un controverso ‘giuramento per la pace perpetua’.
È fin troppo chiaro che in questa guerra della memoria la posta in gioco non è solo la storia. Il passato è stato trasformato in una leva di potere, utilizzata per legittimare rivendicazioni all’interno o all’esterno del paese. L’uso strumentale della memoria storica finalizzato alla ricerca del consenso interno chiarisce, per esempio, perché i governi giapponesi che si sono succeduti negli ultimi quindici anni abbiano gestito le relazioni con i propri vicini oscillando tra negazionismo e riconciliazione. Alle sortite revisionistiche di alcuni politici giapponesi, esasperate da un nazionalismo radicato in una particolaristica esaltazione della eccezionalità nipponica, sono state alternate ufficiali dichiarazioni di scuse per le atrocità commesse durante gli anni del militarismo. Allo stesso modo, cioè alla luce di variabili che riguardano la power politics più che la storia in sé, è possibile spiegare il ricorso alla ‘diplomazia del fumie’ da parte della Cina e della Corea del Sud. Questa strategia, finalizzata ad ottenere l’abiura del passato militarista da parte del vicino giapponese (un passato che si voleva fosse metaforicamente calpestato come i ‘fumie’, le immagini sacre che ai cristiani perseguitati veniva chiesto di rinnegare nel Giappone Tokugawa), è stata applicata in modo sapientemente selettivo. Negli anni Settanta, per esempio, in occasione dei negoziati per la stipula del Trattato di pace sino-giapponese, la Cina, bisognosa della collaborazione economica del Giappone, si astenne dal formulare rivendicazioni legate agli anni della dominazione giapponese. L’atteggiamento di Pechino cambiò negli anni Ottanta quando il Paese iniziò a godere dei primi frutti delle politiche di ‘apertura’ (gaige kaifang). Complessivamente, l’evoluzione delle relazioni sino-giapponesi e nippo-sudcoreane degli ultimi trent’anni dimostra che il ‘problema della storia’ è emerso quando i vicini del Giappone sono stati in grado di negoziare in condizioni di ridotta dissimmetria di potere, per poi acutizzarsi quando la posizione egemonica di Tokyo nello scacchiere economico asiatico è stata per la prima volta insidiata.