Un ‘Times’ non fa primavera
Il successo dell’edizione digitale del New York Times non deve illudere gli editori: gli abbonamenti on-line in termini di entrate sono una goccia nel mare. Occorre altro per salvare la carta stampata.
L’opinione di un autorevole docente della Columbia School of Journalism.
Per molti anni, negli Stati Uniti, i giornali hanno agito in base alla regola degli 80/20. In pratica, questo sistema (che in realtà era una consuetudine negli affari) ha fatto sì che per la maggior parte dei giornali circa l’80% delle entrate si basasse sulla pubblicità, il restante 20% sulla distribuzione. In effetti, se attraverso la distribuzione si riusciva a coprire il costo di produzione (inteso come carta, inchiostro e lavoro), ciò veniva considerato un buon affare. Quella formula ha funzionato bene fino a quando il business della pubblicità è stato solido. Per decenni, anno dopo anno, essa ha consentito ai giornali di godere di margini di profitto dal 20 al 30%. La maggior parte dei giornali associati alle grandi metropoli aveva il monopolio nei propri mercati e gli inserzionisti erano obbligati a pagare praticamente qualunque cosa l’editore addebitasse.
Quei giorni sono, di certo, ormai lontani, poiché le entrate derivanti dagli annunci pubblicitari sono diminuite e gli annunci pubblicitari su carta sono stati sostituiti da quelli on-line, a un decimo o meno del costo. Di conseguenza, i giornali si sono impegnati in tagli dei costi, provando a rimanere a galla mentre cercavano nuove fonti di reddito. Una possibile fonte era quella offerta dagli abbonamenti on-line: in sostanza, far pagare ai clienti ‘digitali’ una quota d’ingresso per ottenere l’accesso a più di 10 o 20 articoli al mese. Questo è stato per molti anni oggetto di anatema nella comunità di Internet. La massima ‘l’informazione vuole essere libera’
ha dominato le discussioni, poiché editori e redattori immaginavano masse di utenti on-line che vedevano gli annunci pubblicitari, che potevano essere mirati a specifici lettori in base alla provenienza geografica o agli interessi, a prezzi proporzionalmente elevati. Molti editori stanno ora valutando o implementando il paywall (sistema di pagamento per la lettura in rete), ma sono arrivati in ritardo in questo mercato. Per 15 anni o più hanno dato gratuitamente i loro contenuti on-line e ora devono tentare di spiegare ai lettori il motivo per cui quel prodotto, gratuito per tanto tempo, prevede un costo di 10 o più dollari al mese. Inoltre, va aggiunto che la maggior parte degli organi di informazione ha ridotto il personale (giornalisti ed editori) e, ciò costituisce un’arma a doppio taglio: i clienti devono ora pagare di più per un prodotto di qualità inferiore. Tale strategia non ha senso.
Tra i giornali a diffusione nazionale o locale, pochi hanno un’esperienza di lunga durata di prodotti digitali in abbonamento. Il Wall Street Journal, di cui ho diretto l’edizione on-line dal 2001 al 2007, ha iniziato a metà degli anni Novanta. Ora ha un solido pubblico di più di un milione di abbonati digitali, alcuni dei quali prendono anche la versione cartacea, ma molti solo quella digitale, accedendo ai contenuti del Wall Street attraverso computer e dispositivi mobili. L’Arkansas Democrat-Gazette ha fatto pagare i lettori on-line per più di un decennio e, mentre la sua base di diffusione digitale non è molto ampia, la distribuzione cartacea ha subito un calo più contenuto. Tuttavia, negli ultimi 2 anni, la maggior parte dell’attenzione è stata focalizzata sul successo che ha ottenuto il lancio dell’abbonamento del New York Times. Dopo aver resistito a questa tendenza per anni, il quotidiano ha oggi circa 700.000 abbonati digitali che pagano fino a 35 dollari al mese.
È un numero ragguardevole, che ha aiutato ad alleviare il rapido declino degli introiti pubblicitari del giornale. In effetti, l’azienda del Times ha visto il suo fatturato derivante dalla distribuzione superare i 245 milioni di dollari o quasi, 40 milioni in più rispetto agli introiti pubblicitari. Ma i dirigenti dei giornali non dovrebbero lasciarsi troppo frastornare dal recente successo del Times.
Il quotidiano ha ammesso che la crescita dei nuovi abbonamenti digitali sta rallentando rapidamente e, quindi, ha annunciato l’intenzione di lanciare versioni a basso costo, con un accesso più limitato. Inoltre, è possibile osservare nei recenti guadagni del Times un altro segnale preoccupante per gli editori. Il Boston Globe, che la società del Times ha ceduto in agosto, aveva solo 39.000 abbonati digitali in un mercato metropolitano con più di 4,5 milioni di persone. Tutto questo, nonostante il giornalismo del Globe sia stato eccezionale nel corso degli anni; da non dimenticare la cronaca on-line della tragedia durante la Maratona di Boston nella primavera del 2013.
Il messaggio, purtroppo, è che gli abbonamenti digitali rappresentano ancora una piccola parte del conto economico per la maggior parte dei giornali negli Stati Uniti, anche se più di 100 di essi hanno avviato una qualche forma di strategia paywall in questi ultimi anni. Ciò, infatti, sembra essere più efficace come mezzo per rallentare la diminuzione dei lettori della carta stampata, che ancora procurano ai tradizionali organi di informazione la maggior parte delle entrate pubblicitarie. Gli editori hanno potuto constatare il limitato successo che deriva dal far pagare ai lettori on-line un paio di dollari al mese per l’accesso agli articoli. In effetti, questo, in termini di entrate, rappresenta una goccia nel mare e l’industria della stampa avrà bisogno di trovare fonti di denaro molto più solide se vuole sopravvivere alla nuova era. Se tali fonti saranno nella pubblicità o nei servizi digitali alle imprese o in altre aree è troppo presto per saperlo. Ma è improbabile che le entrate derivanti dalla distribuzione rappresentino un grosso vantaggio per le imprese editoriali.