Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La riflessione di Montaigne sul concetto di “vincolo”, quale modo filosofico e percorso “terapeutico” per esorcizzare lo scetticismo integrale e nichilista della tradizione filosofica classica e la sua proposta di una morale naturale, permette al bordolese di attuare la conversione dello scetticismo tradizionale nella prospettiva dell’essere come discorso. Se l’uomo non ha alcuna comunicazione con l’essere, l’unico essere che possiede è l’esserci, la vita, l’esistenza. La sua unica “sostanzialità” è la relation avec altrui. Il concetto di antiprovvidenzialismo storico dà all’uomo la responsabilità del cammino del mondo e la possibilità di progettare una morale politica.
Bio-bibliografia
Montaigne nasce nel 1533 da Pierre Eyquem e da Antoinette Lopez o de Louppes. Grouchi, Guérente, Buchanan, Muret saranno gli illustri “precettori in casa” e alcuni di loro – insieme a Cordier, Govéa e Vinet – diverranno suoi maestri al Collège de Guyenne, dove entrerà a sette anni. Studia diritto, con buona probabilità all’università di Tolosa (1548-1550). Nel dicembre del 1557 entra al Parlamento di Bordeaux e all’inizio del 1558 incontra nel Palais de l’Ombrière (sede del Parlamento) Étienne de La Boétie (Sarlat 1530) che ha già scritto la Servitude volontaire ed è consigliere al Parlamento dall’età di 23 anni, con dispensa speciale di Enrico II. Questi morirà a Germignan il 18 agosto 1563, dopo aver nominato per testamento Montaigne erede “della sua biblioteca e delle sue carte”; in realtà di una parte della sua librairie. Cinque anni dopo, il 18 giugno, muore anche Pierre Eyquem e Michel diviene signore di Montaigne.
Da tempo il padre gli aveva affidato la traduzione della Theologia naturalis di Sebond, che vedrà la luce a Parigi nel 1569 (G. Chaudière; 1580 in sec. ed., emendata “dei numerosi errori”). Nella primavera del 1570 Montaigne è a Parigi per la pubblicazione di parte dell’opera boetiana (1571, F. Morel).
Dal matrimonio con Françoise de la Chassaigne (1565) nascono sei figli, ma solo Léonor sopravviverà.
Abbandonata la magistratura, il 28 febbraio 1571, inizia la retraite: simbolicamente una seconda nascita, a 38 anni, nel suo castello – nascita della liberté volontaire. Nell’anno della notte di San Bartolomeo (1572) comincia la redazione degli Essais. La pubblicazione risale al primo marzo del 1580 (1582, in sec. ed., con aggiunte e correzioni); il 4 settembre intraprende il suo viaggio in Italia, passando per la Svizzera e la Germania. Il 20 marzo del 1581 gli viene restituita da Sisto Fabri, maestro del Sacro Palazzo, insieme a una censura verbale, la copia degli Essais sequestrata al suo arrivo a Roma.
Durante il soggiorno termale a Bagni di Lucca gli giunge la notizia (7 settembre) della sua nomina a sindaco di Bordeaux per la durata di due anni. Il 15 ottobre riparte alla volta di Montaigne. La carica, sollecitata da Enrico III, gli sarà rinnovata per un altro biennio, nonostante l’opposizione degli estremisti cattolici. Nel febbraio 1588 è a Parigi per la quarta edizione degli Essais (A. l’Angelier), con numerose addizioni dei primi due libri e l’aggiunta di un terzo. Nella citta del “fango” conosce Marie de Gournay. Durante la giornata delle barricate (12 maggio) è imprigionato nella Bastiglia; verrà liberato dopo poche ore per intervento di Caterina de’ Medici. Durante l’estate soggiorna a Gournay-sur-l’Aronde in Piccardia, presso la famiglia di Marie. Muore il 13 settembre del 1592 e viene sepolto nella chiesa dei Foglianti a Bordeaux.
Il “cribro” della ragione
Michel de Montaigne
Filosofare è imparare a morire
Les essais, cap. I, 20
[A] È incerto dove la morte ci attenda, attendiamola divunque. La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione […] [C] Chi insegnasse agli uomini a morire, insegnerebbe loro a vivere […] [A] E dato che siamo minacciati da tante specie di morti, non è forse maggior male temerle tutte, che sopportarne una? […][C] Come la nostra nascita ci ha portato la nascita di tutte le cose, così la nostra morte produrrà la morte di tutte le cose […] La morte è origine di un’altra vita. Allo stesso modo piangemmo; allo stesso modo ci spogliammo entrandovi, del nostro antico velo […] [A] La nostra morte è una delle componenti dell’ordine dell’universo, è una componenete della vita del mondo
M. de Montaigne, I saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Milano, Bompiani, 2012
Michel de Montaigne
Della consuetudine e del non cambiar facilmente una legge acquisita
Les essais, cap. I, 23
[A] …la consuetudine è in verità una maestra di scuola prepotente e traditrice. Ci mette addosso a poco a poco, senza parere, il piede della sua autorità; ma da questo dolce umile inizio, rafforzato e bien piantato che l’ha con l’aiuto del tempo, ci rivela in breve un volto furioso e tirannico, di fronte al quale non abbiamo più neppure la libertà di alzare gli occhi. La vediamo forzare in ogni istante le regole di natura […] [C] I miracoli sono tali a cuasa della nostra ignoranza della natura, non secondo l’essenza della natura. L’assuefazione indebolisce la vista del nostro giudizio. I barbari non ci appaiono per nulla più strani di quanto noi sembriamo a loro. Né con maggior ragione […] Per cui accade che quello che è fuori dai cardini della consuetudine, lo si giudica fuori dai cardini della ragione […] Chi vorrà liberarsi da questo acerrimo pregiudizio troverà molte cose ammesse con sicurezza scevra di dubbio, che non hanno altro sostegno che la barba bianca e le rughe dell’uso che le accompagna; ma strappata questa maschera, riconducendo le cose alla verità e alla ragione, sentirà il suo giudizio come tutto sconvolto, e tuttavia rimesso in ben più saldo assetto
M. de Montaigne, I saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Milano, Bompiani, 2012
Michel de Montaigne
Apologia di Raymond Sebond
Les essais, vol. II, 12
[C] … per dimostrare la debolezza della […] ragione non c’è bisogno di andare a scegliere esempi rari […] essa è così manchevole e cieca che non c’è evidenza tanto chiara che sia per lei abbastanza chiara […] con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli [l’uomo] si uguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere per mezzo dell’intelligenza i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce a loro? [C] Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se lei non fa di me il suo passatempo più che io di lei? [...] [A] C’è qualche differenza, ci sono ordini e gradi; ma sotto la forma di una stessa natura […] Bisogna piegare l’uomo e costringerlo entro le barriere di quest’ordine […] Tutto quello che ci sembra strano, lo condanniamo, e così tutto quello che non comprendiamo: come ci accade nel giudizio che diamo delle bestie […] Tuttavia mi occorre infine vedere se è in potere dell’uomo trovare ciò che cerca; e se questa ricerca che ha perseguito da tanti secoli l’ha arricchito di qualche nuova forza e di qualche verità solida. Io credo che mi confesserà, se parla in coscienza, che tutto il frutto che ha tratto da una così lunga indagine è di aver imparato a riconoscere la propria debolezza […]
M. de Montaigne, I saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano, 2012
Michel de Montaigne
Dell’esperienza
Les essais, vol. III, 13
[B] Comporre i nostri costumi è il nostro compito, non comporre libri […] Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve […] [B] È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l’uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c’è dentro. [C] Così abbiamo un bel montare sui trampoli, perché anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe
M. de Montaigne, I saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano, 2012
Sin dal titolo, autodenunciando il carattere di prova, esperimento, appunto di saggio, sull’arte di vivere e sulla debolezza della ragione, Les essais affermano un modo di pensare moderno, non dogmatico, emancipato dalle domande dell’autorità filosofica degli antichi mentre adottano un preciso metodo di liberazione del pensiero che solo in apparenza si veste dei toni dell’autobiografia: “il solo libro al mondo della sua specie” (tr. it. a cura di F. Garavini e A. Tournon, Milano 2012 [stratificazioni del testo: A=1580; B=1588; C=marginalia e correzioni interlinea di Montaigne sul testo del 1588], II, 8, 683C). Quello stesso metodo avrebbe investito il rapporto, delicato e complesso, di filosofia e teologia, ragione e fede, a cui la censura romana, in diverse occasioni, non sarebbe rimasta indifferente. L’experimentum sui – che spinge Montaigne a dichiarare: “Io studio me stesso più di ogni altro soggetto. È la mia metafisica, è la mia fisica” (III, 13, 1997B) – e del mondo si rende possibile in virtù di una nuova forma filosofica che indugia su una materia (l’indagine delle cogitations e azioni umane, comprese le passioni) sforzandosi di penetrare e scalfire la forza dell’apparenza, della coustume, della negazione della vita e della capacità di metamorfosi: togliere la maschera a parole, persone e cose (I, 20; I, 23), con la consapevolezza dell’intrinseca temporalità dell’esistenza, del nostro estre substanciel: “Il tempo mi abbandona. Senza di esso nulla si possiede” (III, 10, 1879B). Non si tratta solo di distruggere, ma di ricostruire con altri materiali, paradigmi, capacità di sguardo e di ascolto l’io e il mondo. Praticare un nouveau langage, nuova arte di parlare e ascoltare; altri interlocutori, altro vocabolario: movimento, passaggio, diversità, infinità di forme, razionalità degli animali, tolleranza, pluralismo, debolezza/forza della ragione e dell’immaginazione, possibilità, antidogmatismo, scetticismo non nichilista, universalità della ragione impressa in tutti gli uomini non denaturés (III, 12, 1973C; non a caso già la prima definizione di naturel considera secondo natura “ciò che è generale, comune e universale”: I, 57, 581A), versus essere, abitudine, identità, impossibilità, pretesa alla centralità, teleologia/finalismo, universalismo – cattivo universale –, relativismo, scala naturae o gerarchia apparente degli esseri ecc. (N. Panichi, I vincoli del disinganno, Firenze 2004; tr. fr. Paris 2008). L’opera di demistificazione del sapere classico e umanistico si spingerà sino alle fondamenta di quegli idola della cultura europea, forma dell’umano concentrata su istanze antropocentriche e logocentriche che impediscono di comprendere sino in fondo quanto la natura, sottratta a fittizie costruzioni filosofiche e a modelli di “leggi” arbitrarie, sia una infinita moltiplicazione e vicissitudine di forme sconosciute alla ragione umana – e sin dove possa giungere la sua possibilità. Tale assunto generale, l’idea di una natura infinita produttrice e moltiplicatrice incessante di forme ignorate dall’uomo, pone gli Essais come una sorta di macchina da guerra contro ogni teratologia antica e moderna, ogni mitologia del monstrum in ambito antropologico, etico, educativo, politico, per affermare la pensabilità e la legittimazione del pluralismo, concetto di tolleranza e co-esistenza del diverso. Ma, proprio come un sileno, sarà sempre il concetto di monstrum, nel suo significato etimologico di segno, ad assumere il valore di possibilità della coesistenza pacifica tra diverse religioni; come nel caso dell’enfant monstrueux (II, 30), in cui convivono due corpi attaccati: lungi dall’essere mostruoso nel significato aristotelico (contro l’ordine della natura), funziona da presagio politico e auspicio per il principe che voglia far convivere nello Stato la religione cattolica e protestante.Il cantiere montaignano profila l’intento di elaborare una immagine di ragione “naturale” in stretto rapporto con una nuova concezione della vita e una nuova visione della natura, insieme a una metafisica che è fisica e anatomia dell’io, del soggetto in movimento e in esperimento, una sorta di eraclitismo della mente: “non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio” (III, 2, 1487B). Il presupposto, paradossale, viene enucleato nel concetto di universale-singolare: il passaggio, la temporalità, è consustanziale all’universale concreto; ogni universale è singolare. Anche se, a tratti, l’introspezione diviene dolorosa e difficile, all’insegna della duplicità: l’altro è in me. Per attingere al suo scopo lo speculum matricis montaignano acquisirà la coppia sinonimica raison/imagination, nozione polisemica intorno a cui ruota l’orientamento complessivo degli Essais: orizzonte della puissance e impuissance dell’humaine nature: “Chiamo sempre ragione quell’apparenza di raziocinio che ognuno fabbrica in sé; questa ragione, della cui specie ce ne possono essere cento contrarie riguardo a uno stesso oggetto…” (II, 12, 1039B).
Verso un nuovo scetticismo
L’adozione dello scetticismo che ne deriva è una originale elaborazione delle sistematizzazioni ellenistiche dello scetticismo classico, cui Montaigne continuerà a riconoscere valenza critica e liberatoria, nonostante le obiezioni mosse. Prima di aprire ai punti di svolta o di ricomposizione di un nuovo scetticismo (implicante una precisa idea di filosofia come arte di vivere e formazione del giudizio e dei costumi) l’Apologie de Raymond Sebond mette in evidenza elementi decisivi che la allontanano dalle forme antiche (la Nuova Accademia e la filosofia pirroniana esposta da Sesto Empirico fra il II e III secolo). La sospensione del giudizio (epochè) – il cui risvolto morale è nella tranquillità dell’anima (ataraxia) –, necessaria in mancanza di una rappresentazione evidente che porti a giudicarla vera (se ne troverà sempre una contraria capace di controbilanciare l’assertività della prima), chiude l’uomo in un fenomenismo da cui non uscirà mai, lo rinserra nella rappresentazione della cosa, la sua apparenza (il “mondo vero” è il fenomeno). Il sapere è allora opinione, verosimiglianza o inverosimiglianza, essendo negato l’accesso diretto alla cosa. Sulle orme del pirroniano Sesto, Montaigne evidenzia come la Nuova Accademia, affermando di non sapere nulla, cada in una contraddizione logica simile a un dogmatismo negativo, mentre Pirrone, non affermando nemmeno questo, attesti la sua filosofia come autenticamente scettica: affermare, infatti, di non sapere nulla non solo è già sapere, nel senso dell’ammissione di sapere di non sapere (formula anch’essa contraddittoria), ma presuppone il possesso di una teoria dello spirito umano, dell’anima, nel suo rapporto con la “realtà”. Sempre sulle orme di Sesto, il vero scetticismo si configura come zeetetica (zétesis), ricerca ininterrotta, domanda, indagine, caccia continua: skepsis, attività di indagine, di esame: i pirroniani “sono ancora in cerca della verità”.
Se la professione dei pirroniani è la recherche (“l’ignoranza che si conosce, che si giudica e che si condanna non è ignoranza totale”: II, 12, 999A), i dogmatici pensano di conoscere principi e fondamenti della scienza prima della ricerca stessa, di poter conoscere la certitude e vantarne il possesso, mentre lo scetticismo neoaccademico, esattamente come la filosofia dogmatica, non ricerca più, sul presupposto che la verità non si potrà mai trovare: dogmatci e scettici si congiungono nell’extremité (la certezza e l’incertezza assolute), atteggiamento reso plastico dalla figura del mus in pice o del soffocamento del baco da seta. A differenza del pirronismo che, pur non confidando nella possibilità di trovare la verità, non smette di cercarla. Ci saranno sempre païs au delà a guidare l’umana ricerca (I, 26). Ma se per entrambe le scuole scettiche l’uomo ha solo opinione, rappresentazione dei fenomeni, e la cosa in sé rimane inaccessibile, si pone il problema dell’azione, la possibilità stessa di una vita. Per i pirroniani si tratta di uniformarsi agli usi e i costumi del proprio Paese. Montaigne non è d’accordo: “Che cosa ci dirà dunque in questo frangente la filosofia? Di seguire le leggi del nostro paese? Cioè questo mare fluttuante delle opinioni di un popolo o d’un principe... Il mio giudizio non può essere così flessibile” (II, 12, 1069A).
Su tale lunghezza d’onda, Montaigne decostruisce la leggenda laerziana, seguita da Cicerone, Agostino e più tardi da Hegel, di un Pirrone incapace di vivere, pietrificato dalla Medusa dell’inazione, restituendogli la capacità e la gioia di godere di tutte le parti corporali e spirituali. Mentre viene dissipata l’aporia logica che condannava il pirronismo al mutismo: “[A] ‘Io ignoro’, o: ‘Io dubito’, dicono che questa proposizione se ne parte insieme al resto, né più né meno che il rabarbaro [la purga] che spinge fuori gli umori cattivi e esce fuori insieme con essi. [B] Questa fantasia è più chiaramente espressa in forma interrogativa: ‘Che cosa so?’” (II, 12, 961). Se filosofare è dubitare (II, 3, 619A), la domanda (Que sais-je?) rappresenta il superamento dello scetticismo che si contraddice e diviene matrice di una pratica filosofica di interrogazione continua.
L’interrogazione mostra non solo il fondo essenzialmente dogmatico dello scetticismo nichilista ma anche del pirronismo (II, 12). L’adozione di tali complesse coordinate conduce l’impegno montaignano, anche metodologico, a costruire un nuovo paradigma di ragione naturale nelle sue implicazioni etiche, religiose, politiche – dopo avere sottoposto a critica la ratio classica. Il concetto stesso di vita (e di corpo) che gli Essais faranno agire, aprirà la filosofia a orizzonti inattesi: la vita come orizzonte di possibilità. Il capitolo è Usanza dell’isola di Ceo, dedicato al tema del suicidio, ben conosciuto dalla prima censura romana (cfr. Panichi, Montaigne, Roma 2010).
Michel de Montaigne
Circolo vizioso delle apparenze
Les essais - Apologie, libro II, cap. XII
Per giudicare le apparenze che riceviamo dagli oggetti, ci occorrerebbe uno strumento giudicatorio; per controllare questo strumento, ci occorre una dimostrazione; per controllare la dimostrazione, uno strumento: eccoci in un circolo vizioso. Poiché i sensi non possono chiudere la nostra disputa, essendo essi stessi pieni d’incertezza, bisogna che lo faccia la ragione; nessuna ragione potrà stabilirsi senza un’altra ragione; ed eccoci riportati indietro fino all’infinito. La nostra fantasia non si applica alle cose estranee, ma è fondata sulla mediazione dei sensi; e i sensi non abbracciano gli oggetti estranei, ma soltanto le loro proprie impressioni; e così l’immaginazione e l’apparenza non è dell’oggetto, ma soltanto dell’impressione e del turbamento del senso, e questa impressione e questo oggetto sono cose diverse; quindi chi giudica dalle apparenze giudica in base a una cosa diversa dall’oggetto. E se si dice che le impressioni dei sensi trasmettono all’anima la qualità degli oggetti estranei per rassomiglianza, come possono l’anima e l’intelletto esser certi di questa rassomiglianza, non avendo essi alcun rapporto con gli oggetti estranei? Allo stesso modo che chi non conosce Socrate, vedendo il suo ritratto non può dire che è somigliante. Ora, chi volesse giudicare comunque sulla base delle apparenze: di tutte, è impossibile, poiché esse s’intralciano reciprocamente con le loro contraddizioni e discrepanze, come vediamo per esperienza; o sarà forse che alcune apparenze prescelte regolano le altre? Bisognerà controllare questa scelta con un’altra scelta, la seconda con la terza; e così non se ne verrà mai a capo.
Insomma, non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa. Così non si può stabilire nulla di certo dall’uno all’altro, tanto il giudicante quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e movimento.
M. E. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Milano, Adelphi, 1996
Filosofia e teologia
Altra conseguenza dell’atteggiamento scettico è la tesi dell’inaccessibilità della ragione umana a quella divina (II, 12), del mancato rapporto con la divinità: “non abbiamo nessuna comunicazione con l’essere”, anche se in altri contesti essere va inteso come pura esistenza; la vita “è il nostro essere, il nostro tutto” (II, 3, 627A). Contingenza e arbitrio caratterizzano la ragione umana; Dio non è sottomettibile al principio di identità, di non contraddizione, del terzo escluso; non può essere passato à nostre estamine, né indagato con un linguaggio per analogiam. L’unico modo per immaginarlo è immaginarlo inimmaginabile. La ragione non è l’elemento comune a Dio, al mondo e all’uomo. La prima censura scritta degli Essais, nei due volumi dell’edizione del 1580, risale al marzo 1581 ([ACDF, Index, Protocolli C, foll. 470r-471r [346r-347r]: Documentum 32. In librum sermone Gallico impressum Abordeaus 1580 auctore Michaele de Montagnie). Gli Essais, in verità, rimarranno sordi alle sollecitazioni censorie e non risentiranno degli inviti alle correzioni o alla espunzione. Com’è noto, Montaigne non solo non elimina i passi incriminati, talvolta, anzi, precisa e approfondisce seguendo la direzione primitiva. In due aggiunte di Delle preghiere insisterà sulla separazione tra ragione e fede: strutturale, ontologica e, di conseguenza, linguistica. Percorsi che non devono incrociarsi, perché di fatto incomunicabili, a loro modo paralleli e irriducibili: linguaggio degli uomini e linguaggio divino non conoscono codice comune. Contro le tesi tomistiche e sebondiane, la ragione non può prestare nessun aiuto alla fede, che resta accessibile solo per via divina, dono celeste. La filosofia, diversamente dalle tesi sostenute dal razionalismo teologico e dalla theologia naturalis, non può costituire neanche il preambulum fidei. Al di là delle osservazioni di sapore scettico, relative alla debolezza della ragione, la preoccupazione di Montaigne è quella di salvare la dignità del “dire umano”, della filosofia e della morale (III, 12), la sua autonomia dalla teologia. La negazione della sua funzione ancillare, se rientra a pieno titolo in una prospettiva di annichilimento della ragione in materia di fede, dall’altro promuove la riflessione filosofica a un ruolo autonomo, emancipato dalla dottrina della Chiesa e dalla sua apologetica. La religione senza la morale è vuota, mera devozione, superstizione e pratica di tirannia spirituale. Gli scritti dei teologi risultano così “troppo umani”, intrisi di quel lessico “indisciplinato” che vorrebbero combattere, talmente umani da punire, con mezzi inumani, la tortura e il fuoco, il pensiero filosofico, idee e dire umani: sorte che “ai giorni nostri”, commenta il bordolese, “tocca ai buoni come ai malvagi” (I, 26).
Lo scambio di posto con l’altro
Ora Montaigne può rimettere l’uomo al centro e riconsegnargli la sua dignità di essere vincolabile e vincolante. Il suo centro è policentrico, il suo universo ha le sembianze del prisma. Con la forza dell’immaginazione sa mettersi al “posto dell’altro” e può realizzare lo “scambio di posto”. Riesce a configurare una politica “legittima e civile”, scomposizione e ricomposizione di vincoli umani legittimi ed equi – non utopici ma operanti nell’expérience dell’“altro mondo”, quindi validi normativamente, forma e necessità del pensiero naturale. Nel Nuovo Mondo Montaigne coglie segno, exemplum e senso della possibilità dello spirito umano e si pone sulla soglia della scoperta di un nuovo paradigma temporale – segno tangibile della speranza di trovare altri spazi/tempi/mondi e altre dimensioni dell’umano: chi ci assicura che il mondo appena scoperto sia l’ultimo della sua specie visto che sino a ieri demoni e sibille, noi stessi, lo abbiamo ignorato? Su questo stesso modello formula alcune osservazioni sulla Cina (III, VI; III, 13), la cosmologia copernicana e la tesi della rotondità della terra: altre acquisizioni, diversi risultati; acquisizioni provvisorie e verità parziali (II, 12).
L’“altro mondo” è la nuova, in senso etimologico, possibilità per un’umanità corrotta, come l’Europa, di ricongiungersi all’infinità delle forme cosmico-storiche, di ricomprendersi e ricomporsi nella forme de la vertu. Montaigne intuisce che il futuro dell’Europa è nel concetto di pluralismo e mette in luce la fecondità della dialettica di identità e diversità, nella vita, nell’arte, nella religione, nella storia, nella politica e nell’educazione. Insistendo sul confronto, conversando/comunicando, disegna una nuova ontologia umana e apre scenari inediti sul piano della comunicazione universale. Il contatto con altre culture non solo è positivo; è imperativo morale per imparare a conoscere se stessi. Il rischio di contagio è all’inverso: tramite il nostro ammorbante (id est europeo) contatto abbiamo contagiato i cannibali con il virus di una pseudo-ragione e morale universalistiche. Lo spazio del nuovo umanesimo come luogo della comunicazione apre alla ragione dell’altro.
In tale prospettiva anche gli animali divengono oggetto di una riabilitazione teorica ed etica che consente la presa di coscienza dell’ordine della natura. L’originale riflessione sull’animalité non solo è un elemento fondamentale del nuovo concetto di scetticismo e della critica a progetti antropocentrici e logocentrici, ma riafferma la nozione di ragione naturale, per una filosofia che deve insegnare a vivere, segnando così il ritorno a quel concetto di vita che Montaigne non aveva mai abbandonato. Comincerà col mettere a fuoco l’obiettivo di abbattere il bersaglio centrale, il ragionamento teleologico di matrice stoica, secondo il quale l’uomo è lo scopo della natura e dunque tutto l’universo gli è finalizzato. La polemica è, obiter dicta, anche una risposta all’impianto teologico e teleologico del “libro della natura”, descritto da Sebond nel suo Liber creaturarum, ripreso in negativo con la mediazione poetico-filosofica di Lucrezio.
Il risultato non riuscirà a evitare del tutto l’approccio di ordine cosmologico, che mantiene e recupera in direzione ontologica lo spessore “paganeggiante” del neoplatonismo, il modo di considerare l’universo come un insieme di rapporti influenzanti vite, destini, psicologie degli individui, anzi risulterà funzionale alla logica comparativistica adottata dal bordolese: non potrebbero reclamare il diritto a partecipare alla “razionalità del mondo” gli astri, corpi celesti dotati di vita incorruttibile (qui è adombrata la tesi sull’eternità dei mondi), estetica della bellezza, misura, moto armonioso? Il discorso si è spinto e stretto polemicamente sul determinismo maniliano. Le conseguenze (estreme) non si fanno attendere: se è il cielo a elargire la ragione, la comparaison entre eux et nous dovrà registrare uno scarto gerarchico escludente l’uguaglianza di dignitas.
La Boétie e la Servitude volontaire
L’uguaglianza nella dignitas, al contrario, è propria dell’amicizia. Se Montaigne fa ruotare la ricomposizione di un universale naturale sulle categorie di pluralismo e tolleranza, il sostrato comune alla due nozioni è da ricollegare alla messa en place marchande del concetto di amicizia, particolare e generale. “... ce mien cher frère et compaignon inviolable”: questo è Etienne de La Boétie per Montaigne (di cui non pubblicherà mai, nonostante la promessa in punto di morte, il libello “solforoso”). L’avvio delle riflessioni boetiane è già orientato in una prospettiva radicale estrema: il potere di uno solo è contro ragione. Il rifiuto conseguente di considerare la tirannia come una degenerazione delle forme di governo, secondo la tipologia politica classica, è in stretta dipendenza da un assunto impegnativo che riguarda la monarchia stessa: “… mi sembra difficile credere che ci sia qualcosa di pubblico in un governo in cui tutto è di uno solo” (Discours de la servitude volontaire, Genève 1987, éd. M. Smith o Pari 2002, éd. L. e A. Tournon, tr. it., di L. Geninazzi, Milano 1979, p. 64). Dunque, non esiste res publica là dove tutto appartiene a uno solo. Sottratta al tempo e allo spazio, l’eterna tirannia è anche croce del presente. La Boétie fa subito un ulteriore e decisivo passo. Il suo Discours non è solo un cahier de doléances contro la tirannide ma una presa di coscienza della radice del male politico-sociale: la servitù volontaria. Il possesso/proprietà universale di Uno solo, i guasti irreparabili, i massacri che esso ha provocato e provoca, la sua stessa forza risiedono nella essenza della potenza tirannica solo nella misura in cui un’altra forza oscura e inarrestabile, retoricamente ossimorica, il consenso della moltitudine, affermato come “mistero” della servitù volontaria, lo ha costituito. La forza del tiranno non è imposta dal terribile Uno, deriva dal popolo, dal consenso universale nell’unità dell’Uno, che crea il potere di Un seul, conducendo i molti al macello, alla boucherie universelle. Il popolo, universale concreto, autore e attore della propria servitù, si incatena da solo divenendo servo volontario di un universale astratto, che diviene ipso facto universale concreto, usurpatore dell’universalità e dell’unità primigenia del genere umano. Fatto sorprendente e comune, dimensione universale di un potere collettivo consegnato (alienato?) a un altro divenuto Uno con l’atto stesso di alienazione, dono dello Stato, dono perverso e radice del male politico. Gli uomini servono non per costrizione di forza maggiore ma come “affascinati e quasi stregati dal solo nome di Uno” (p. 65). Come spiegare la malia del nome, dell’unità fatta persona, di una relazione sociale “orizzontale” deliberata e accolta, coagulatasi per volontà di chi l’ha creata in una sola persona al di fuori della collettività in un movimento di soggezione “verticale”? Nella parodia dell’unità, nel mancato trasferimento dell’unità al suo legittimo possessore, anzi nella sua negazione ontologica?
Il male politico
Michel de Montaigne
Dei cannibali
Les essais, vol. I, 31
… ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi […] Tre di loro [i cannibales], non sapendo quanto costerà un giorno alla loro tranquillità e alla loro felicità la conoscenza della corruzione del nostro mondo […] furono a Rouen […] Dopo di che qualcuno chiese loro il parere […] Dissero […] (essi hanno una maniera di parlare per cui chiamano gli uomini metà gli uni degli altri) che si erano accorti che c’erano tra noi uomini pieni e saturi di ogni sorta di agi, e che le loro metà stavano a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà; e trovavano strano che quelle metà bisognose potessero tollerare una tale ingiustizia, e che non prendessero gli altri [le altre] per la gola e non appiccassero il fuoco alle loro case
M. de Montaigne, I saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano, 2012
Nel “dono” dello Stato La Boétie coglie perversità e patologia della politica/potere. E fa una congettura, la più ardua e, al contempo, la più apparentemente benevola e benefica. Suppone che gli abitanti di un Paese riescano a trovare uno di quei grandi personaggi, il vir bonus per eccellenza, lungimirante, coraggioso, premuroso, idoneo a governarli: gli danno fiducia e lo ubbidiranno “fino a riconoscergli una certa supremazia”. Tale supremazia segna il punto di non ritorno: “non saprei proprio dire se è un agire con saggezza toglierlo da dove faceva bene per metterlo in una posizione dove potrebbe fare male”. Anche il vir bonus è esposto al male politico, al male della politica, alla sua patologia in quanto denaturazione e degenerazione della società di amici delle origini, della politica dell’amicizia e del suo presupposto l’égalité, come La Boétie indicherà più avanti nel cuore del testo: l’amicizia può nascere solo sul terreno dell’uguaglianza, non procede mai zoppicando e si tiene sempre in perfetto equilibrio. La mostruosità della tirannide è piuttosto l’apice della dénaturation dei rapporti intersoggettivi prima di quelli tra governanti e governati, la lunga notte della libertà, simile all’omerico paese dei Cimmeri, dove per sei mesi regna l’oscurità, o della eterna minorità della ragione dei “popoli inebetiti” che si creano da soli “le menzogne per poterci credere”, compresa la superstizione religiosa.
Degenerazione/minorità che ha cancellato ogni “città di uomini”. Uomini nati liberi sono dappertutto in catene. Sembra di leggere l’incipit del Contrat social di Rousseau.
La prima conseguenza che La Boétie ricava dalla volontarietà del processo patogeno (la servitù volontaria) alla radice della costituzione del male è la possibilità del ritorno indietro del processo e della revocabilità del potere che essa stessa ha creato. Non solo. La natura della patogenesi, della modalità di insorgenza della malattia, contiene in sé anche la modalità dell’inversione del processo. Se la forza del tiranno (e il suo potere panottico) risiede nelle mani, negli occhi, nelle orecchie del popolo, se la forza del tiranno è il consenso del popolo (nel senso del genitivo soggettivo e oggettivo) allora non è necessario combattere con la forza quel potere “inumano e ingiusto”, opporgli una resistenza attiva: è sufficiente “non ubbidirgli più” e il Colosso crollerà (Ibid., 69). Qui La Boétie invoca la resistenza passiva contro il tiranno (con una eccezione significativa che farà agire più avanti nel testo). Il crollo del colosso dai piedi di argilla, il percorso della sua deligittimazione, coincide con un percorso di renaturazione/inumanamento dell’unità, di riappropriazione di ciò che si è alienato in un cattivo depositario, una riconquista dei propri diritti di natura per ritornare uns et unis, uni e uniti: da bestia ritornare uomini, soggetti di libertà e autoderminazione (Panichi, Plutarchus redivivus? La Boétie e i suoi interpreti, Roma 2008; tr. fr. 2008). L’uguaglianza disuguale, base naturale della fratellanza universale, divienta la controprova del principio primo del riconoscimento reciproco. Nella dialettica dell’io-noi, il noi è moltiplicazione e unità dell’io stesso, dei “beni e affetti” originari (p. 75); si attesterà come unità del molteplice. Il richiamo di La Boétie al modello politico dell’amicizia e l’accorato elogio conclusivo di sacralizzazione del concetto forniranno a Montaigne punto di partenza e linfa vitale per i saggi I, 28 (De l’amitié), I, 31 (Des cannibales), III, 6 (Des coches).
La politica dell’amicizia: la confrairie
Il concetto politico di amicizia perfetta, presente sullo sfondo della Servitude volontaire fungerà da elemento generativo di una complessa costruzione di un diverso pensiero o teoria della politica, che quasi alla fine del saggio montaignano De l’amitié confluirà nella prefigurazione di una politica dell’amicizia. Il cuore pulsante della Servitude volontaire, come il bordolese ha colto da suffisant lecteur, è la ricerca della pace sociale che annulla, con la sua realizzazione, la possibilità stessa della tirannide. Il vero cuore è contenuto al centro del libello boetiano con l’elogio della “volontà comune”, della sacralità dell’amicizia come cellula della società giusta, vincolo, unità e pace sociale. Riflessioni che impongono, allora, di far interagire il concetto sociale di amicizia di conio boetiano con quelle apparentemente apolitiche di Montaigne, che solo alla fine del saggio I, 28, si apriranno, nello stile del renversement, alla dimensione sociale. Ciò che per La Boétie era un presupposto diviene in Montaigne un risultato. Se si tengono presenti i saggi montaignani sui cannibales si intuisce presto che i due aspetti non siano veramente scindibili, come in fondo nemmeno in La Boétie, che apre la natura una e unita al futuro dell’umanità, mentre una embrionale filosofia della storia ha saputo guardare et derriere et devant non lasciando spegnere l’idea della libertà. Ma sarà proprio Montaigne ad aiutare a capire meglio il messaggio della Servitude volontaire: “Nulla è estremo se esiste un suo simile. E chi supporrà che, fra due, io ami l’uno come l’altro, e che essi si amino fra loro e mi amino quanto io li amo, moltiplica in confraternita la cosa più una e unita che esista…” (I, 28, 349C).