Una crescita senza lavoro
Il mondo ha rischiato di rivivere una crisi simile a quella degli anni Trenta. Il peggio sembra passato (non per l’Italia), ma la ripresa attuale potrebbe rivelarsi una jobless growth: sviluppo senza occupazione. Per tornare a una crescita meno ingiusta, non resta che sperare in un rilancio dell’integrazione economica mondiale.
Al World economic forum di Davos del gennaio 2014, la direttrice esecutiva del Fondo monetario internazionale, la francese Christine Lagarde, lo ha detto chiaramente: negli ultimi anni il mondo ha scampato una nuova, drammatica, Grande depressione.
Stavolta, a differenza che negli anni Trenta, il massiccio sostegno di governi e banche centrali ha evitato le corse agli sportelli e così l’economia mondiale è ritornata a crescere piuttosto rapidamente. La riduzione della crescita del PIL mondiale per la prima volta sotto zero (a meno 0,5% per la precisione) nel 2009 è rimasta un episodio. Già nel 2010 il PIL mondiale era ritornato a crescere del 5%. Negli anni successivi e anche per il 2014, il Fondo monetario prevede una crescita vicina al 3,5%, più o meno uguale alla crescita media degli ultimi 35 anni. Come dire che, per il mondo nel suo complesso, il fallimento di Lehman Brothers è un (brutto) ricordo del passato. Non è così, purtroppo, o almeno non è così per tutti. La crescita di oggi, a differenza di quella della seconda metà del Novecento, è una crescita ingiusta che, proprio perché ingiusta, potrebbe non durare.
Il primo problema è che una crescita del 3,5% è al di sotto della crescita potenziale del PIL mondiale, stimata al 4% annuo. Una crescita inferiore al potenziale porta alla creazione di un numero di posti di lavoro insufficienti a tenere il passo della demografia, e quindi a un aumento del numero dei disoccupati e del tasso di disoccupazione (la percentuale dei disoccupati sul totale di quelli attivamente alla ricerca di lavoro). Il rischio è la jobless growth, la crescita senza lavoro. Con più di 200 milioni di disoccupati nell’economia mondiale, una crescita senza occupazione ha letali conseguenze sociali, con potenzialmente drammatiche conseguenze politiche. Una parte di queste conseguenze è già stata esemplificata efficacemente dal successo elettorale dei partiti euroscettici alle elezioni europee del maggio 2014.
L’altro problema è che il rischio di jobless growth planetaria non è equamente distribuito tra paesi. Già, perché la crescita di 3,5% calcolata per il mondo è la media di risultati molto diversi tra paesi. Per prendere solo i 3 casi più rilevanti, il 3,5% del mondo viene fuori dalla media tra il 3% del PIL americano, l’1% dell’Eurozona e il 7% della Cina.
Cioè nel mondo post-Lehman l’Asia emergente rallenta ma continua ad andare come un treno, l’Europa, vecchia e divisa, arranca e l’America resiste e riparte sempre, ma solo con l’aiutino della Federal Reserve (che ha ridotto gradualmente ma, nel caso se ne ravvisasse la necessità, è sempre pronta a ricominciare a fare massicci acquisti di titoli pubblici e privati per sostenere i mercati finanziari e i bilanci delle banche).
Come nelle discussioni di eterna e periodica attualità a Davos, le differenze nei tassi di crescita hanno 2 conseguenze. La prima è che tanti asiatici a basso reddito avvicinano il loro tenore di vita a quello occidentale. Chi ha a cuore che la crescita porti con sé minori diseguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri ha di che rallegrarsi.
Ma lo sviluppo degli emergenti ha anche un effetto collaterale, perché il più elevato tenore di vita nei paesi emergenti oggi si associa con una crescita molto diseguale nei paesi ricchi, dagli effetti sociali potenzialmente devastanti soprattutto per la classe media di questi paesi. La crescita americana ed europea è infatti oggi trainata da una tecnologia che rivoluziona i modi di produrre e da un capitale finanziario e multinazionale che mette il turbo ai cambiamenti tecnologici. I nuovi beni e servizi generati dalle nuove tecnologie producono vantaggi di maggiore produttività e di migliore qualità della vita. Ma tali guadagni generano profitti che finiscono nelle tasche dei leader di mercato a discapito dei concorrenti, in un gioco in cui il primo che arriva si prende tutto il mercato. Scuole, università e mercati del lavoro del nord del mondo non riescono a produrre e ricollocare il capitale umano richiesto da questa rivoluzione. E così i pochi che dispongono delle capacità (conoscenza dell’inglese, competenze tecnologiche, flessibilità) per adattarsi ai cambiamenti si arricchiscono mentre tutti gli altri – poveri e classe media – rimangono indietro. In una ricerca della Banca Mondiale, Branko Milanovi´c ha calcolato che, tra il 1988 e il 2008, il reddito medio degli americani poveri è salito del 23%, mentre quello degli americani ricchi è salito (almeno) del 113%. Le cose sono andate anche peggio in Europa e in Giappone dove i redditi dei più poveri sono rimasti sostanzialmente al palo nello stesso periodo di tempo.
Come si ottiene una crescita meno ingiusta? Con disoccupazione alle stelle e inflazione vicina a zero, le banche centrali continueranno a inondare il mondo di liquidità. Ma non saranno le banche centrali a rendere la crescita meno ingiusta.
In questi anni i tassi a zero delle banche centrali non si sono tradotti in un basso costo del credito per la maggioranza di famiglie e imprese.
Solo chi aveva garanzie da offrire alle banche ha potuto beneficiare del regime dei tassi a zero. E così i fiumi di liquidità sono finiti nelle tasche di pochi.
Per ritornare a una crescita meno ingiusta, non rimane che sperare in un rilancio del processo di integrazione economica tra paesi che allarghi la dimensione della torta. Nel tempo, lo stallo decennale dei negoziati al WTO ha dato spazio a tanti accordi bilaterali come quello tra Europa e USA.
Tali accordi incontrano forti resistenze perché la crisi ha fatto dimenticare i benefici dell’integrazione e della crescente apertura dei mercati. Ma è da lì che è venuta la crescita giusta dei decenni passati. Ed è da lì che il mondo può ripartire per attenuare la crescita ingiusta di questi anni.
Lagarde: «Servono politiche audaci»
Recovery strengthens, remains uneven: la ripresa si rafforza, ma resta diseguale. È il titolo che il Fondo monetario internazionale ha dato al suo tradizionale rapporto semestrale sulle prospettive dell’economia globale pubblicato ad aprile 2014, il World economic outlook. Una considerazione che, secondo gli economisti di Washington, è particolarmente vera per le economie avanzate: se la politica monetaria espansiva e il minore drenaggio dal consolidamento fiscale hanno portato a stimare una crescita superiore ai tradizionali trend per gli USA e in linea con essi per il ‘nucleo’ delle economie dell’Eurozona, nelle economie in difficoltà dell’area Euro la ripresa rimane debole e fragile a causa di un elevato debito e di una frammentazione finanziaria che pesano sulla domanda domestica. Riguardo all’Eurozona, il Fondo evidenzia la persistenza dei rischi connessi alla bassa inflazione e a tassi di crescita contenuti, invitando al risanamento dei bilanci delle banche, al completamento dell’unione bancaria, al sostegno alla domanda interna e al proseguimento delle riforme strutturali. «Senza politiche audaci – ha dichiarato la direttrice del Fondo Christine Lagarde – il mondo potrebbe scivolare in anni di crescita lenta, inferiore alla media e senza occupazione». E proprio la disoccupazione rimane uno dei drammatici problemi dell’Europa: per il giugno 2014, Eurostat ha stimato oltre 25 milioni di disoccupati nell’UE e 18,4 milioni nell’Eurozona.