Una nazione fondata sul trasformismo
Una prassi tipica, costante e strutturale del sistema politico italiano, dall’invenzione di Agostino Depretis nel 1882 ai giorni nostri, passando per il periodo fascista, il dopoguerra e la Prima Repubblica.
L’idea del trasformismo, in genere, si lega a limitati momenti della storia politica italiana, anche se poi il termine viene utilizzato ogni volta che si riscontrano atteggiamenti politici frutto di rapide e facili conversioni: di passaggi, cioè, da u n partito all’altro, da un gruppo parlamentare a un altro. Una attenta analisi, tuttavia, fa comprendere come il trasformismo risulti essere un fattore tipico, costante e strutturale del sistema politico. Pur considerando la diversità tra l’Italia degli anni 1861-1925, del fascismo e del periodo repubblicano, si può infatti dire che l’impossibilità di un sistema fondato sull’alternanza tra 2 schieramenti e due politiche caratterizzati da una netta identità e radicati in culture distinte già nel tessuto sociale ha permesso, in ogni fase storica, la formazione di una ristretta classe di governo che, non potendo agire se non al proprio interno, ha finito per aggregare gruppi e persone in origine divisi. Di qui l’importanza che ha sempre avuto il ‘centro’, come parte che ha unito il centro-destra e il centro-sinistra e che ha respinto gli schieramenti estremi sia di sinistra sia di destra.
Il mancato coinvolgimento di importanti parti sociali e politiche del paese al processo di costruzione dello Stato unitario trasformò in un partito i gruppi a difesa dell’equilibrio liberale e delle istituzioni. Il che, in pratica, si tradusse nella trasformazione del governo in partito. Contro quello che pareva il pericolo costituito dai ‘rossi’ e dai ‘neri’ si finì sempre più per esaltare le capacità di direzione e di intervento politico del governo, attorno al quale si stringeva il partito dell’ordine.
Come in Francia, anche in Italia il governo venne usato come lo strumento di organizzazione della politica: il governo distribuiva favori, il governo interveniva nelle elezioni (tramite i prefetti), il governo creava consenso con i lavori pubblici, ecc. Tutto ciò non vuole dire che i gruppi che avevano partecipato alla fondazione dello Stato dovessero andare d’accordo e che non esistessero contrasti. In realtà, l’area di governo si caratterizzò per la separazione dal restante quadro politico e per l’omogenea visione degli equilibri politico-sociali e costituzionali. Questo meccanismo portò nei fatti ad ampie e trasversali collaborazioni parlamentari che presero, appunto, il nome di ‘trasformismo’. Nato dalla necessità di determinati gruppi di potere di serrare le fila e ampliare le alleanze per confermare un sistema minacciato da continui mutamenti sociali, il trasformismo divenne una tattica politica imperniata sulla trasformazione dell’azione di governo in un’azione al servizio delle tecniche di acquisizione del consenso e di conservazione/incremento delle fedeltà politiche.
Anche negli anni del fascismo continuò a praticarsi il trasformismo. Si tentò da una parte di amalgamare fascisti repubblicani e fascisti monarchici, fascisti e nazionalisti, fascismo eversivo e fascismo moderato, dall’altra di assimilare al fascismo tutte quelle forze liberali, cattoliche e socialiste compatibili con il nuovo regime che si andava costruendo.
L’iniziale alleanza politica del 1922 tra fascismo, nazionalismo, cattolicesimo, destra liberale, esercito, alta burocrazia, monarchia, industriali e agrari restò, anche dopo il passaggio dal pluralismo parlamentare alla sua abolizione, alla base del regime fascista, nelle vesti di un compromesso tra fascismo, chiesa, monarchia, borghesia. Venne esclusa, ovviamente, quella opposizione che si configurava non come alternativa al governo ma come alternativa al sistema. Si ripropose, quindi, un dato di fondo della storia politica del nostro paese e cioè la contrapposizione frontale tra le forze di governo e le forze di opposizione come forze antistato.
La mancata integrazione portava al compromesso come inevitabile soluzione per forze unite non tanto dalla comune visione ideologica e politica, ma dal comune obiettivo di conservare il sistema.
A partire dal secondo dopoguerra il centro continuò a essere una necessità a causa dell’inaffidabilità sia della destra sia della sinistra. La classe politica di governo ritenne, quindi, di dover assimilare al centro i gruppi e le persone che da una parte all’altra si dichiararono disposti ad accettare i vantaggi del potere. La Democrazia cristiana, partito centrale per eccellenza, divenne il luogo dove approdare per tutti coloro che vollero abbandonare il partito d’origine. Il trasformismo fu quello praticato ogni volta per unire le componenti abilitate al governo, ma differenziate negli interessi. La natura notabilare della classe politica, il personalismo, l’individualismo e il clientelismo caratterizzarono le maggioranze parlamentari.
Il caso, forse, più eclatante di trasformismo nei primi anni fu rappresentato dall’entrata nella maggioranza dei qualunquisti.
Nella primavera del 1947, era, infatti, ormai chiaro che De Gasperi, accentuandosi le fratture politiche interne e internazionali, non poteva governare con i comunisti e i socialisti. Fu così che, non potendo contare su Saragat, si rivolse ai voti della destra. Il leader dei qualunquisti Giannini fu, tuttavia, avvicinato dall’armatore Achille Lauro che sarebbe in seguito diventato leader dei monarchici. De Gasperi ottenne la maggioranza. Lauro anche in seguito avrebbe, comunque, fornito voti monarchici ai democristiani, in cambio di una piena autonomia nel governo della città di Napoli di cui divenne sindaco.
La corrente dei dorotei, costituitasi nel 1959, divenne l’anima centrista della DC e il luogo dove più facilmente si scambiarono posizioni e avvennero mutamenti di fronte. I dorotei diventarono presto il simbolo della malapolitica: per la loro flessibilità, per il loro trasformismo, per la loro capacità di attraversare mutamenti di scenario, di formula, di costume, per avere impersonato una stagione fatta di equilibri e misure, di un vero e proprio culto della mediazione, di un’interpretazione moderata, gradualista, mai dirompente dello scontro politico.
La prassi dei dorotei cercò soprattutto di assorbire gli altri nel proprio disegno e non già di sconfiggerli o cancellarli. Questa prassi si basava sulla convinzione che non si dovesse mai giungere a scontri radicali, ad alternative nette, ma a continue manovre avvolgenti tese a far convergere verso il centro impedendo divisioni drastiche tra destra e sinistra. Leader e maestro di questa prassi fu Aldo Moro.
Le cose, in fondo, non sono cambiate molto dopo la crisi di Tangentopoli. Il governo di Romano Prodi cadde il 24 gennaio 2008: a quel tempo si contarono 156 voti a favore della fiducia, mentre 165 furono i parlamentari che affossarono il governo. I comunisti – di diversa scuola – si dissociarono, cosa che segnò la loro morte politica, ma la vera spallata venne data dai centristi di Clemente Mastella e da Lamberto Dini. Lo stesso Mastella avrebbe appoggiato il centrosinistra alle provinciali di Benevento con 2 liste, una del partito che aveva fondato, l’UDEUR, un’altra con il suo nome, mentre sarebbe stato eletto sindaco di Ceppaloni grazie all’appoggio di Forza Italia. Per Mastella, si è scritto, il «trasformismo è una filosofia politica». Paolo Cirino Pomicino avrebbe descritto il mastellismo come «l’espressione dell’involuzione proprietaria dei partiti, imitativa del berlusconismo»; in seguito lo stesso Pomicino, dopo aver aderito all’UDEUR, sarebbe diventato uno dei pezzi di valore della collezione di antiquariato DC dei coniugi Mastella. In generale, Mastella poteva ritenersi tra i politici che avevano cambiato maggiormente partito. Per lui se ne contavano 7, mentre per Compagna 4, per Lanzillotta 6, per Villari 5, mentre Dini aveva contribuito sia alla fondazione del PD sia del PDL. Il recente sostegno di Verdini al governo Renzi e il suo passaggio, quindi, dal partito di Berlusconi all’alleanza parlamentare con il Partito democratico finisce, in fondo, per confermare un comportamento mai morto nelle abitudini del sistema politico italiano.
Cambi di gruppo, mai così numerosi da 20 anni
Ogni mese circa 10 parlamentari cambiano gruppo: uno ogni 3 giorni. È il dato più alto mai registrato dalla XIII legislatura, nonostante questa abbia registrato in totale il numero maggiore di cambi di casacca. Ma oggi la media mensile dall’inizio della XVII legislatura è aumentata del 105%: dal 2008 al 2013 (XVI legislatura) i
cambi di gruppo al mese erano poco più di 4, dal 2013 a oggi (XVII legislatura) la media è più che raddoppiata.
Se i governi Berlusconi sono ricordati per i tanti salti di schieramento, che contribuirono al salvataggio dell’esecutivo in molte occasioni, si tratta comunque di numeri inferiori rispetto ai governi Letta e Renzi.
La parola
- trasformismo
Termine con cui la pubblicistica italiana definì la prassi politica, inaugurata da A. Depretis, consistente nel formare di volta in volta maggioranze parlamentari intorno a singole personalità e su programmi contingenti, superando le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra. Di tipo trasformistico fu considerata anche la concessione di favori alle consorterie locali, in cambio del sostegno parlamentare, praticata da F. Crispi e G. Giolitti. Con riferimento alla politica contemporanea, il termine è stato assunto a significare, con tono spregiativo o comunque polemico e negativo, sia ogni azione spregiudicatamente intesa ad assicurarsi una maggioranza parlamentare o a rafforzare la propria parte, sia la prassi di ricorrere, invece che al corretto confronto parlamentare, a manovre di corridoio, a compromessi, a clientelismi, senza più alcuna coerenza ideologica con la linea del partito.
I cambi di casacca nella Seconda Repubblica di Vincenzo Piglionica
La prassi trasformistica in Italia permane come elemento sistemico della realtà politica pur assumendo forme diverse a seconda dell’epoca storica. Nel linguaggio corrente essa viene spesso ricondotta alla pratica del cambio di gruppo, e non di rado di schieramento politico, all’interno delle assemblee elettive, associandosi a speculazioni sui presunti vantaggi di diversa natura che il ‘trasformista’ riceverebbe per modificare la propria posizione, dagli incarichi più vari alla rassicurazione della ricandidatura.
Focalizzando l’attenzione esclusivamente sul Parlamento, le statistiche consentono di constatare che i proverbiali ‘cambi di casacca’ riguardano tanto i singoli – che spesso passano in altre formazioni o ingrossano le file dell’ormai numeroso gruppo Misto – quanto più legislatori insieme, che abbandonano la loro forza politica per formare nuovi gruppi parlamentari.
Inoltre, è possibile rilevare che i casi di trasformismo sono aumentati esponenzialmente negli anni della Seconda Repubblica. Uno studio realizzato da Barbara Lama come tesi di laurea presso l’Università di Bologna ha evidenziato che nella breve XII legislatura (1994-96), che ‘inaugurò’ la Seconda Repubblica, alla Camera furono 124 i parlamentari ‘trasformisti’, mentre nelle 2 precedenti (1992-94 e 1987-92) i deputati che avevano cambiato compagine politica erano stati 40 e 39.
La XIII legislatura (1996-2001) è stata finora quella del record assoluto di cambi di gruppo, oltre 400. Un dinamismo assai accentuato, anche se in parte spiegabile con le evoluzioni del sistema partitico collegate alle diverse esperienze di governo del quinquennio.
Con il passaggio dal governo Prodi a quello presieduto da Massimo D’Alema (1998) cambiò infatti la maggioranza governativa, con l’ingresso della neonata Unione democratica della Repubblica (UDR) – poi evolutasi in UDEUR – e l’uscita del Partito della rifondazione comunista, che subì una scissione da cui nacque il Partito dei comunisti italiani favorevole al nuovo esecutivo.
Dopo un allentamento della pratica con la XIV legislatura (2001-06), i cambi di gruppo tornarono prepotentemente nel corso del biennio 2006-08 della XV legislatura, in cui il governo Prodi – già debole al Senato e spesso costretto ad affidarsi al voto dei senatori a vita – perse pezzi tanto nella sua componente di sinistra quanto al centro. Sebbene non decisivo per le sorti dell’esecutivo, il caso più eclatante di trasformismo fu quello del senatore Sergio De Gregorio, eletto per il centrosinistra nelle liste de L’Italia dei valori e poi passato al gruppo Misto, votando contro l’esecutivo. Nel 2013, De Gregorio dichiarò di aver ricevuto da Berlusconi – per tramite del faccendiere Valter Lavitola – 3 milioni di euro per passare al centrodestra: il senatore patteggiò una pena di 20 mesi, mentre Berlusconi è stato condannato in primo grado a 3 anni di reclusione.
Nella XVI legislatura (2008-13), in cui l’esecutivo di Berlusconi è stato sostituito nel 2011 da quello di Mario Monti, i cambi sono stati 261 e i parlamentari coinvolti 180; 2 in particolare gli eventi che hanno prodotto i più importanti spostamenti: l’uscita dal PDL dei parlamentari vicini a Gianfranco Fini con la nascita di Futuro e libertà e il voto a sostegno del governo Berlusconi di diversi ‘transfughi’ provenienti da altri partiti e ribattezzati come ‘I responsabili’.
Nel corso dell’attuale legislatura, come certificato dal rapporto dell’associazione Openpolis, si è invece registrato il più alto valore di cambi al mese, ben 9,91. Tra i casi più eclatanti le espulsioni nel M5S, che invoca una revisione dell’art. 67 della Costituzione sull’elezione dei parlamentari senza vincolo di mandato, l’implosione del PDL sul tema del sostegno al governo Letta – con la ricostituzione di Forza Italia come soggetto di opposizione e la nascita del Nuovo centrodestra a supporto dell’esecutivo – e l’uscita dal partito di Berlusconi di 2 fronde di dissidenti: i parlamentari vicini a Raffaele Fitto, sostenitori di una dura opposizione all’esecutivo di Matteo Renzi subentrato a Letta nel 2014, e quelli facenti capo a Denis Verdini che nel corso del 2016 hanno garantito la loro fiducia al governo.