Per ragioni di prestigio personale, di attenzione all’anzianità e di protocollo, nei circoli diplomatici africani si è spesso pensato che la presidenza delle istituzioni panafricane dovesse essere affidata a ex presidenti per essere efficace in termini di leadership. Si riteneva infatti che solo un pari grado – per quanto emerito – potesse negoziare accordi di un qualche peso con presidenti in carica. Per questo, la presidenza di Jean Ping, ex ministro degli Esteri del Gabon, era stata ritenuta poco autorevole. La nomina di Nkosazana Dlamini-Zuma, prima donna a presiedere la Commissione dell’Unione Africana (Au) ed ex ministro di spicco dei governi Mandela, Mbeki e Zuma, potrebbe rappresentare una nuova occasione.
Dlamini-Zuma, che ha fatto il cursus honorum dei dirigenti sudafricani della lotta anti-apartheid, è una figura interessante della politica sudafricana. Durante gli studi universitari in medicina entra in contatto con l’African National Congress (Anc). A causa della propria attività politica deve lasciare il Sudafrica e diventa un quadro dell’Anc all’estero, vivendo per lo più in Swaziland. Con la liberazione dei prigionieri politici, decisa da Frederik De Klerk nel 1990, torna in Sudafrica, dove contribuisce alle negoziazioni con il regime segregazionista ed entra poi a far parte del governo Mandela come ministro della Sanità. Nei governi Mbeki e Zuma ha ricoperto le posizioni di ministro degli Esteri e degli Interni, rispettivamente, diventando una delle figure che avrebbero potuto aspirare alla presidenza dell’Anc e del paese nel corso delle crisi tra il 2008 e il 2012. L’elezione alla presidenza della Commissione dell’Au è stata letta anche sul piano interno come uno sforzo per spostare dalla scena sudafricana un rivale politico pericoloso per Jacob Zuma (dal quale, peraltro, Nkosazana Dlamini-Zuma ha divorziato nel 1998).
Il nuovo presidente dell’Unione Africana si trova a gestire l’organizzazione continentale in un momento di messa a punto e nuovo orientamento delle sue attività. Da un lato, nell’anno della sua elezione è caduto anche il decennale della fondazione dell’Au: un anniversario che ha permesso di stilare un bilancio dell’attività dell’organizzazione ricco ma anche insoddisfacente e contraddittorio, soprattutto per il capitolo del peacekeeping e il mantenimento della sicurezza a livello continentale. Dall’altro lato, il 2011 ha rappresentato uno spartiacque nella storia del continente africano. Il coinvolgimento internazionale diretto contro il regime di Mu῾ammar Gheddafi in Libia è stato fortemente osteggiato dal Sudafrica, presidente di turno dell’Au, e dall’Unione Africana stessa, in nome di una soluzione diplomatica che non prevedesse un intervento extra-africano. L’operazione Odyssey Dawn ha decretato la poca influenza delle organizzazioni regionali e dell’egemone continentale nella crisi più rilevante a livello internazionale che ha coinvolto l’Africa. Il pesante coinvolgimento francese, accessorio e conseguenza della vicenda libica, nell’epilogo della crisi ivoriana è stata la seconda spia di come la pur positiva autarchia africana nella gestione delle crisi regionali si possa infrangere davanti alle convenienze degli attori esterni.
L’Unione Africana della gestione Dlamini-Zuma deve quindi recuperare autorevolezza, capacità di iniziativa politica e riconoscibilità come attore internazionale. Nel discorso d’investitura pronunciato a Addis Abeba nel novembre 2012 Dlamini-Zuma ha dato comunque l’impressione di essere più a suo agio con i grandi temi trasversali come le istituzioni, il genere o il clima che con i problemi della sicurezza nei paesi fragili o contesi.
La crisi in Mali sarà il primo test per la nuova leadership continentale. L’intervento internazionale, richiesto dal governo di Bamako e accordato dagli attori internazionali e regionali, ha rappresentato una svolta di grosse proporzioni. La presidente dell’Au dovrà districarsi con abilità tra i diversi piani – civile e militare, regionale e internazionale – per rimettere sotto controllo la situazione nel nord del paese e nel governo del Mali.
Nella sua corsa alla presidenza, Dlamini-Zuma, fortemente sostenuta dal governo sudafricano, è stata osteggiata dai paesi medi (a partire dalla Nigeria, rivale potenziale del Sudafrica) e dai paesi francofoni, che temevano un tentativo di egemonia continentale troppo invasivo da parte di Pretoria. La vicenda del Mali, un paese francofono ma troppo vicino alla Nigeria per non risentire del peso dei suoi interessi, è un importante snodo per dimostrare le reali intenzioni di Dlamini-Zuma e la distanza che separa Pretoria da Addis Abeba e, al limite, da Abuja.