Un patrimonio decapitato
Le gravissime distruzioni dei beni artistici e archeologici di Siria, Iraq e Yemen vengono dalla furia iconoclasta jihadista. Ma anche dagli scavi clandestini condotti dallo stesso IS e da gruppi di tombaroli che hanno trovato nel saccheggio una fonte alternativa di sussistenza in tempo di guerra.
Dopo quasi 5 anni di guerra civile siriana e a oltre un anno di distanza dalla conquista di Mosul e dell’Iraq nordoccidentale da parte del sedicente Stato Islamico (IS) nel giugno del 2014, una parte significativa dello straordinario patrimonio culturale della Siria e dell’Iraq si trova sotto il controllo di forze islamiste, che perseguono la deliberata distruzione dei monumenti e siti archeologici come strumento politico e di lotta per il potere. Ma la furia iconoclasta jihadista, che nel suo accanimento contro quelli che considera simboli dell’eresia antica – ma anche islamica – costituisce certo il fattore più grave di devastazione dei beni culturali del Vicino Oriente, non rappresenta l’unico rischio per il patrimonio archeologico e artistico della regione. A esso, infatti, si affiancano minacce meno manifeste ma altrettanto gravi, come gli scavi clandestini condotti sia dall’IS o da bande organizzate di tombaroli collegati al terrorismo jihadista sia dalle popolazioni locali depauperate da anni di guerra, che nel saccheggio dei siti archeologici e in alcuni casi anche dei musei cercano una sussistenza alternativa che consenta di sopravvivere al drammatico conflitto in corso.
Molti siti e monumenti di Siria e Iraq, inoltre, sono stati danneggiati o distrutti nei combattimenti fra le parti belligeranti o come conseguenza del loro utilizzo come zona di acquartieramento o postazione militare da parte degli eserciti ufficiali (soprattutto quello siriano) e delle formazioni militari dell’opposizione islamista e laica.
Il quadro dei rischi che minacciano il patrimonio artistico e archeologico del Vicino Oriente (negli ultimi mesi si è aggiunto un nuovo fronte di guerra e di distruzione di siti e monumenti nello Yemen) è dunque complesso e articolato e viene ulteriormente aggravato dal diffuso contrabbando di reperti archeologici, diventato una significativa, anche se difficilmente quantificabile, fonte di finanziamento dell’IS e delle formazioni qaediste e, in misura minore, anche di piccoli trafficanti di ‘sussistenza’. Infine, l’assenza sul terreno di osservatori neutrali e dotati di competenze tecniche ha reso difficile l’accertamento della natura e gravità dei danneggiamenti e delle distruzioni del patrimonio culturale siriano e iracheno. Tuttavia, se la verifica dei rapporti pubblicati da organizzazioni governative e non nei rispettivi siti web e da attivisti siriani e iracheni risulta difficile, l’utilizzo di immagini satellitari ha consentito di verificare in molti casi dimensione e qualità dei danni subiti dai monumenti.
L’impiego di immagini satellitari e le informazioni provenienti dall’interno della Siria hanno permesso di accertare che 5 su 6 siti siriani Patrimonio dell’umanità hanno subito danni significativi o addirittura, in alcuni casi, sono stati distrutti. Attualmente, solo la Città vecchia di Damasco risulta non danneggiata in maniera seria, mentre distruzioni massicce sono evidenti nella Città vecchia di Aleppo, dove negli scontri tra esercito e opposizione sono stati distrutti, fra i vari edifici, il minareto selgiuchide della Grande moschea, la madrasa alKhosrofiyeh (costruita nel 153746 da Sinan, l’architetto di Solimano il Magnifico), la madrasa alSultaniyeh, lo hammam (bagno turco) Yalbougha anNasry, il khan (caravanserraglio) Qurt Bey. Lesioni estese sono evidenti anche in numerosi edifici del suq alMedina, il mercato coperto medievale, e nella cittadella di Aleppo, al cui interno scavi archeologici avevano da poco portato alla luce il Tempio del dio della tempesta del 3°1° millennio a.C.
Significativi danni sono stati registrati nel teatro romano di Bosra, nel sito di età ellenistica e romana di Palmira – dove in agosto l’IS ha fatto saltare i templi di Baalshamin e di Bel – e nel suo museo (dove la statua della dea Allat è stata distrutta dall’IS nel giugno del 2015), nel castello crociato del Crac dei cavalieri e nelle cosiddette Città morte di epoca tardoantica della Siria nordoccidentale.
La città ellenistica e romana di Apamea con il suo lungo cardo di stile corinzio è stata saccheggiata in modo irrimediabile da scavi clandestini che hanno interamente distrutto il sito, devastandone anche le parti non ancora fatte oggetto di scavi archeologici. Nella Siria orientale sotto il controllo dell’IS due città d’importanza cruciale per la storia e l’arte della Siria di età preclassica e classica, Mari e Dura Europos, sono egualmente oggetto di scavi illegali estesissimi. Il confronto fra le immagini satellitari dei siti riprese nel 2012, quando la regione non era ancora caduta sotto il controllo dell’IS, e nel 2014 hanno rivelato, soprattutto a Dura Europos, la presenza di migliaia di buche scavate da tombaroli, la cui attività ha completamente distrutto il sito.
Gravi saccheggi sono documentati anche nelle città di epoca assira di Tell Sheikh Hamad, Tell Ajaja e Tell Hamidiyah nella valle del fiume Khabur, il maggior affluente dell’Eufrate.
Altrettanto drammatiche sono le devastazioni accertate in Iraq. La conquista della regione sunnita dell’Iraq e la proclamazione del Califfato islamico nel 2014 hanno segnato l’inizio di una serie di tragiche distruzioni del patrimonio culturale iracheno di epoca assira, classica e islamica. Nel luglio 2014 l’IS ha fatto esplodere la moschea medievale costruita al di sopra della tomba attribuita dalla tradizione al profeta biblico Giona, simbolo della pacifica coesistenza in Iraq delle 3 grandi religioni monoteistiche. La moschea sorgeva sulla collina di Nebi Yunis, una delle acropoli dell’antica Ninive, l’ultima capitale dell’impero assiro.
È seguita la devastazione del Museo archeologico di Mosul, dove sono state distrutte sculture (ma anche copie di gesso) di epoca partica provenienti da Hatra e sono stati trafugati preziosi reperti assiri di dimensioni contenute e facilmente esportabili all’estero per essere poi venduti sul mercato clandestino dell’arte.
Contemporaneamente, a Ninive, i terroristi hanno danneggiato 2 colossali lamassu, sculture di geni protettori delle porte rappresentati da tori androcefali alati, musealizzati nella porta del dio Nergal. Queste terribili distruzioni segnano l’inizio dell’opera di annichilimento del patrimonio culturale iracheno – inteso come simbolo identitario della regione – da parte dell’IS, che l’accompagna alla politica di sistematica pulizia etnica praticata contro le comunità minoritarie locali considerate eretiche (yazidi, assiri, caldei) o, se musulmane (turcomanni), apostate.
L’opera di pulizia culturale si realizza attraverso una serie di micidiali distruzioni compiute dal terrorismo jihadista contro le capitali assire. Nell’aprile 2015 viene fatto esplodere il palazzo di Assurnasirpal a Nimrud, l’antica Kalhu, capitale dell’impero assiro nel 9° e 8° sec. a.C.: con questo palazzo, forse l’edificio meglio conservato dell’antica Assiria, scompaiono anche numerose lastre di gesso scolpite a rilievo che decoravano le pareti della grandiosa fabbrica palatina. Nello stesso mese sono state demolite anche numerose sculture architettoniche che decoravano le facciate degli edifici pubblici di Hatra, la città carovaniera nel deserto iracheno capitale di un regno arabo a cavallo fra gli imperi partico e romano.
Se la cancellazione di edifici e sculture assire e di età partica ha dominato l’attenzione internazionale, minor copertura mediatica è stata riservata alla distruzione di monumenti medievali unici, la cui scomparsa è altrettanto grave poiché si tratta di edifici spesso poco studiati e documentati. Le demolizioni del mausoleo dell’imam Yahya ibn alQasim e della tomba dell’imam Ibn Hassan Aoun alDin a Mosul (entrambi del 13° sec.) e del mausoleo dell’imam Dur a Samarra (11° sec.) hanno cancellato alcuni degli esempi più antichi e celebri dell’architettura islamica irachena. Anche i monumenti cristiani medievali della regione non sono sfuggiti alla furia iconoclasta dell’IS, che nel marzo del 2015 ha fatto esplodere il monastero siriaco cattolico di Mar Behnam e Mart Sarah a nordest di Nimrud.
Siti come Palmira in Siria e Assur in Iraq rimangono sottoposti al controllo dell’IS e quindi esposti al rischio di altre gravi e irreparabili distruzioni. E mentre nella sua fanatica visione salafita dell’islam il Califfato cancella i monumenti degli eretici e degli apostati per annientare, assieme alle comunità etniche locali, anche la loro storia e identità culturale, contemporaneamente vende sul mercato internazionale dell’arte i reperti contrabbandati all’estero dai trafficanti clandestini. Una rete di tombaroli, intermediari, antiquari e consulenti fa arrivare tesori rubati in Siria e Iraq, attraverso la Turchia e il Libano, nei paesi in cui il mercato dell’arte è più fiorente, come la Svizzera, la Gran Bretagna, la Germania, gli Stati Uniti, il Giappone e i porti franchi degli Emirati Arabi e di Hong Kong. Qui mercanti senza scrupoli sono in grado di ‘ripulire’ i reperti antichi, dotandoli di documenti che ne certifichino l’appartenenza a collezioni private formatesi prima che entrassero in vigore le leggi contro il traffico clandestino di reperti archeologici, e di rifornire ogni tipo di acquirente, dal ricco collezionista ai musei fino al collezionista comune, che può acquistare monete e ceramiche provenienti dall’antica Mesopotamia anche su eBay, il sito online dove si acquista e si vende di tutto.
Il sacrificio di mister Palmira
Nato nel 1932 a Tadmur – nome arabo di Palmira –, dopo gli studi nella sua citta natale Khaled alAsaad si iscrisse alla Università di Damasco, dove si laureò in storia e pedagogia nel 1962. Grazie ai lavori svolti negli anni di studio presso il Dipartimento dei musei e delle antichità come responsabile dei progetti di studio e ricerca, già dal 1960 aveva iniziato la collaborazione con studiosi di tutto il mondo per le indagini sulle prime civiltà di Palmira – lavoro anche grazie al quale la ‘sposa del deserto’ ottenne nel 1980 il riconoscimento UNESCO di Patrimonio dell’umanità. Nel 1963 fu nominato direttore del sito archeologico e del Museo di Palmira, carica ricoperta con tale passione e dedizione da fargli meritare il soprannome internazionale di ‘mister Palmira’, che ha mantenuto fino al 2003 quando andò formalmente in pensione. AlAsaad continuò comunque a occuparsi della sua città come consulente del Dipartimento dei musei e delle antichità e nei primi mesi del 2015, quando la furia iconoclasta aveva già prodotto danni incalcolabili, aveva assicurato che tutte le opere fossero state messe al sicuro e nascoste da possibili attacchi. Rapito a metà luglio dai militanti dello Stato Islamico, secondo quanto riferito dal quotidiano britannico The Guardian, alAsaad si sarebbe rifiutato di dare informazioni sull’esatta collocazione delle opere nascoste, subendo per questo torture ripetute e la pubblica esecuzione: il 18 agosto è stato ucciso sulla piazza di fronte al Museo della città moderna di Palmira, e in seguito il suo corpo decapitato è stato esposto al pubblico.
Libia, i fanatici contro l’arte
Trascorsi 4 anni da quando l’opposizione al regime del colonnello Muammar Gheddafi nel 2011 ha condotto al crollo della Jamahiriyya arabolibica, oggi siamo lontani dal clima di ottimismo nella ‘rinascita’ della Libia che si era instaurato con la proclamazione della ‘liberazione’ da parte del Consiglio nazionale di transizione: il rinnovamento avrebbe dovuto costituire un cambiamento di passo anche per il Department of archaeology of Libya (DoA), l’organo preposto alla tutela delle antichità, che tuttavia gli avvenimenti succedutisi nel paese dal maggio 2014 hanno contribuito a minare.
Con la crescente instabilità interna e la disgregazione delle istituzioni, oggi è palese che il percorso della riappropriazione della propria storia e della salvaguardia, della messa in valore e gestione del proprio patrimonio culturale è più lontano a causa della mancanza di un’identità comune, alimentata dalla crescente decoesione tra le macroaree geopolitiche che compongono la Libia. In Tripolitania le aree archeologiche non sono state oggetto di atti di vandalismo, se non di episodi occasionali, come la rimozione della statua di bronzo con una donna nuda abbracciata a una gazzella in una fontana a Tripoli.
Altra è la situazione in Cirenaica, specialmente a Cirene, dove la rivendicazione da parte della comunità locale del diritto alla riappropriazione dei terreni espropriati ai privati in età coloniale ha portato allo spianamento con l’uso di ruspe di considerevoli settori dell’amplissima necropoli, che si estende al di fuori dei limiti della zona protetta, al fine di ricavare lotti di terreno edificabile.
Le immagini diffuse sugli atti di vandalismo di cui è stata oggetto l’arte rupestre fezzanese sono preoccupanti, tanto più in mancanza di una valutazione generale delle attuali condizioni della regione. Il fanatismo è responsabile della cancellazione di una parte del paesaggio culturale e religioso della Libia arabomusulmana: sono stati ridotti in macerie i marabutti, dove era praticato il culto degli uomini santi, e danneggiate le moschee collegate a queste tombe, luogo di incontro degli aderenti al sufismo, osteggiato dai salafiti.
A seguito degli appelli degli organismi internazionali sulla criticità della situazione in Libia, compreso quello del direttore generale dell’UNESCO, Irina Bokova, il DoA si è concentrato sulla messa in sicurezza dei materiali conservati nei musei archeologici ed etnografici, tutti chiusi dal 2011: nel 2015 essi sono stati svuotati e i materiali ricoverati in luoghi che garantiscono maggior sicurezza, mentre i magazzini sono stati letteralmente blindati. Rischio collaterale è quello che i reperti vengano trafugati e possano entrare nel commercio internazionale illegale di arte e antichità. A tale scopo l’International council of museum (ICOM) ha provveduto a redigere una Emergency red list of Libyan cultural objects at risk, che comprende le tipologie di oggetti archeologici più diffusi e caratteristici delle differenti aree del paese, mentre il DoA continua a provvedere al monitoraggio e alla sicurezza delle aree archeologiche protette dei maggiori centri antichi.
Yemen: la storia cancellata
Accanto al dramma della distruzione del patrimonio archeologico e artistico sirianoiracheno, un altro conflitto rischia di compromettere lo stato di conservazione di alcune delle più preziose testimonianze del passato delle civiltà dello Yemen, dove, dopo una prima avanzata delle forze dei ribelli sciiti houthi tra il settembre 2014 e l’inizio del 2015, l’insurrezione ha portato alla deflagrazione di un conflitto civile, inasprito dall’intervento – dal marzo 2015 – di una coalizione araba a guida saudita a difesa del governo del presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi, dimessosi nel gennaio 2015. La potenza distruttiva della guerra – l’80% degli yemeniti necessita di assistenza umanitaria – ha lasciato il segno anche sul patrimonio storicoculturale del paese: a maggio 2015 è stato distrutto il museo di Dhamar, che custodiva oltre 12.500 manufatti; l’UNESCO ha denunciato danni ai centri storici di Saada, Mukalla e Taez, oltre che alle mura del sito archeologico della città fortificata preislamica di Baraqish; le bombe hanno colpito il castello di alQahira (sec. 10°) e la diga di Marib (capolavoro ingegneristico dell’8° sec. a.C., citata anche nel Corano).
Neppure la città vecchia di Sana’a, patrimonio mondiale dell’umanità, è stata risparmiata dalla guerra, e alcuni suoi edifici sono andati distrutti, tanto che nel luglio 2015 l’UNESCO ha varato un piano di emergenza per la salvaguardia del patrimonio culturale yemenita.