Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Quattrocento, dal punto di vista della prassi del lavoro, l’artista continua a essere assimilato all’artigiano. All’interno dei trattati d’arte, però, si delinea una nuova immagine: architetti, pittori e scultori vengono descritti come maestri di arti liberali e non più meccaniche. Queste riflessioni trovano un approdo maturo, all’inizio del Cinquecento, nel pensiero di Leonardo da Vinci. Contemporaneamente, il diffondersi del cliché dell’artista saturnino e melanconico attesta una nuova percezione della categoria, formata da individui dediti ad attività che affaticano l’ingegno e la mente.
Pratica artistica nel Quattrocento
Nel Quattrocento le modalità di svolgimento del lavoro dell’artista sono identiche a quelle dei due secoli precedenti. Il centro dell’attività continua a essere la bottega, in cui dipinti e sculture sono realizzati secondo le direttive della committenza. Siamo ancora lontani dal concetto, tipicamente romantico, di opera d’arte come libera espressione della creatività e dell’ispirazione di un individuo. La bottega è, inoltre, il luogo dell’attività didattica, al cui interno i giovani artisti si formano seguendo un percorso che dalla pratica, dai lavori meccanici, conduce all’ideazione di un’opera compiuta. Il lavoro dell’artista non si distingue da quello dell’artigiano, e tale viene considerato. Ancora alla fine del Quattrocento, la famiglia di Michelangelo, di origine nobiliare, ostacola la vocazione del giovane che lo orienta verso un mestiere ritenuto svilente e inadeguato al loro ceto sociale.
Eppure non mancano segni di insofferenza: nel 1434, per esempio, Filippo Brunelleschi viene arrestato su richiesta dell’Arte dei maestri di pietre e legnami per essersi rifiutato di pagare i tributi spettanti, per legge, alla corporazione. Una decina di giorni dopo è rilasciato su richiesta del Capitolo del duomo di Firenze. L’episodio può essere considerato una rivendicazione, da parte dell’architetto, di una diversa considerazione della propria attività e del proprio status sociale. Il Quattrocento infatti è il secolo che vede gli artisti impegnati ad affermare la dignità intellettuale del loro lavoro, il loro diritto a essere annoverati fra i membri dell’élite culturale poiché maestri di arti liberali e non meccaniche.
La figura dell’artista nei trattati d’arte
Il percorso che conduce le arti figurative a essere iscritte fra le arti liberali si svolge sostanzialmente all’interno delle pagine dei trattati d’arte, redatti nel corso del Quattocento dagli artisti stessi.
Il Trattato della pittura, scritto da Cennino Cennini alla fine del Trecento, è ancora un ricettario, un libro che descrive e divulga i segreti della pratica. Le opere che vedono la luce nel Quattrocento sono invece modellate su testi letterari e di ben altro contenuto intellettuale. Fra i motivi addotti con più frequenza a riprova del rango meccanico delle arti figurative vi sono il loro carattere manuale, che esclude l’apporto mentale nell’elaborazione dell’opera e, di conseguenza, l’ignoranza di cui vengono accusati gli artisti. La falsità di questi assunti costituisce la prima rivendicazione da parte dei trattatisti. Essi sottolineano a più riprese la molteplicità di conoscenze, tutte di ambito liberale, che il pittore, lo scultore e l’architetto devono possedere nello svolgimento del proprio lavoro. Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentari (1450 ca.), parafrasando un passo del De architectura di Vitruvio, descrive l’artista come un uomo erudito in disegno e geometria, storia e mitologia, filosofia, musica, medicina, giurisprudenza e astrologia. Antonio Averlino detto il Filarete, nel suo Trattato di architettura (1461-1464), non si discosta molto da questo ritratto.
Ben altra consapevolezza e articolazione di pensiero si incontrano in Leon Battista Alberti, autore di tre trattati dedicati alla pittura (De pictura, 1435), all’architettura (De re aedificatoria, 1452), alla scultura (De statua, 1464). L’assimilazione delle arti figurative alle arti liberali è perseguita da Alberti sia attraverso il paragone con l’eloquenza, le cui schematizzazioni e i cui principi sono rielaborati e adattati al procedimento pittorico, sia attraverso l’enfasi posta sulle vaste conoscenze necessarie allo svolgimento di tali attività. Nelle sue pagine non solo l’architetto, ma anche il pittore è “dotto, in quanto e’ possa, in tutte l’arti liberali; ma in prima desidero sappi geometria”, e sappia “dilettarsi de’ poeti e degli oratori”.
Le competenze principali, nel secolo che scopre la prospettiva e le regole matematiche alla base delle proporzioni dei corpi, sono quelle aritmetiche e geometriche, ed è soprattutto su queste che si punta nei trattati. Artisti come Piero della Francesca e Luca Pacioli (1445 ca.-1517 ca.) redigono testi incentrati sulle componenti matematiche della pittura, rispettivamente il De prospectiva pingendi e il De divina proportione. Non a caso Piero della Francesca vi lavora negli ultimi anni di vita a Urbino. Qui Federico da Montefeltro aveva rilasciato nel 1468 all’architetto Luciano Laurana una patente che dimostra come il valore intellettuale del lavoro artistico iniziasse a essere riconosciuto anche dai committenti: “quelli uomini noi giudicamo dover essere honorati et commendati li quali si trovano essere ornati di ingegno et di virtù [...] come è la virtù dell’architettura fundata in l’arte dell’aritmetica e geometria, che sono delle sette arti liberali e delle principali, perché sono in primo gradu certitudinis et è arte di gran scienza e di grande ingegno da noi molto stimata et apprezzata”. Il testo mostra come la pratica architettonica sia valutata opera di ingegno, annoverata fra le arti liberali e le scienze in virtù delle competenze scientifiche e matematiche.
La pittura secondo Leonardo da Vinci
Leonardo da Vinci non pubblicò mai il progettato Trattato della pittura. Appunti, annotazioni, schizzi di mano dell’artista conservati nei suoi codici saranno rielaborati alla fine del Cinquecento e pubblicati per la prima volta in Francia nel 1651. I testi riportati nei suoi manoscritti, seppur non strutturati in un’opera organica, non solo riassumono le conquiste della trattatistica precedente, ma ne mostrano il superamento. In Leonardo le arti figurative, e soprattutto la pittura, non devono più ricorrere a ricercati paragoni con la retorica e la poesia, o fare appello al bagaglio di conoscenze matematiche e geometriche per dimostrare il loro carattere intellettuale, poiché vengono giudicate non più pari bensì superiori alle arti liberali.
La pittura per Leonardo supera qualunque sapere scientifico di tipo matematico poiché non si limita a descrivere il mondo reale in termini di quantità, ma di qualità: è la sola in grado di restituire alla vista la “bellezza delle opere di natura e ornamento del mondo”. Supera anche la poesia e le altre opere letterarie in virtù della sua capacità di comunicazione, poiché comprensibile a tutti e non limitata da barriere linguistiche.
Superiore a ogni altra scienza per le sue possibilità di indagine, conoscenza e resa della natura, la pittura è concepita come operazione mentale, parto dell’ingegno dell’individuo: è “prima nella mente del suo speculatore”, e solo in un secondo momento si traduce in realizzazione manuale. Partendo dal presupposto che questi due elementi, lavoro mentale e manuale, necessariamente convivono, il primo deve avere la precedenza anche nella formazione del giovane artista: “studia prima la scientia, e poi seguita la pratica nata da essa scientia”. In questo modo i testi di Leonardo pongono le basi per il superamento del tipo di insegnamento impartito allora: al centro non più l’esperienza pratica, ottenuta nell’apprendistato presso la bottega, ma lo studio della teoria, una conoscenza di tipo scientifico e intellettuale. Sono le premesse alla nascita delle future accademie d’arte nel XVI secolo. La prima, l’Accademia del Disegno, vedrà la luce a Firenze nel 1563.
L’artista saturnino
Nel 1505 Pietro Bembo, intermediario fra Isabella d’Este (1474-1539) e il pittore Giovanni Bellini, scrive alla duchessa di Mantova che, se vuole assicurarsi un’opera dell’artista veneziano, dovrà limitare le proprie richieste sull’iconografia del dipinto, poiché Bellini “ha piacere che molto signati termini non si diano al suo stile, uso, come dice, di sempre vagare a sua voglia nelle pitture”. Pochi anni prima, nel 1502, la signoria di Firenze aveva scritto al maresciallo di Gié, Pierre de Rohan, spazientito per i ritardi di Michelangelo nel consegnare un David in bronzo, ricordandogli che “quando si tratta di lavori di pittori e scultori, come sapete, è difficile fissare dei termini precisi”. Aneddoti come questi testimoniano una nuova consapevolezza della dignità e del valore della creazione artistica: Bellini può rivendicare la propria autonomia creativa anche di fronte a un committente prestigioso come la duchessa di Mantova; il ritardo nella consegna da parte di Michelangelo deve essere tollerato e compreso in virtù del carattere eccentrico riconosciuto agli artisti.
È con il Cinquecento che si moltiplicano e diffondono descrizioni di artisti dal comportamento non proprio ortodosso: la trascuratezza personale di Masaccio, l’ossessione per le sperimentazioni prospettiche di Paolo Uccello, le manie di Piero di Cosimo, l’alienazione di Pontormo, sono tutti tratti che rientrano nel cliché dell’artista saturnino e melanconico (Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno, 2005). Sul piano sociale, il proliferare di questi atteggiamenti è stato letto come una manifestazione di disagio da parte degli artisti di fronte ai mutamenti delle strutture in cui erano inseriti, al loro passaggio di status: non più artigiani, non pienamente affermati come dotti e intellettuali. Sul piano culturale, e della percezione dell’artista, il fenomeno affonda le proprie radici nella cultura neoplatonica e nell’opera di Marsilio Ficino. Aristotele, in uno dei suoi Problemata, aveva constatato una propensione alla melanconia da parte di quanti dedicavano tutti se stessi agli affari di Stato, alla filosofia, all’arte poetica.
Marsilio Ficino aveva fatto proprio questo assunto collegandolo alla teoria del furor, dell’ispirazione creatrice. Pertanto, tutti coloro che mostravano particolare impegno in attività intellettuali, frutto dell’ingegno o della creatività individuale, rischiavano di cadere vittime del morbo della melanconia. Sebbene Ficino non avesse inserito in maniera esplicita pittori, scultori e architetti fra coloro che si esponevano a questo pericolo, l’accettazione da parte della società di atteggiamenti insoliti e comportamenti non convenzionali da parte degli artisti implica il loro riconoscimento come personalità melanconiche, impegnate non in un’attività meccanica e puramente manuale, ma in un lavoro intellettuale, che affatica l’ingegno e la mente.