Unione Europea, commercio internazionale e diritti umani
L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha segnato un profondo cambiamento nella struttura e nel funzionamento dell’Unione Europea. Il Parlamento europeo ha acquisito un ruolo fondamentale nella elaborazione dell’attività normativa esterna dell’Unione, facendosi parte attiva e richiedendo, inter alia, l’applicazione orizzontale della carta dei diritti fondamentali della UE. Con il regolamento UE n. 978/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, il 25.10.2012, l’Unione europea ha riorganizzato il suo sistema di preferenze tariffarie generalizzate (SPG) a decorrere dal 1.1.2014. Si tratta di un nuovo strumento che possiede apposite clausole orientate a pretendere dagli Stati terzi il rispetto delle principali norme internazionali di tutela dei diritti umani, dei diritti sociali fondamentali e dell’ambiente, nonché della good governance. Si tratta di questioni importanti, non esenti da peculiari criticità, giacché, attraverso la pressione economica, la UE tenta di indurre dei significativi cambiamenti nell’ordinamento degli Stati terzi, prescindendo dall’acceso dibattito in corso presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Con il regolamento UE n. 978/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, il 25.10.2012 l’Unione europea ha riorganizzato il suo sistema di preferenze tariffarie generalizzate (SPG) a decorrere dal 1.1.20144.
Tra le ragioni che hanno indotto l’Unione a “modernizzare” questo strumento si annoverano almeno due aspetti. Il primo è che nell’ultimo decennio si è assistito ad un ridimensionamento del peso economico di molti Paesi quali ad esempio il Brasile, l’India e la Cina (i cd. BRICs). Il secondo riguarda il fenomeno della “erosione delle preferenze generalizzate”, tramite il quale si è assistito ad una diminuzione dei vantaggi commerciali unilateralmente attribuiti dalla UE per effetto della riduzione generale, sul piano mondiale, di tutti i diritti doganali.
Il nuovo SPG, di cui al regolamento n. 978/2012, continua ad utilizzare la tecnica della “graduazione”, parametrando le preferenze commerciali concesse dalla UE in funzione di particolari status giuridici o economici. Si tratta, ad esempio, dei Paesi e territori d’oltremare, essenzialmente delle ex colonie inglesi o francesi, che beneficiano di un’apposita normativa dell’Unione e non necessitano più di rientrare nello schema del SPG.
Altre fattispecie individuate nel regolamento de quo riguardano quei Paesi con i quali la UE ha concluso accordi di libero scambio o comunque previsto particolari vantaggi commerciali equivalenti o più favorevoli di quelli previsti dal SPG (art. 4, par. 1, lett. b, reg. n. 978/2012). Basti pensare agli accordi di partenariato economico o alla definizione dello status di Paese in via di sviluppo o ancora di Paese meno avanzato. Certo, a tal riguardo esiste la prassi internazionale dell’auto-elezione, per cui l’attribuzione dello status di Paese in via di sviluppo avviene in linea di principio su richiesta dello Stato interessato. Orbene, appare sempre più evidente che i dati economici sui Paesi BRICs non consentono più di accettare questo tipo di meccanismo che, quindi, è stato oggetto di continue contestazioni. In attesa di una nuova e più rigorosa definizione dello status di Paese in via di sviluppo e di Paese meno avanzato, la soluzione di policy della Commissione è stata quella di stilare una lista, di cui all’allegato 1, di Paesi ammissibili (art. 3), lista che può essere modificata dalla stessa Commissione in base all’evoluzione del contesto economico internazionale. Anche negli allegati I e IV, viene migliorato il trattamento dei Paesi meno avanzati, questi ultimi sono indicati in una lista redatta dall’ONU e periodicamente aggiornata, comprendendo ben 49 Stati.
I Paesi meno avanzati continuano a beneficiare anche nell’ottica della UE della totale eliminazione dei diritti doganali sui prodotti provenienti da questi Paesi, fatta eccezione per il commercio delle armi. Di particolare rilievo nel nuovo sistema è la formalizzazione della distinzione tra un sistema di preferenze generalizzate di “diritto comune”, e un regime particolarmente agevolato (e condizionato) denominato SPG + (art. 1, par. 2, lett. b). La flessibilità del nuovo sistema di cooperazione allo sviluppo diviene tangibile anche nei particolari meccanismi di graduazione dei vantaggi non solo in senso statico, ma anche in senso dinamico, ossia quando le importazioni di prodotti originari di un Paese beneficiario provocano situazioni di “disorganizzazione di mercato” all’interno dell’UE. Si tratta, in altre parole, di una speciale clausola di salvaguardia attivabile dalla Commissione qualora i prodotti importati finissero per eliminare gli stessi prodotti in commercio nella UE. La sospensione delle preferenze, in questo caso, diviene selettiva in quanto differenzia settori commerciali e Paesi beneficiari. Per far scattare la clausola di salvaguardia si parte dal valore medio delle importazioni di una data categoria di prodotti nel mercato unico europeo provenienti da un Paese beneficiario, per tre anni consecutivi, rispetto al valore totale delle importazioni nell’UE degli stessi prodotti provenienti da tutti gli altri Paesi beneficiari. Senonché, la stessa clausola di salvaguardia non dovrebbe operare nei confronti dei Paesi beneficiari del sistema di preferenze SPG +. Si è parlato, a tale proposito, di “condizionalità positiva” in quanto la concessione di particolari benefici tariffari viene agganciata alla ratifica e all’effettiva applicazione delle principali convenzioni internazionali in materia di diritti umani, diritti sociali fondamentali, ambiente e buon governo. Senonché, nonostante l’indubbio valore in termini di promozione dei diritti umani di questo nuovo strumento di cooperazione allo sviluppo resta, sul piano giuridico, il punto debole del mancato approfondimento della questione dell’accertamento del diritto e della sua effettiva applicazione. Infatti, il regime SPG + altro non è se non un incentivo economico che ha come obiettivo quello di facilitare il dialogo politico tra istituzioni europee e particolari Stati ove i valori promossi dalla UE sono assenti o di problematica realizzazione. In altre parole, si tratta di uno strumento unilaterale di pressione economica della UE nei confronti di Stati terzi esercitata al di fuori delle altre istanze internazionali ove quelle particolari questioni, ad esempio i diritti sociali fondamentali, vengono discusse, regolate ed applicate. Né la UE può sostituirsi legittimamente all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, all’Organizzazione Mondiale del Commercio o agli organi di controllo dei trattati sui diritti umani. Ma è comunque lodevole il tentativo di contribuire alla tutela dei diritti umani nel mondo attraverso l’esercizio del proprio straordinario potere economico. Così, per poter ottenere i vantaggi previsti dal sistema SPG +, un Paese deve ratificare tutte le ventisette convenzioni elencate all’allegato VIII del regolamento de quo – dalle «convenzioni essenziali ONU/OIL sui diritti umani e sul diritto del lavoro» a quelle relative ai «principi ambientali ed al buon governo», inclusa la Convenzione ONU contro la corruzione del 2004 − e occorre che «le conclusioni disponibili più recenti degli organi di controllo a norma di tali convenzioni … non rilevino gravi carenze nell’attuazione effettiva di tali convenzioni» (art. 9, par. 1, lett. b). Si tratta di una formulazione assai più incisiva di quella precedentemente prevista che comunque abilita la Commissione ad esercitare poteri di controllo internazionale finalizzati però alla sola applicazione del regolamento de quo. Di ulteriore interesse sono poi le norme in base alle quali ogni Paese beneficiario non deve aver apposto riserve vietate dalle convenzioni richiamate (art. 9), oltre a prevedere la collaborazione attiva con la Commissione nell’esercizio delle proprie attività di controllo. Va sottolineato infine che il nuovo regolamento consacra anche in questa materia il ruolo fondamentale del Parlamento europeo. Oltre ad essere informato dalla Commissione, infatti, il Parlamento europeo dispone di un potere di revoca della delega alla Commissione ad adottare gli atti necessari per il funzionamento del SPG (art. 36, par. 3).
L’inserimento e la effettiva attuazione di clausole sui diritti umani come anche di clausole sociali ed ambientali (ed ora anche di “buon governo”) nei trattati economici internazionali, costituiscono problemi complessi che dividono, da tempo, la comunità internazionale. Da un lato, i Paesi del Nord del mondo denunciano il dumping sociale e ambientale praticato dai Paesi emergenti, che costituisce una distorsione della concorrenza negli scambi commerciali; dall’altro, i paesi del Sud del mondo temono che, attraverso l’applicazione di tali norme, quelli del Nord vogliano compromettere il loro sviluppo economico e ricorrano ad una forma di protezionismo dissimulato, attraverso l’elaborazione di una nuova categoria di barriere non tariffarie5. A rendere ancora più controverso il quadro appena delineato, basti l’osservazione secondo la quale gli elevati standard in materia di tutela ambientale e sociale dell’UE potrebbero paradossalmente produrre uno svantaggio competitivo per le stesse imprese europee esposte alla concorrenza di prodotti e servizi di Paesi terzi in cui vigono norme meno rigide in tali ambiti. Così, per ovviare a tale fenomeno, molte imprese, italiane e straniere, hanno in questi anni dato vita ad una vasta delocalizzazione verso i Paesi a legislazione meno protettiva onde produrre in loco ed esportare verso il mercato unico europeo beneficiando di dazi risibili. Perché, una volta abbassate le barriere doganali, gli Stati restano esposti al gioco al ribasso del mercato planetario trovandosi perciò costretti a smantellare proprio quelle conquiste civili e sociali di cui le legislazioni nazionali di protezione risultano espressione6. Non è un caso che gli investimenti diretti esteri in Italia siano quasi irrilevanti da decenni, mentre gli investimenti nei Paesi meno sviluppati con i quali la UE stipuli speciali accordi commerciali vedano aumentare vertiginosamente gli investitori stranieri.
Così, quasi come per effetto di una “smithiana” mano invisibile, il miglioramento e l’enforcement delle clausole diritti umani (e di quelle sui diritti sociali fondamentali) nei Paesi terzi, tramite meccanismi di condizionalità inseriti negli accordi commerciali internazionali della UE, consente di creare una concorrenza più equa per le imprese europee che non delocalizzano, migliorando al contempo la tutela dell’ambiente e dei diritti umani e sociali nei Paesi terzi, onde evitare ai Paesi europei di dovere smantellare le proprie conquiste sociali per continuare a competere. Ben si comprende, quindi, l’estrema difficoltà a trattare serenamente il problema delle norme sociali ed ambientali nelle sedi multilaterali in cui si dibattono i grandi temi dell’economia mondiale e, soprattutto, in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC)7.
In questa cornice, riteniamo che l’Unione europea possieda un ruolo determinante nella ricerca di una governance mondiale più attenta alla tutela dei diritti umani, compresi i diritti sociali ed ambientali, e costituisca un polo di riferimento (anche intellettuale) per favorire la coerenza delle politiche perseguite dalle istituzioni internazionali8.
1 Cfr. Daniele, L., a cura di, Le relazioni esterne dell’Unione Europea nel nuovo millennio, Milano, 2001; Cannizzaro, E., The European Union as an actor in international relations, The Hague, 2002.
2 Su cui v. ad es. Cantoni, S., voce Accordo di Cotonou (cooperazione allo sviluppo CE/ACP), in Dig. pubbl., agg. II, 2005, 8 ss. L’accordo è stato modificato nel 2005 e nel 2010.
3 Principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati, risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 2625 (XXV) del 24.10.1970, (A/RES/2625 (XXV).
4 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2012:303:0001:0082:IT:PDF.
5 Cfr. Picone, P.-Ligustro, A., Diritto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, Padova, 2003; Galgano, F.-Marrella, F., Diritto del commercio internazionale, III ed., Padova, 2011.
6 V. già Galgano, F.-Cassese, S.-Tremonti, G.-Treu, T., Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza Nazioni, Bologna, 1993.
7 Benedek, W.-De Feyter, K.-Marrella, F., Economic Globalisation and Human Rigths, Cambridge, 2007, e i riferimenti ivi cit. V. pure Perulli, A.-Marrella, F., Manifesto di Venezia per la regolazione della globalizzazione economica. La globalizzazione virtuosa, in Riv. it. dir. lav., 2009, 341 ss.
8 Cfr. ad es. il reg. CE n. 1236/2005 del Consiglio, del 27.6.2005, relativo al commercio di merci che potrebbero essere utilizzate per la pena di morte, per la tortura o per altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti e a rendere vincolanti le sue disposizioni in tutti gli accordi commerciali internazionali, in GUCE L 200, 30.7.2005, 1 ss.