Una politica per i beni culturali
Le prime formulazioni giuridichee le prime applicazioni
La moderna civiltà giuridica della tutela nacque in Italia con un anticipo di qualche secolo sul resto dell’Europa ed era già ben presente nella legislazione degli Stati preunitari: a Firenze come a Venezia, a Napoli come a Roma. Fu in Italia che si affermò per la prima volta il fondamentale principio della potestà normativa e prescrittiva che deve essere necessariamente connessa alla competenza tecnica. Questo accadde quando, nel 1515, papa Leone X nominò Raffaello ispettore generale delle belle arti. Avrebbe potuto affidare questo prestigioso incarico a un prelato di curia, a un qualsiasi funzionario dell’amministrazione apostolica, a un familiare o a un amico. Lo affidò a Raffaello per la semplice ragione che Raffaello era un addetto ai lavori ed era, nel settore delle arti, il più bravo di tutti. Poco meno di un secolo dopo operò a Firenze, con poteri di vera e propria soprintendenza regionale, la granducale Accademia delle arti del disegno. L’accademia era governata da pittori, scultori e architetti illustri che avevano il compito, fra gli altri, di espertizzare e di concedere permessi di esportazione agli antichi maestri defunti, di cui si forniva elenco. Gli antichi maestri erano quelli che il Vasari lodava nelle sue Vite: da Michelangelo a Fra Bartolomeo, da Filippo Lippi al Pontormo, dal Franciabigio a Daniele da Volterra. Il divieto di esportazione porta la firma del granduca Ferdinando de’ Medici e la data del 24 ottobre 1604. Si deve a quella provvida disposizione se oggi possiamo percorrere le chiese di Firenze trovando ancora al loro posto gran parte degli autori e delle opere descritti nelle Vite.
Il possesso dell’opera d’arte non è una proprietà indifferente. Secondo il principio dell’uti et abuti sancito dal diritto romano, io posso fare quello che voglio delle cose che mi appartengono, anche, se mi aggrada, distruggerle. Ma se io sono possessore di una scultura di Prassitele o di un dipinto di Tiziano, la mia non è più una proprietà indifferente, perché Prassitele e Tiziano interessano tutti, sono parte della nostra civiltà e della nostra storia, la loro conservazione sta a cuore a ognuno. La proprietà cessa di essere indifferente di fronte a beni che (dal punto di vista morale e spirituale) appartengono alla collettività. Ne consegue, quindi, che è dovere della potestà pubblica conoscerli e tutelarli. Su queste considerazioni e su questi principi si fonda oggi la legislazione dei beni culturali nel mondo. Ma è opportuno ricordare che è nell’Italia degli Stati preunitari che quelle considerazioni e quei principi hanno avuto le prime formulazioni giuridiche e le prime pratiche applicazioni.
Alla fine del Settecento la Repubblica di Venezia istituì organi tecnico-consultivi per la conoscenza e la protezione del patrimonio ovunque distribuito e comunque posseduto. Nel 1773 Anton Maria Zanetti (celebre incisore, collezionista e studioso d’arte) venne incaricato di effettuare il censimento delle opere d’arte conservate nelle chiese, nei conventi, nelle confraternite della città e del Dominio. L’inventario Zanetti aveva il valore di un atto pubblico che vincolava possessori e custodi (parroci, rettori, superiori di conventi e monasteri) a vigilare sui beni censiti garantendone l’inamovibilità e la corretta conservazione.
A Roma, nel Seicento e nel Settecento, si moltiplicarono gli editti che proibivano o limitavano le esportazioni, ma fu con quello (1820) del cardinale camerlengo Bartolomeo Pacca che prese forma, nello Stato pontificio, una vera e propria struttura tecnico-amministrativa esemplare per rigore ed efficienza. Negli Stati della Chiesa assunse forma giuridica ed eccellente applicazione l’istituto altamente illiberale del fidecommesso. Il fidecommesso altro non è che la notifica d’insieme esercitata sulle collezioni di particolare pregio, insieme all’obbligo di trasmettere il patrimonio artistico o archeologico notificato di primogenito in primogenito. Dobbiamo alla provvidenziale illiberalità di decreti papali – che in nome delle superiori ragioni della storia e della cultura mortificavano insieme i pur sacrosanti diritti della proprietà privata e della successione ereditaria – se oggi a Roma esistono ancora, praticamente intatte, le quadrerie dell’antico regime: la Doria Pamphili, la Colonna, la Pallavicini, la Borghese.
I fondamentali, elaborati dalla cultura e dal pensiero giuridico italiano fra il 16° e il 19° sec., trovarono la loro coerente conclusione nelle leggi generali del Novecento: la legge Rava-Rosadi n. 364 del 1909 e le leggi Bottai n. 1089 e n. 1497 del 1939.
Dal 1939 ai nostri giorni
Si giunge, dunque, ai nostri giorni, alle mutazioni politiche, sociali, culturali intervenute negli ultimi decenni e al nuovo quadro legislativo; in parte emerso, in parte in via di rapida emersione. La legge Bottai 1089, del 1° giugno 1939, era e resta un capolavoro di civiltà e di sapienza giuridica. Era impossibile distruggerla, era impossibile modificarla. L’Italia della democrazia e dell’arricchimento diffuso ha preferito aggirare la legge fondamentale rendendosi conto della sua immodificabilità e invulnerabilità. La l. 1089 è stata recepita, come si dice in gergo, nelle normative successive fino all’ultimo codice Urbani, il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004). Ma essa è oggi, di fatto, da tutti avvertita come qualcosa di tanto bello quanto inattuale. È simile a un ponte, solido e perfettamente costruito, che attraversa un fiume che non c’è più perché ha mutato corso. L’Italia del 1939 era l’Italia dei notabili e delle plebi rurali, del dirigismo e dell’autoritarismo esercitati su una società povera e immobile. La cultura era per pochi, agli Uffizi entravano 50.000 persone l’anno (oggi ne entrano un milione e mezzo; in meno di un secolo un aumento pari a trenta volte!), il turismo riguardava le piccole élites dei libri e del censo, un sistema aristocratico e clericale ancora in buona parte intatto garantiva la permanenza del patrimonio nelle collezioni private, nelle congregazioni religiose, nelle parrocchie, anche le più marginali. Le cose, poi, sono andate come sappiamo.
Negli ultimi cinquant’anni il nostro Paese ha conosciuto la trasformazione socioeconomica e culturale più radicale della sua storia. Le emigrazioni dal Sud al Nord, dalla campagna alla città, dalla montagna alla pianura, dall’interno alla costa, hanno dissestato e sconvolto il territorio. Si spopolavano le aree rurali mentre la struttura parrocchiale periferica che aveva resistito impavida per secoli si dissolveva come neve al sole. Si svuotavano gli antichi borghi mentre la speculazione edilizia distruggeva o mortificava pezzi importanti del paesaggio, il bene culturale in assoluto più celebre e più invidiato dell’Italia storica.
Mutavano intanto – con l’arricchimento conseguente al boom economico – i mestieri, le abitudini, i costumi degli italiani. L’ingresso nella ‘modernità’, in altri Paesi d’Europa avvenuto cento anni prima, è tumultuosamente esploso, in Italia, nella seconda metà del 20° secolo. L’Italia dei nostri giorni ha cercato di fronteggiare i tempi nuovi, i nuovi pericoli e le nuove attese come meglio sapeva e poteva. Con risultati in parte deludenti, è pur giusto riconoscerlo. La l. 1089 rimaneva intatta come un venerabile monumento, ma a essa si aggregavano e su di essa si stratificavano normative e sensibilità difformi. Nasceva il Ministero per i Beni culturali e ambientali (d.l. 14 dic. 1974 n. 657, convertito nella l. 29 genn. 1975 n. 5); nasceva per ragioni di dignità, di peso, di visibilità politica adeguate – si disse allora –, nasceva per garantire migliore efficienza ed efficacia al governo del patrimonio. Di fatto, l’istituzione del nuovo dicastero recideva il vincolo che legava da sempre la scuola al museo, la cultura accademica a quella operativa, e fu facile, in seguito, aggregare ai beni culturali lo spettacolo e lo sport. Era una mutazione di epigrafe e di contenuti di cui solo oggi avvertiamo le pericolose conseguenze.
Fra gli anni Sessanta e Settanta fu necessario concedere qualcosa all’antropologia e alla sociologia marxiste all’epoca dominanti. Avvenne così che le opere d’arte caddero sotto il deprimente neologismo di beni culturali. L’intellettuale godimento di fronte all’Apollo del Belvedere o alla Venere di Tiziano lo si obbligò a diventare fruizione. E fu territorio quello che Giacomo Leopardi e Wolfgang Goethe avevano chiamato paesaggio. All’inizio degli anni Ottanta qualcuno inventò la metafora trucida e smagliante dei beni culturali nostro petrolio. Chiunque sia stato era un genio della comunicazione, perché quella formula affascinò a lungo giornalisti di ogni tendenza e politici di ogni partito. Il vento era cambiato. Era il tempo del pensiero unico liberista ed economicista. Il Museo che l’Europa dei fascismi e dei comunismi, dei governi democristiani e socialdemocratici aveva immaginato come strumento di educazione, memoria della storia e luogo dell’orgoglio patrio, cominciò a essere considerato sotto l’inedito profilo del museo-azienda, volano di sviluppo, moltiplicatore di occupazione. L’universo delle arti si staccava dai suoi tradizionali ormeggi storicistici e idealistici per viaggiare verso gli incogniti lidi della fruttuosità economica e dell’efficienza aziendalistica.
Con la cosiddetta legge Ronchey (l. 14 genn. 1993 n. 4) si istituirono i servizi aggiuntivi e fu tutto un moltiplicarsi di book shops da un capo all’altro della penisola. Bisognava dire e scrivere book shop perché nel frattempo gli italiani, nella loro ingenua esterofilia, avevano dimenticato che un posto dove si conservano e si vendono i libri, nella nostra lingua e da molto tempo prima che si scoprisse l’America, si chiama libreria. Alle grandi attese seguirono inevitabili delusioni perché i mirabolanti profitti per il privato e per l’amministrazione che molti avevano prefigurato si rivelarono spesso illusori. Intanto il costo dell’accesso ai musei, rimasto pressoché simbolico per la gran parte del Novecento, fra il 1980 e il 2000 aumentava di cinquanta volte; nessuna tariffa pubblica era cresciuta, parallelamente, in maniera così imponente. Oggi entrare agli Uffizi costa come andare al cinema.
E, infine, siamo allo snodo decisivo. Fra venti federalisti (la Toscana, alfiere e portavoce delle altre regioni sia di destra sia di sinistra essendo l’obiettivo assolutamente bipartisan, vuole gestire in proprio la tutela e regionalizzare le soprintendenze), modifiche costituzionali (la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione), precarie autonomie (i Poli museali), scenari incombenti di privatizzazione ed endiadi (tutela-valorizzazione, la prima allo Stato, la seconda alle Regioni), che a molti suonano come ossimori, le prospettive si fanno sempre più incerte.
I provvedimenti legislativi e normativi del Novecento
Il punto di arrivo (provvisorio) nel moderno percorso di trasformazione del concetto di tutela con conseguente adeguamento legislativo e normativo è rappresentato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004. Sul codice Urbani torneremo ancora, ma intanto poniamo attenzione all’epigrafe. Al paesaggio viene attribuita dignità pari alle cose di interesse culturale. Il significato simbolico dell’equiparazione è evidente ed efficace è il messaggio politico. L’ultimo mezzo secolo ha assistito, nel pratico disinteresse di politici e di amministratori, alla devastazione del Bel Paese per l’abusivismo, per la proliferazione edilizia aggressiva e incontrollata. Quello che agli occhi del mondo era (e ancora resta nell’immaginario universale) il giardino d’Europa ha trascurato e spesso violato e rovinato il paesaggio, l’aspetto più prezioso e più invidiato del patrimonio. Nel Codice si afferma, almeno nel titolo, che le colline senesi sono importanti quanto Simone Martini e Duccio di Buoninsegna, che le coste della Calabria vanno tutelate come i templi di Paestum. Questo è importante anche se, nell’Italia di oggi, l’attuazione di tale sacrosanto principio presenta – lo vedremo – difficoltà applicative assai rilevanti.
Stringendo in estrema sintesi le linee politiche che hanno attraversato il mondo dei beni culturali dall’istituzione del Ministero fino a oggi, possiamo dire che esse si riducono sostanzialmente a due. Da una parte, c’è stato un forte impulso alla modernizzazione dei servizi e al coinvolgimento dei privati attraverso l’adozione di modelli di matrice anglosassone; dall’altra, si è giocata una lunga partita, non ancora conclusa, fra Stato centrale e potestà locali (Regioni, Comuni) per le attribuzioni di ruoli e competenze nel governo del patrimonio.
Il primo atto significativo nel processo di acquisizione di modelli culturali stranieri è stata la l. 2 ag. 1982 n. 512. Era ministro il democristiano Vincenzo Scotti e per la prima volta il Parlamento della Repubblica riconosceva che il privato possessore di beni culturali di rilevante interesse non è un privilegiato da mortificare con i vincoli e le tasse, ma piuttosto un benemerito cittadino da aiutare con agevolazioni fiscali e provvedimenti di sostegno. Riconosceva anche che i privati potevano e dovevano essere coinvolti nella conservazione e nella valorizzazione del patrimonio. Nacque e si consolidò in quegli anni la pratica della cosiddetta sponsorizzazione che vede imprese e singoli cittadini attratti dalla pubblicità pregiata non meno che dalle agevolazioni governative. La l. 512 del 1982 è nota soprattutto per la possibilità che dava al contribuente di saldare il suo debito fiscale con la cessione di opere di eccezionale importanza. Di fatto questo aspetto della legge è stato di difficile e contrastata attuazione e ha portato a risultati nel complesso modesti. Resta tuttavia l’importanza di una legge che, adeguandosi almeno in parte a sensibilità e a pratiche straniere, apriva al privato cittadino possibilità di coinvolgimento e di partecipazione rimaste fino allora precluse.
Chi all’inizio degli anni Novanta fosse entrato in un qualsiasi museo statale italiano con l’intenzione di uscirne con una cartolina, con un souvenir, con una guida, sarebbe rimasto deluso. Come nella Turchia o nella Siria di inizio Novecento, i musei italiani (anche gli Uffizi, anche la Borghese, anche Brera) non avevano punti vendita. Antiquate prescrizioni burocratiche e tenaci interdizioni sindacali impedivano l’istituzione di elementari servizi di accoglienza.
Ci è voluto un ministro che veniva dal giornalismo, che aveva vissuto a lungo all’estero e che conosceva bene il funzionamento dei grandi musei americani, perché la singolare anomalia italiana venisse risolta. Il ministro era Alberto Ronchey e la già citata legge che porta il suo nome (l. 14 genn. 1993 n. 4), con il regolamento di attuazione adottato alcuni anni più tardi dal Ministero per i Beni culturali e ambientali (d.m. 24 marzo 1997 n. 139, titolare del dicastero Walter Veltroni), cambiò in modo sostanziale l’immagine e l’uso delle collezioni pubbliche nazionali. Anche se la legge Ronchey con il relativo regolamento applicativo toccava aspetti apparentemente marginali del sistema museale (biglietteria, guardaroba, punti vendita), essa rappresentò in realtà un’autentica rivoluzione poiché per la prima volta l’impresa privata entrava concretamente e visibilmente nella gestione e nella valorizzazione del patrimonio. Gli effetti della legge Ronchey sono stati disuguali. Applicata, su tutto il territorio, a realtà burocratiche considerevolmente diverse, ha portato a risultati modesti se non anche deludenti in molti casi, positivi in pochi altri. A Firenze, a seguito della gara integrata bandita alla fine del 1997, il concessionario ATI Giunti ha fatto profitto, ha arricchito il bilancio della Soprintendenza per decine di milioni di euro in royalty, ha creato dal nulla quasi quattrocento nuovi posti di lavoro stabile. Il caso di Firenze resta, nel quadro nazionale, con pochi confronti. Esso è tuttavia la dimostrazione che legge e regolamento possono funzionare se correttamente impostati e gestiti.
In ogni caso, con i provvedimenti legislativi e normativi degli ultimi anni Novanta la tradizionale immagine del museo mutò sensibilmente. Il visitatore che entrava in una pubblica collezione incontrava librerie quasi sempre bene attrezzate per acquistare libri, souvenir e cartoline, caffetterie e luoghi di ristoro di passabile qualità. Chi conosceva i musei stranieri si rendeva conto che l’adeguamento a quei modelli era avvenuto: in modo più o meno soddisfacente, ma era avvenuto. Di un’altra novità si accorgeva il visitatore: il prezzo del biglietto di accesso al museo poteva variare per la presenza o meno di una mostra all’interno del museo stesso. Perché tale inedita variabile fosse applicabile occorrevano due cose. Prima di tutto, bisognava che il costo dell’accesso non fosse una tassa, come fino al 1997 era, ma un semplice biglietto come quello del tram o della metropolitana; quindi flessibile, integrabile, modificabile. Un decreto legge (17 maggio 1996 n. 276), conquistato quando chi scrive era ministro tecnico nel governo Dini e convertito dal ministro Veltroni nella l. 23 marzo 1997 n. 78, ha fatto il miracolo. Quella leggina di un solo articolo e a costo zero (il prezzo dell’ingresso trasformato da tassa in biglietto) ha avuto effetti rivoluzionari. Per il mondo delle soprintendenze è stata come la caduta del muro di Berlino. Da quel momento i biglietti di accesso potevano essere legittimamente integrati con il supplemento-mostra così come, altrettanto legittimamente, si potevano istituire biglietti cumulativi scontati sul percorso di più musei.
Da Firenze a Napoli dilagò inarrestabile il fenomeno delle esposizioni d’arte autofinanziate, in toto o in parte, dall’aumento del prezzo del biglietto e allestite all’interno dei musei. Naturalmente (ecco l’altra considerazione necessaria) perché la virtuosa addizione dia risultati apprezzabili, ci vogliono i numeri. In Italia i musei visitati ogni anno da più di mezzo milione di persone si contano sulle dita di una mano. Il fenomeno ha dunque un campo limitato di applicazione, ma esso è già significativo della nuova cultura aziendalistica che ha iniziato a infiltrarsi nel venerabile sistema museale italiano.
Il rapporto pubblico-privato
Fra gli anni Ottanta del secolo scorso e i primi di questo, innumerevoli convegni, seminari, pubblicazioni hanno trattato l’argomento principe dei nostri giorni e cioè il rapporto pubblico-privato, il ruolo dell’impresa nel settore dei beni culturali. Il fatto è che in Italia il grande privato virtuoso pronto a investire il suo denaro in mostre o in restauri, a finanziare ristrutturazioni museali o festival di musica classica, non c’è o è molto raro. La vicenda di Palazzo Grassi, il grande centro espositivo veneziano voluto dalla famiglia Agnelli e passato in mani straniere alla morte di Gianni Agnelli, è esemplare. L’Italia è piuttosto il Paese della microimpresa, dell’economia di valle o di distretto, dell’artigiano diventato piccolo o medio industriale che è in ugual misura orgoglioso della sua fabbrica di mobili o di scarpe come del Lotto o del Crivelli conservato nella chiesa parrocchiale del paese. Ogni soprintendente che ha prestato servizio nella provincia italiana (soprattutto del Centro-Nord) negli ultimi decenni sa che piccoli ma nell’insieme consistenti rivoli di risorse (per restauri, per pubblicazioni, per mostre) sono venuti dai contesti socioeconomici nei quali spirito d’impresa e attaccamento alla piccola patria danno origine a fruttuose forme di alleanza.
Allo stesso modo decisivo è stato e continua a essere il ruolo che nel nostro Paese si sono assunte quelle particolari istituzioni private conosciute come fondazioni bancarie. In Italia c’è una banca a ogni campanile. Si tratta di istituti (le banche popolari, le casse di risparmio, le banche di credito cooperativo) che potremmo definire identitari, nel senso che sono profondamente radicati nel territorio, ne rappresentano la storia, ne tutelano l’identità. La conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale locale è un punto qualificante dei loro statuti. Ciò spiega perché negli ultimi anni, e in significativa coincidenza con il graduale declino delle risorse pubbliche, sempre più importante sia diventato il peso delle elargizioni bancarie. Si calcola che nell’anno 2006 le fondazioni abbiano finanziato attività culturali per cinquecento milioni di euro. Una cifra di poco inferiore ai circa settecento che ha speso il Ministero in conto capitale, al netto cioè dei costi del personale e del funzionamento.
Per ragioni storiche e culturali che conosciamo molto bene, gli italiani non hanno molto forte il senso dello Stato. Hanno fortissimo invece il senso della comunità locale, l’orgoglio della piazza e del campanile. È così da sempre. Il nostro è il Paese delle cento città, ognuna delle quali ha storia e consapevolezza di autentica capitale. Il nostro è il Paese delle differenze, esibite e coltivate con fierezza. Se un denominatore comune unisce i popoli del Bel Paese, questo è la diffidenza nei confronti di un potere centrale considerato estraneo e lontano. Ciò significa che qui da noi nessun imprenditore privato e nessun presidente di fondazione bancaria affiderebbe i suoi soldi all’amministrazione centrale romana perché li impieghi in politiche di intervento sui beni culturali del territorio. Ciò significa anche che il cospicuo flusso di denaro privato proveniente dalla liberalità di imprenditori e di istituti di credito, non sempre viene impiegato con la razionalità e con l’efficacia che sarebbero auspicabili. Troppi gli interventi effimeri, le mostre inutili, i restauri non necessari, le iniziative culturali motivate soltanto da ragioni di campanile. Occorrerebbe un minimo di coordinamento, almeno a livello regionale, occorrerebbero progetti di lungo periodo concordati con gli uffici della tutela. Il codice Urbani sommessamente e giudiziosamente lo auspica all’art. 121, quando propone «protocolli di intesa con le fondazioni […] al fine di coordinare gli interventi di valorizzazione sul patrimonio culturale e, in tale contesto, garantire l’equilibrato impiego delle risorse finanziarie messe a disposizione». Aggiungendo che «[…] La parte pubblica può concorrere, con proprie risorse finanziarie, per garantire il perseguimento degli obiettivi dei protocolli di intesa». Sono indicazioni di metodo del tutto condivisibili, ma chiunque abbia esperienza di tutela sa che mettere d’accordo su un progetto condiviso, anche all’interno della stessa città, amministrazioni e istituti diversi è impresa estremamente ardua.
Idea e pratica della tutela
Abbiamo detto che le trasformazioni e le innovazioni intervenute nell’idea e nella pratica della tutela negli ultimi decenni obbediscono a due direttrici fondamentali. Da una parte c’è stato l’adeguamento dei musei a standard di funzionamento e di uso di modello internazionale. Allo stesso tempo è emerso il fenomeno, quantitativamente rilevante anche se fino a oggi scarsamente disciplinato, dell’ingresso del privato nel mondo dei beni culturali.
L’altra fondamentale linea di trasformazione (da considerare di impatto ben maggiore e di effetti strutturali durevoli) riguarda lo spazio operativo che le Regioni e gli Enti locali si sono gradualmente conquistati in questi ultimi anni.
La l. 1089 del ministro Giuseppe Bottai era il frutto coerente di un ordinamento statuale fortemente centralizzato. L’amministrazione romana, per mezzo dei suoi funzionari territoriali, controllava e disciplinava tutto: i musei e le biblioteche, le opere d’arte e i reperti archeologici, i libri, il paesaggio, i documenti storici, ma anche le bellezze naturali (l. 29 giugno 1939 n. 1497) e le aree fabbricabili (l. 17 ag. 1942 n. 1150). Il sistema tutelare ereditato, dopo la guerra, dalla Repubblica democratica, sembrò ai padri costituenti meritevole di essere conservato senza modifiche. Soprattutto sembrò a tutti condivisibile l’idea base ispiratrice delle leggi Bottai; l’idea cioè di una potestà legislativa e normativa centralizzata e affidata esclusivamente allo Stato. È questo e non altri il senso del celebre art. 9 della Costituzione italiana là dove recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Il soggetto che promuove e che tutela è la Repubblica. Nel 1948 per i padri costituenti a vigilare con gli stessi criteri e con lo strumento delle soprintendenze, a nome e per conto degli italiani tutti, sulle pievi romaniche della Toscana come sulle chiese rupestri della Puglia, sui cipressi del Chianti come sui boschi dell’Aspromonte, sulle colonne e sugli archi, sui dipinti e sulle sculture, doveva essere nessun altro che lo Stato.
Doveva passare più di mezzo secolo perché quella idea di Repubblica intesa come potestà centrale si frantumasse e si sciogliesse nella nuova formulazione dell’art. 114 della Costituzione stessa (l. cost. 18 ott. 2001 n. 3): «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». È la riforma del Titolo V della Costituzione, approvata con pochi voti di maggioranza al termine del penultimo governo di centrosinistra e varata dopo un referendum caratterizzato dall’assenteismo degli elettori. Per quanto riguarda il settore dei beni culturali, la riforma del Titolo V è il (provvisorio) punto di arrivo di una marcia di avvicinamento che ha visto le Regioni e gli Enti locali progressivamente erodere le competenze dello Stato centrale.
Le Regioni a statuto ordinario nascono nel 1970, molti anni dopo la Costituzione (1948), che pure prevedeva per loro, all’art. 117, limitati poteri in ambiti circoscritti: «[…] musei e biblioteche di enti locali; urbanistica; turismo ed industria alberghiera […]». Le deleghe previste dall’art. 117 vennero attuate gradualmente. Nel 1972 lo Stato trasferiva le funzioni amministrative in materia di assistenza scolastica e di musei e biblioteche di enti locali (d.p.r. 14 genn. 1972 n. 3), mentre il d.p.r. 15 genn. 1972 n. 8 quelle in materia di urbanistica e viabilità, acquedotti e lavori pubblici. Era la disciplina del territorio affidata alle Regioni e quindi, per delega delle stesse, agli Enti locali, l’oggetto delle preoccupazioni maggiori. Di fronte al crescente disordine urbanistico lo Stato centrale cercò di provvedere con la legge che porta il nome di Giuseppe Galasso (l. 8 ag. 1985 n. 431). I vincoli paesaggistici praticabili con la legge Bottai (n. 1497 del 1939) venivano estesi a nuove e più vaste porzioni del territorio (coste, fiumi, boschi, cime dei monti, parchi, vulcani, aree archeologiche). Inoltre, la legge Galasso imponeva alle Regioni la redazione di piani paesistici particolareggiati, mentre il Ministero si riservava il diritto di annullare le licenze concesse in deroga dalle prescrizioni assumendosi il potere di surroga in caso di inadempienza regionale. Di fatto nessuna Regione rispettò i termini imposti dalla legge Galasso per la redazione dei piani paesistici né gli uffici del Ministero furono in grado di intervenire con tempestività ed efficacia. Era il sintomo di una deriva che avrebbe portato alla riforma del Titolo V e, in tempi ancora più recenti, all’approvazione da parte della giunta toscana (24 marzo 2003) di una proposta di legge che prevede per la regione un’autonomia speciale, con funzioni di conservazione, valorizzazione e gestione ma anche di tutela sul patrimonio ovunque distribuito.
L’obiettivo di cui la Toscana si è fatta alfiere, condiviso dalle amministrazioni di centrodestra come da quelle di centrosinistra, è la regionalizzazione delle soprintendenze. Sulla spinta dei venti federalisti le Regioni intendono amministrare in proprio la tutela per ragioni precise. Oggetto del loro interesse non è tanto la gestione dei musei e delle biblioteche: un universo difficile che significa amministrazioni complesse e contenziosi sindacali, che costa moltissimo e rende pochissimo anche nei luoghi di massima fortuna turistica. Ciò che davvero interessa è invece il controllo del territorio, che è poco e prezioso. Per ottenerlo chiedono che sia loro devoluta la potestà di tutela. In un’Italia, fatta di tante Italie, profondamente diverse fra di loro sia per civiltà politica sia per cultura amministrativa, non c’è chi non veda i pericoli insiti in uno scenario di questo genere.
Con il d. legisl. 31 marzo 1998 n. 112, relativo al conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali, in attuazione del Capo I della l. 15 marzo 1997 n. 59 (la cosiddetta legge Bassanini, che conteneva la delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti locali per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), e poi con il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali (d. legisl. 29 ott. 1999 n. 490), del ministro Veltroni, raccolta dalle disposizioni vigenti a quella data nel settore, siamo già alla vigilia della riforma del Titolo V (2001) e del codice Urbani (2004). Quest’ultimo, a tutti quei materiali, nella nuova cultura politica regionalista e federalista, ha tentato di dare sistemazione.
Il codice Urbani
Emanato con d. legisl. 22 genn. 2004 n. 42, entrato in vigore il 1° maggio 2004, il Codice dei beni culturali e del paesaggio porta, come detto, il nome di Giuliano Urbani, ministro per i Beni e le Attività culturali nel secondo governo Berlusconi. È il provvisorio (è opportuno ripeterlo ancora) punto di arrivo del vasto processo innovativo che aveva attraversato gli anni Ottanta e Novanta del Novecento.
L’impianto di base è ancora quello garantito dalle leggi Bottai (le citate n. 1089 e n. 1497 del 1939) ed è lo stesso che aveva ispirato il Testo unico di Veltroni del 1999. Tuttavia, come abbiamo visto, su quel grande fondamentale e per fortuna immutato monumento di alta civiltà giuridica si erano sovrapposti e stratificati nel tempo nuove sensibilità, inedite attese, parziali provvedimenti legislativi, importanti mutazioni costituzionali. Da ciò la necessità di una normativa unitaria che armonizzasse e mediasse una così vasta congerie di materiali riportandoli tutti a un’interpretazione per quanto possibile compatibile e coerente. Occorreva disciplinare questioni irrisolte produttrici di interpretazioni difformi e contraddittorie, quali, per es., la definizione di modalità e limiti in materia di dismissione di beni demaniali o la altrettanto necessaria regolamentazione ex lege dei diritti e delle garanzie del cittadino di fronte a provvedimenti di vincolo motivati da interessi pubblici di tipo storico-culturale. Anche per dare risposta certa ad argomenti di questo genere è stato promulgato il codice Urbani.
Ma la ragione più importante – lo dice chiaramente il ministro Urbani nella sua relazione introduttiva al Codice – «va rintracciata nella necessità di mantenere il passo con quel percorso di progressiva riforma dello Stato che è andata non meno prendendo forma prima sotto il termine di regionalismo e poi sotto quello di federalismo […] il percorso della riforma, perciò che riguarda la tutela del Bel Paese, è andato infatti evolvendosi facendo man mano emergere crescenti difficoltà nella individuazione dei compiti affidati rispettivamente ora alle istituzioni centrali, ora a quelle variamente territoriali. Ciò che ne è spesso derivato, è stato un coacervo crescente di problemi, di vuoti normativi e di fattori conflittuali, tutti pericolosamente suscettibili di indebolire non poco il sistema complessivo della tutela».
Non si poteva dire meglio e la lunga citazione fa intendere bene il clima di preoccupazione e di disagio che ha presieduto alla difficile e tuttavia necessaria redazione del Codice. Il testo Urbani si divide in 184 articoli che trattano sia dei beni culturali tradizionalmente intesi sia dei beni paesistici. Aver messo sullo stesso piano di dignità istituzionale gli uni e gli altri, abbiamo già detto essere uno degli aspetti più apprezzabili del testo.
Gli argomenti fondamentali intorno ai quali si struttura l’articolato sono tre: il concetto di tutela con le sue applicazioni conseguenti, quello di fruizione e di valorizzazione del patrimonio, la disciplina dei beni paesistici. Possiamo dire, sommariamente semplificando, che, nella filosofia che ispira il codice Urbani, la tutela resta saldamente affidata alle competenze e alla responsabilità dello Stato centrale. Sono le soprintendenze, organi periferici del Ministero, ciascuna per le proprie competenze tecnico-scientifiche, a imporre la dichiarazione di interesse culturale (art. 13), a esercitare i diritti di vigilanza (art. 18) e di ispezione (art. 19), a controllare gli interventi di restauro sul patrimonio (art. 29), a governare il commercio (artt. 63-64) e l’esportazione (artt. 65 e sgg.).
Diverso è il caso della valorizzazione. Dopo la riforma del Titolo V (l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3) il nuovo articolo della Costituzione riconosce la legislazione esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» mentre ammette quella concorrente (lo Stato insieme agli enti locali) per quanto riguarda la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali».
Al dettato costituzionale, il codice Urbani deve ovviamente adeguarsi. È tuttavia consapevole dei rischi impliciti nel diverso regime della tutela e della valorizzazione e cerca di prevenire i possibili danni proponendo metodi di intesa, linee di ragionevole compromesso. Così possono essere oggetto di protocolli di valorizzazione concordati fra Stato e Regioni la «Sponsorizzazione di beni culturali» (art. 120) e gli «Accordi con le fondazioni bancarie» (art. 121). Mentre vivamente si raccomandano le intese fra soggetti diversi per la gestione di politiche condivise a largo raggio territoriale. Come recita l’art. 112, 4° co.: «Al fine di coordinare, armonizzare ed integrare le attività di valorizzazione dei beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica, lo Stato, per il tramite del Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi su base regionale, al fine di definire gli obiettivi e fissarne i tempi e le modalità di attuazione».
Le intenzioni sono lodevoli ma la divisione di competenze fra lo Stato, titolare della potestà di tutela, e le Regioni e gli Enti locali, concorrenti nei settori della promozione e della valorizzazione, ha caratteri di contiguità e quindi di ambiguità oggettivamente pericolosi. Cosa succede quando la valorizzazione perseguita dalla Regione o dall’Ente locale in favore di un’area ad alto pregio paesistico o di un monumento storico è giudicata, dalla soprintendenza competente, incompatibile con la tutela? E come dimenticare che le regioni italiane sono molto diverse l’una dall’altra per civiltà politica e per tradizioni amministrative? E come non sapere che gli uffici del Ministero, le soprintendenze preposte all’esercizio della tutela, sono forti, ben strutturate e autorevoli solo in poche parti d’Italia, deboli, povere di personale e di risorse, scarsamente efficienti, in molte altre? Una legislazione siffatta, nella concreta realtà italiana, è destinata a provocare, e di fatto provoca, contenziosi infiniti. Mentre, nella cultura e nel clima della devoluzione federalista, è facile prevedere il ripetersi di colpi di mano come quello tentato dalla Regione Toscana per ottenere, accanto alla valorizzazione, anche la tutela del patrimonio.
Molte polemiche giornalistiche hanno accompagnato la pubblicazione del codice Urbani in ordine alla possibile alienazione dei beni demaniali. La Patrimonio dello Stato S.p.a. (l. 15 giugno 2002 n. 112) e la l. 23 nov. 2001 n. 410, che istituiva le Società per la cartolarizzazione degli immobili pubblici, stendevano la loro ombra minacciosa sul patrimonio monumentale italiano. In realtà occorre riconoscere che quelle preoccupazioni sono ben presenti negli articoli del Codice. Agli artt. 54 e 55 è detto chiaramente che sono inalienabili non solo le aree di interesse archeologico, i monumenti nazionali, i musei, le pinacoteche, le biblioteche e gli archivi, ma anche ogni edificio demaniale che non disponga dell’autorizzazione ministeriale alla vendita. Anche in questo caso (quando cioè l’alienazione sia consentita) non deve essere pregiudicato il godimento pubblico né possono essere consentiti usi non compatibili con il carattere storico-artistico dell’edificio o potenzialmente dannosi per la corretta conservazione.
La terza parte del Codice: il paesaggio
Una buona parte del Codice (la terza dell’intero articolato) è dedicata ai beni paesistici. Bisogna purtroppo riconoscere che un’attenzione legislativa forte e organica a questo aspetto del patrimonio è arrivata tardi, quando ormai i guasti erano stati fatti. Infatti qual è, anzi qual era, il bene culturale in assoluto più importante del nostro Paese? La risposta è ovvia. Il bene culturale più importante d’Italia era (ed è ancora per le sue parti residue) il paesaggio. Generazioni di colti viaggiatori, di intellettuali, di poeti, venivano in Italia perché affascinati dal giardino d’Europa. Certo, venivano anche per Raffaello e per il Laocoonte, per i templi di Paestum e per le pitture di Pompei, per l’Arena di Verona e per i Fori romani. Ma era il paesaggio, il mirabile paesaggio italiano, destinato a far da cornice ai capolavori d’arte e di storia più celebrati del mondo, il vero oggetto del desiderio. Quanto meno il paesaggio italiano era considerato il moltiplicatore emotivo della suggestione storico-artistica, nel senso che quest’ultima riceveva dalla cornice paesistica una specie di eroica e romantica amplificazione. La ricchezza archeologica della Magna Grecia è (era) enfatizzata dallo splendore delle coste scoscese e selvose della Calabria, i templi di Agrigento appaiono tanto più belli perché li circondano (li circondavano) campi deserti che bruciano nell’oro dell’estate e fioriscono di mandorli in primavera, gli acquedotti e le tombe dell’Agro romano affidano (affidavano) il loro fascino alla vasta prateria silenziosa che accoglie (accoglieva) lo stupore del visitatore. Come pensare alla Villa Adriana senza i monti di Tivoli, ad Assisi senza il Subasio che incombe dietro il Sacro convento, alle basiliche di Ravenna avulse dalla cornice di azzurro mare e di nera pineta?
Il fascino tradizionale del Bel Paese si affidava al paesaggio forse più di quanto si affidasse ai tesori d’arte. O, almeno, questi ultimi apparivano a tal punto integrati nell’ambiente che da tale rispecchiamento ha preso immagine per secoli (e ancora dura negli stereotipi turistici) l’idea del miracolo Italia: unico luogo al mondo nel quale arte, natura, vita appaiono armoniosamente coniugate.
Quello che è accaduto negli ultimi cinquant’anni è ben noto. Il paesaggio italiano è stato in parte devastato, in parte snaturato o offuscato. L’equilibrio mirabile fra arte e natura che faceva il nostro Paese unico e invidiato nel mondo, non esiste più, o, quando esiste, sopravvive per segmenti disarticolati. Se la Campania felix descritta nei dorati dipinti di Jakob Ph. Hackert oggi assomiglia, per larga parte, a qualche periferia brasiliana; se le coste della Calabria e della Sicilia sono afflitte da una sconsolante edilizia abusiva e non; se le più solenni e misteriose montagne d’Abruzzo sono state spaccate dalle autostrade e devastate dai residence in multiproprietà; se l’antico bellissimo paesaggio veneto oramai lo riconosciamo quasi soltanto nei dipinti di Giovanni Bellini e di Cima da Conegliano; se tutto questo è accaduto, in forme più o meno gravi, quasi ovunque nel nostro Paese, ciò vuol dire che gli italiani hanno voluto dissipare e manomettere, nell’ultimo mezzo secolo, il loro bene culturale in assoluto più importante.
Oramai i guasti sono difficilmente riparabili. Il codice Urbani ne è consapevole e cerca di intervenire prima di tutto riconoscendo al paesaggio dignità uguale a quella che è da sempre riconosciuta ai beni culturali tradizionali, poi proponendo forme di salvaguardia di disuguale efficacia. Ci sono aspetti positivi nel testo legislativo. Dopo la legge Galasso (431/1985) contenente disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse, dopo l’istituzione del Ministero dell’Ambiente con la l. 8 luglio 1986 n. 349, il codice Urbani elenca principi generali o stabilisce innovazioni di apprezzabile qualità. Ottima è all’art. 131 la definizione del paesaggio come prodotto di interrelazione fra natura e cultura. Altrettanto positivo è, all’art. 135, l’obbligo di piani paesaggistici regionali. Così come è apprezzabile il divieto di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria dopo la realizzazione anche parziale degli interventi (art. 146, 10° co., lett. c).
Il punto debole dell’intero articolato (ma è la conseguenza necessaria della riforma del Titolo V della Costituzione) è il ruolo che nella preventiva e giustamente auspicata pianificazione paesaggistica hanno le Regioni e gli Enti locali (artt. dal 135 al 145). Lo spirito che anima il Codice in questa sua parte è quello della leale collaborazione fra Ministero e Regioni. Principio del tutto condivisibile se non fosse che, nella concreta realtà italiana, Regioni e Comuni sono disuguali per sensibilità culturale e civiltà politico-amministrativa e disuguali, per autorevolezza ed efficacia operativa, sono gli uffici statali della tutela. Mentre fortissime sono, in ogni parte d’Italia, le pressioni sul territorio, che è poco e prezioso e suscita interessi formidabili sia privati (la speculazione edilizia) sia pubblici: la necessità da parte delle amministrazioni locali di fare cassa con l’ICI (Imposta Comunale Immobili) e con gli oneri di urbanizzazione.
Al termine di un percorso che ha avuto per oggetto le mutazioni intervenute in Italia, negli ultimi anni e decenni, nell’idea e nella legislazione della tutela, una riflessione conclusiva è opportuna. Il nostro Paese ha inventato per tutto il mondo civile il principio dell’interesse pubblico, garantito e normato dalla Legge, sul patrimonio ovunque distribuito e comunque posseduto. Lo ha fatto con i Codici degli Stati preunitari, lo ha perfezionato e consolidato con le leggi del primo Novecento (la Rava-Rosadi del 1909, le Bottai del 1939). La cultura italiana della conservazione non è solamente la più antica e radicata del mondo, ma è anche quella che ha fornito modelli e norme ben al di là dei confini nazionali.
Nell’ultima parte del Novecento il modello italiano è entrato in crisi per le ragioni di cui prima si è parlato: adeguamento e stili gestionali di matrice anglosassone nel governo dei musei, ingresso del privato nell’economia della cultura, progressiva erosione della struttura statale centralizzata, necessità di misurarsi con le ragioni e con le attese della democrazia decentrata. Inoltre, le turbolenze politiche che hanno attraversato il Paese negli ultimi decenni e la debolezza degli esecutivi che si sono succeduti nel tempo non hanno certamente favorito il transito ordinato dalla vecchia alla nuova cultura della tutela. Riforme anche importanti dell’amministrazione statale dei beni culturali si sono succedute in modo affrettato e a volte discutibile (si pensi alla moltiplicazione delle Direzioni generali, all’istituzione dei Poli museali e delle Direzioni regionali per i Beni culturali e paesaggistici) mentre le Regioni sembrano impreparate a gestire in modo efficace e responsabile il ruolo federalista al quale sono chiamate. La situazione è dunque ancora lontana dall’aver raggiunto un ragionevole stabile assestamento. Resta, tuttavia, la speranza che il nostro tempo non veda definitivamente offuscata quella italiana civiltà della tutela che è stata fino a ieri un nostro riconosciuto primato nel mondo.
Bibliografia
V. Baldacci, Il sistema dei beni culturali in Italia. Valorizzazione, progettazione e comunicazione culturale, Firenze 2004.
S. Settis, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Milano 2005.