Thera, una citta sotto il vulcano
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Identificata da alcuni con la favolosa Atlantide, l’isola di Santorini, parzialmente sprofondata a seguito di una catastrofica eruzione alla fine del XVII secolo a.C., ha restituito quasi intatta una città della tarda Età del Bronzo, l’antica Thera. Culturalmente e politicamente legato alla vicina Creta, l’abitato consente di ricostruire in maniera integrale la vita di una comunità in età minoica. In particolare le splendide pitture murali, delle quali si può ricostruire la collocazione originaria, compongono dei veri e propri cicli pittorici che esprimono la visione del mondo delle classi dominanti.
Intorno al 350 a.C. Platone introduce in due dei suoi dialoghi, il Timeo e il Crizia, uno dei racconti più tenacemente radicati nel nostro immaginario sui luoghi fantastici: quello di Atlantide, l’isola di immensa ricchezza al di là delle Colonne d’Ercole, dotata dalla natura di ogni genere di risorse e saldamente retta da una dinastia di re discendenti da Poseidone. Novemila anni prima di Solone, racconta Platone, Atlantide raggiunse una tale potenza militare da ridurre in schiavitù buona parte dei popoli del Mediterraneo. La sola Atene osò ostacolare le sue mire di potenza, riconducendo i popoli oppressi alla libertà; ma l’esercito ateniese perì quando, in un solo giorno e in una sola notte, l’isola sprofondò in fondo al mare inghiottita da terremoti e alluvioni.
Sappiamo che Platone inventa Atlantide come mito politico, opposto speculare dell’Atene democratica, per esaltare il ruolo di faro culturale di quest’ultima. Tuttavia l’autorevolezza della fonte ha indotto anche seri studiosi a valutare la possibilità che il mito platonico conservi memoria di un evento reale. Quando, nel 1967, l’archeologo greco Spyridon Marinatos comincia a scavare nella località di Akrotiri, sull’isola di Santorini, sembra che il millenario enigma di Atlantide abbia finalmente trovato una soluzione.
Verso il 1620 a.C., infatti, l’isola di Santorini, in realtà un cono vulcanico al centro dell’Egeo, esplose seppellendo sotto uno strato di pomici un abitato dell’età del Bronzo, l’antica Thera. Gli abitanti, a quanto pare, ebbero il tempo di mettersi in salvo, ma la catastrofe fu avvertita anche a grandi distanze, provocando sconvolgimenti in tutto il mondo egeo. Difficile dire se il ricordo dell’esplosione di Thera possa essere giunto, oltre un millennio più tardi, fino a Platone. Di certo l’evento catastrofico, noto al grande pubblico proprio grazie agli scavi di Marinatos, ha generato una “mitologia” anche in tempi recenti: basti pensare all’equivoco ancora abbastanza diffuso, per esempio nella manualistica scolastica, che collega l’esplosione di Thera alla fine della civiltà minoica (il cui limite cronologico è invece fissato dall’evidenza archeologica intorno al 1200 a.C.). Non è mancato chi abbia collegato alle ceneri sprigionate dal vulcano l’oscuramento dei cieli che terrorizzò gli Egiziani quando Mosè, secondo il racconto del Libro dell’Esodo, invocò contro il faraone le proverbiali piaghe!
Lasciando da parte la leggenda, gli scavi di Akrotiri hanno portato alla luce un complesso di testimonianze unico nel suo genere: l’eruzione vulcanica ha infatti sigillato quasi intatto uno spaccato della storia dell’Egeo della tarda età del Bronzo. Le eccezionali condizioni del contesto archeologico, che ha preservato il legame originario tra le architetture, le decorazioni pittoriche e gli oggetti d’uso quotidiano, ci offrono un quadro articolato della vita degli abitanti in tutti i suoi aspetti, sociali, artistici e religiosi. I rinvenimenti di Akrotiri, inoltre, costituiscono un osservatorio privilegiato anche su altre civiltà, come quella cretese, che non solo furono contemporanee alla fioritura di Thera, ma sembrano anche avere esercitato su di essa una profonda influenza, tanto che le manifestazioni artistiche della stessa Thera vengono comunemente ascritte all’orizzonte minoico.
La superficie scavata finora (10 mila mq ca.) sembra corrispondere a meno della metà dell’estensione della città al momento della sua distruzione, che doveva comprendere anche un impianto portuale.
Gli scavi condotti da Marinatos hanno portato alla luce una serie di abitazioni che si affacciano lungo un asse viario nord-sud denominato dagli scavatori Via dei Telchini, intersecato in alcuni punti da vie minori in direzione est. Tra i vari blocchi abitativi si aprono degli spazi liberi interpretati come piazze (ad esempio la Piazza Triangolare tra l’isolato Delta e la Casa Occidentale), probabilmente destinate a funzioni pubbliche. Alcune abitazioni sono raggruppate in modo da formare degli isolati (indicati come Beta, Delta, Gamma): la presenza di magazzini e cucine comuni fa supporre che si trattasse di unità abitative di tipo collettivo, probabilmente connesse a gruppi familiari allargati. Uno o più ambienti per ogni blocco hanno restituito inoltre frammenti di vasellame e arredi cultuali (rhytha plastici, tavole per offerte).
Alcune grosse case occupano invece uno spazio indipendente, come la cosiddetta Casa delle Dame e la Casa Occidentale. Costruite su almeno due piani, ospitavano al piano terra i quartieri di servizio, mentre il piano superiore aveva funzioni di rappresentanza. Un ambiente al piano superiore della Casa Occidentale, con focolare centrale, presenta una grossa finestra sulla piazza sottostante: è probabile che servisse a mostrare alla popolazione in essa radunata qualche tipo di cerimonia di natura religiosa che avveniva all’interno della casa. Una stanza adiacente sul retro ha restituito numerosi frammenti di coppe e brocche, dai quali si desume che fungesse da sala da banchetto.
Nel settore meridionale della città si concentrano alcune abitazioni di grande metratura, denominate Xeste 3 e 4. Questi edifici presentano una serie di apprestamenti che richiamano l’architettura palaziale cretese: le facciate sono rivestite in grossi blocchi squadrati; la planimetria prevede sequenze di sale aperte l’una sull’altra mediante molteplici ingressi divisi da pilastri (polythyra), e la presenza di rampe di scale consente di ricostruire l’esistenza di piani superiori. L’edificio noto come Xeste 3, il meglio conosciuto, mostra nella sezione orientale un gruppo di ambienti connessi tra loro da un sistema di polythyra che, a porte aperte, doveva apparire come un’unica grande sala probabilmente destinata ad accogliere visitatori in qualche occasione festiva. Il centro focale del complesso è costituito dal vano 3, che ospita un “bacino lustrale”, termine improprio con cui viene definito un piccolo ricettacolo dal pavimento incassato rispetto a quello delle stanze circostanti: probabilmente si tratta di un adyton, un’area ad accesso ristretto riservata ad operazioni di grande rilevanza simbolica. Gli ambienti dell’ala occidentale della casa, di dimensioni più piccole, hanno restituito ceramica d’uso comune, per cui è probabile che si trattasse di un quartiere di servizio, con dispense e cucine. L’edificio assolveva dunque a funzioni cerimoniali che prevedevano un concorso di popolo, ma ospitava anche dei residenti in pianta stabile.
Nella zona settentrionale dell’abitato, infine, è stato portato alla luce un complesso di magazzini con un mulino adiacente (settore Alfa). I pithoi incassati nel pavimento contenevano derrate solide e liquide, e la presenza di una cucina è riferibile alla preparazione di cibo in loco; ampie aperture sulla strada servivano probabilmente alla distribuzione di cibi e derrate. Il piano superiore ospitava inoltre un piccolo ambiente in cui si sono rinvenute tracce di operazioni cultuali.
Religione e società In questa sia pur parziale ricostruzione dell’abitato di Thera colpisce l’ubiquità di ambienti a carattere cultuale: si tratta spesso di vani di piccole dimensioni, capaci di ospitare poco più di 10 persone per volta ma costruiti in modo da essere visibili dall’esterno da un pubblico più numeroso; essi sembrano inoltre essere topograficamente correlati ai luoghi di immagazzinamento, distribuzione e preparazione delle derrate alimentari. Ciò rivelerebbe che la società di Thera, come quella cretese, si basa su un assetto sociale in cui il controllo dell’economia e la funzione religiosa vanno di pari passo e in cui la distribuzione e la consumazione del cibo in un contesto ritualmente controllato sono essenziali al mantenimento dell’assetto sociale. A capo di questo sistema doveva esserci una casta sacerdotale di matrice aristocratica: l’esistenza di una gerarchia di importanza tra gli edifici, quanto a dimensioni e a raffinatezza della decorazione, è infatti indizio di una società stratificata.
Le notevoli e innegabili somiglianze con Creta, nell’architettura, nella cultura materiale e nel rituale religioso, hanno indotto a ritenere che l’aristocrazia dominante a Thera fosse di origine minoica e che nel XVII secolo a.C. l’isola fosse di fatto una colonia cretese; l’ipotesi sarebbe avvalorata anche dal rinvenimento di documenti scritti in lineare A. Oggi si tende a ridimensionare l’idea di un controllo politico diretto di Creta sulle Cicladi, benché sia innegabile che l’adozione di aspetti dell’arte e della religione minoica rivelino una sorta di soggezione culturale.
La pittura di Thera, come quella dei palazzi cretesi, raffigura quasi esclusivamente cerimoniali religiosi; la presenza di veri e propri cicli pittorici negli edifici di maggiore impegno architettonico lascia inoltre supporre che essi riflettano l’ideologia del gruppo di potere. A Thera, a differenza che a Creta, le pitture sono state rinvenute in situ, o comunque è sempre possibile ricostruire la loro posizione all’interno di un ambiente: questo consente di formulare delle ipotesi sulle motivazioni che hanno condotto il pittore alla scelta dei vari soggetti, ovvero di ricostruire i programmi figurativi.
Il piano superiore della Casa Occidentale, che come abbiamo visto ospitava qualche forma di attività cultuale, ha restituito un ciclo di affreschi che decorava i vani 4 e 5. Quest’ultimo, caratterizzato da una sequenza di profonde nicchie probabilmente destinate ad accogliere le offerte, presenta alle estremità delle pareti nord e ovest due pannelli dipinti con le figure di due giovani, erroneamente definiti Pescatori. In realtà si tratta di due personaggi impegnati in un’operazione cultuale: la nudità e l’acconciatura, con i capelli rasati (come suggerisce il colore bluastro del cranio) ad eccezione di alcune ciocche lasciate lunghe, sembrerebbero infatti ricondurre alla sfera delle iniziazioni giovanili, mentre l’offerta dei pesci avrebbe carattere votivo.
Sulla parete nord dello stesso ambiente, nella fascia superiore, corre un fregio che ha subito notevoli guasti. Nei frammenti che si conservano si distingue al centro una battaglia navale in cui guerrieri con il corto gonnellino in voga nell’Egeo, a bordo di un’imbarcazione, sembrano avere la meglio su degli avversari che, ormai senza vita, galleggiano nudi in mare accanto ad un’imbarcazione dalla prua spezzata. A destra sulla costa è raffigurata una città verso la quale avanza un corteo di guerrieri armati di scudo rettangolare ed elmo a zanne di cinghiale di tipo miceneo. Più in là, uomini e donne appaiono impegnati in operazioni quotidiane: gli uni riconducono le greggi dal pascolo, le altre attingono acqua da un pozzo. La scena viene interpretata come il trionfo della flotta locale su un nemico straniero (identificato ora con i Micenei, ora con un popolo libico), che consente alla vita cittadina di proseguire indisturbata.
Sulla parete sud, un lungo fregio molto animato mostra un corteo di navi addobbate a festa e provviste di cabina di comando; esse muovono da una piccola città costruita in un’insenatura alla confluenza di due fiumi verso una città più grande, dagli alti edifici dal tetto piano e dalle ampie finestre, in cui è stata riconosciuta la stessa Thera. Alla parata assistono, in entrambe le città, uomini di tutti i ceti sociali: nelle campagne e presso il fiume si distinguono personaggi vestiti di ispide pelli, mentre sui tetti degli edifici stanno uomini e donne vestiti urbanamente con lunghe tuniche. Un corteo di giovani nudi che conduce un toro sacrificale accorre al porto incontro alle navi.
Tutto l’apparato pittorico della stanza 5 appare connesso ai temi della vittoria militare e della festività marinara con la quale si intende rendere grazie alla divinità. È probabile che si alluda qui ad una cerimonia reale che aveva luogo nel porto e nelle strade della città; le figure dei due offerenti con i pesci rappresentano invece l’elemento di connessione tra la religiosità collettiva e i riti privati che dovevano aver luogo in questo ambiente.
La stanza 4, comunicante con il vano 5, presenta una decorazione che sembra fare sistema con quella appena descritta: al di sopra di uno zoccolo dipinto a linee ondulate che imitano le venature del marmo si ripete otto volte un motivo decorativo che riproduce la stessa cabina di comando posta a poppa delle imbarcazioni nel fregio con la parata navale: un baldacchino fatto da pali di legno tra cui è tesa una pelle di bue come paravento, sormontato da elementi floreali e ornato di ghirlande. È stato suggerito che l’insistenza su questo tema potrebbe essere collegata all’identità del padrone di casa, forse il comandante della flotta vittoriosa (e infatti l’abitazione è stata ribattezzata, negli studi più recenti, Casa dell’Ammiraglio).
Sia nelle scene di combattimento navale che in quelle che mostrano la vita in una città pacificata, il paesaggio è ben caratterizzato mediante una prospettiva a volo d’uccello che mostra, come in una carta geografica, l’andamento delle coste, il corso dei fiumi nell’interno e le alture rocciose. La flora e la fauna sono descritte con dovizia di particolari e sovrabbondanza di colori: tuttavia ci troviamo di fronte ad una resa convenzionale e non realistica del paesaggio, come dimostra il particolare del leone che dà la caccia ai cervi sulle alture alle spalle della città costiera del lato sud, poco plausibile nella fascia climatica a cui Thera appartiene.
Animali reali e fantastici si mescolano anche nel fregio con paesaggio fluviale che decora il lato orientale dell’ambiente 5, dove un gatto selvatico e un grifone danno la caccia ad uccelli marini tra palmizi e piante di papiro. Gli elementi che compongono il paesaggio assolvono probabilmente ad una funzione simbolica: il grifo, che incontriamo negli stessi anni sia nella glittica che nella pittura minoica (si pensi agli affreschi della Sala del Trono di Cnosso), incarna sia la potenza divina che le prerogative della regalità. L’impressione che se ne ricava è che questa serie di affreschi esprima tanto la devozione privata quanto gli intenti di autocelebrazione di un signore locale, il quale si riconosce nell’ideologia che emana dai palazzi minoici.
Un rituale tutto al femminile è al centro della decorazione pittorica che circondava l’adyton della Xeste 3, ovvero di quell’ambiente che, come è stato ipotizzato, ospitava qualche forma di cerimonia privata. Proprio sulla parete nord che fiancheggia il cosiddetto “bacino lustrale” una megalografia di cui rimangono solo frammenti raffigurava tre giovani donne in un paesaggio roccioso su cui crescono cespugli di croco. Una di esse ha il cranio rasato salvo per alcune lunghe ciocche: un’acconciatura che è stata riferita, grazie al confronto con fonti egiziane, all’età giovanile precedente l’ingresso nella comunità degli adulti. La giovane al centro, che indossa una corona vegetale, è seduta e si tocca un piede ferito e sanguinante. In stretta connessione topografica con questa scena, al piano superiore, un’altra parete dipinta raffigurava delle fanciulle, ancora dal cranio rasato, che raccolgono fiori di croco in un paesaggio roccioso e li depongono in cesti per farne omaggio ad una dea; quest’ultima è seduta su una piattaforma rialzata tra due animali che le fanno da attendenti: un grifone e una scimmia dal pelame blu (particolare che ricorre anche nell’affresco di Cnosso noto come il Raccoglitore di Croco). L’insieme è stato interpretato come una sorta di “sacra rappresentazione”, ovvero come un percorso rituale in onore di una dea della vegetazione, connesso all’acquisizione della maturità sessuale da parte delle ragazze attraverso l’esperienza del sangue.
Al raggiungimento dell’età adulta da parte dei ragazzi alludono forse gli affreschi rinvenuti in un ambiente dell’isolato B che, data la presenza di nicchie per la deposizione di offerte e di un vano comunicante per la consumazione di pasti comuni, è stato interpretato come un luogo di culto. Le pareti nord, sud ed est dell’ambiente sono decorate da una teoria di sei antilopi al galoppo, disegnate sul fondo bianco con una semplice linea di contorno scura; a dispetto della vivacità e del naturalismo con cui sono descritti, gli animali non corrispondono a nessuna specie di cervide, ma il pittore sembra aver combinato “a memoria” modelli differenti. L’atteggiamento delle antilopi, con il capo rivolto verso il compagno più vicino, la bocca aperta e la coda sollevata, è stato interpretato come un combattimento ritualizzato, quale talvolta si osserva in natura. Sulla parete sud, due fanciulli, vestiti solo di un perizoma e col cranio rasato, si sfidano in un incontro di pugilato. Si tratta con ogni probabilità di un combattimento rituale: l’idea che accomuna tutta la decorazione della stanza è dunque quella della competizione come dimostrazione di forza e di virilità, “rinforzata” dal confronto tra esseri umani e animali.
La nostra conoscenza della pittura di Thera è malauguratamente frammentaria e necessariamente parziale risulta il quadro della società che l’ha prodotta. Ciò non ci impedisce di apprezzare le qualità formali e la vivacità, quasi miniaturistica, di queste immagini pullulanti di vita, in cui uomini, animali e piante sono trattati con la stessa cura. Se ne ricava l’impressione di una visione del mondo in cui ordine sociale e ordine naturale siano l’uno il riflesso dell’altro: una concezione armonica dell’esistenza che il rituale, con la sua centralità nel sistema figurativo, mira a perpetuare.