Unione Europea
(App. V, v, p. 648)
Parte introduttiva
di Adolfo Battaglia
I due avvenimenti che hanno più caratterizzato l'ultima decade del 20° secolo - il crollo del comunismo nell'URSS e nell'Europa orientale, e la crescita del processo di globalizzazione dell'economia, della finanza e della tecnologia - hanno mutato la dimensione e le prospettive del processo di unità europea perché hanno profondamente trasformato la natura dei problemi sottostanti ad esso e le ragioni politiche che lo avevano alimentato per quasi mezzo secolo.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, infatti, le spinte fondamentali alla creazione di un'entità europea a carattere democratico e sovranazionale erano state essenzialmente tre. Era stata viva, in primo luogo, l'esigenza di un superamento dei nazionalismi a sfondo autoritario o totalitario che avevano largamente dominato il continente tra le due guerre ed erano considerati responsabili del secondo conflitto mondiale e dei suoi orrori. In secondo luogo, dopo l'instaurazione della 'cortina di ferro' tra Est e Ovest, cioè dopo il 1947, era divenuta ragione cogente di unione fra gli Stati democratici la pressione esercitata sulla scena europea dalla superpotenza sovietica, il cui carattere totalitario e il cui espansionismo territoriale vennero percepiti come letali minacce allo sforzo di ricostruzione democratica dell'Europa. In terzo luogo, il processo unitario era stato alimentato da una serie di elementi ampiamente illustrati dal pensiero europeista: la caduta del peso politico delle nazioni europee rispetto alle due superpotenze mondiali, USA e URSS; la dimensione storicamente superata del mercato nazionale come fondamento della vita economica; il riconoscimento dell'impossibilità di pervenire a un soddisfacente sviluppo su base meno che 'regionale'; la dimensione assunta dai problemi economici e tecnologici, dagli scambi e dal modo di produzione delle imprese nella 'età della industrializzazione'.
Fattori obiettivi e molteplici 'traumi' esterni hanno dunque sospinto l'inizio e gli sviluppi del processo europeo. Ma alla conclusione del 20° secolo è apparso chiaro che tali elementi erano in gran parte scomparsi, modificando la condizione di fondo su cui si era innestata la dinamica unitaria. È scomparso il fattore rappresentato dall'URSS e dalla sua politica: non ha più senso una concezione dell'unità europea come risposta alla minaccia comunista. È caduto il fattore costituito dal pericolo dei nazionalismi: quando tornano ad affiorare momenti di resistenza 'nazionale' al processo di integrazione essi non possiedono più le dirompenti caratteristiche ideologico-politiche del passato ma si fondano su concreti interessi particolari di gruppi e di corporazioni. Si è poi profondamente modificata la condizione dell'economia, poiché gli sviluppi della globalizzazione hanno superato anche la dimensione 'regionale' dei problemi e creato mercati mondiali nei quali si pongono questioni di competitività, di finanza, di investimenti, di ricerca, di struttura delle aziende, che sono ogni giorno più distanti da quelli della 'età dell'industrializzazione' in cui la CEE era cresciuta. Si è altresì profondamente modificato il 'problema tedesco', quarantennale architrave della costruzione europea. La Germania si è unificata e insieme aperta all'Est, ampliando in questa direzione la sua area di riferimento; e il suo peso è destinato a crescere ancora, proprio mentre sembrano affievolirsi in essa i sentimenti in favore dell'Europa unita. D'altra parte, la caduta dei regimi comunisti nell'Europa orientale ha determinato in quest'area un vuoto politico e una serie di problemi economici che hanno chiamato l'Europa occidentale a svolgere una funzione non facilmente surrogabile da altre entità internazionali. Infine, la trasformazione della scena mondiale, se non ha distolto l'attenzione degli Stati Uniti dall'Europa, l'ha però contrappesata con quella che essi rivolgono ai problemi di altre regioni divenute egualmente importanti, da quella asiatica a quella latino-americana. In breve, al termine del 20° secolo il processo di unità europea si è trovato di fronte a questioni largamente diverse da quelle del passato e ha dovuto affrontare percorsi nuovi.
Il Trattato di Maastricht
Il Trattato di Maastricht, voluto anzitutto dal cancelliere tedesco H. Kohl e dal presidente francese F. Mitterrand, ha costituito la prima importante risposta dell'Europa occidentale a questo complesso di modificazioni della vita mondiale. Il Trattato sull'Unione Europea (TUE, 1992) ha trasformato la Comunità in una Unione tra 12 paesi (poi divenuti 15 nel 1995). Ha fondato l'Unione economica e monetaria (UEM), basata sulla moneta unica entrata in vigore il 1° gennaio 1999, l'euro, e su una Banca centrale europea (BCE) indipendente (v. oltre: Unione monetaria europea). Ha istituito la cittadinanza dell'Unione. Ha rafforzato la capacità di intervento dell'Unione nelle materie già previste dai trattati comunitari e le ha estese. Ha formalizzato il principio di sussidiarietà nell'intervento europeo e ha migliorato alcuni meccanismi istituzionali di decisione, attribuendo in particolare un potere di codecisione al Parlamento europeo in alcune materie. Ha infine innovato i trattati comunitari, inserendo in essi due questioni essenziali per l'esistenza dell'Europa come 'potenza democratica', cioè quella della politica estera e della sicurezza ('secondo pilastro' del TUE) e quella degli affari interni e della giustizia ('terzo pilastro'). Benché criticato dal pensiero federalista, sia per non aver immediatamente sviluppato in senso politico l'UEM, sia per non aver tratto dalla sua fondazione tutte le conseguenze sul terreno istituzionale, il Trattato di Maastricht ha segnato tuttavia una svolta. Esso ha realizzato infatti, per la prima volta, un trasferimento di sovranità nazionale a un'entità europea in una materia considerata 'costitutiva' dello Stato moderno, quella appunto della moneta: trasferimento che, a sua volta, può comportare ulteriori sviluppi verso un'entità politica di tipo sovranazionale, intendendosi l'UEM come il 'nocciolo duro' dell'unione politica e non come un elemento ulteriore dell'integrazione economica, secondo l'interpretazione inizialmente diffusasi.
Le conseguenze del Trattato di Maastricht sono state vaste e molteplici. Anzitutto, dal 1992 al 1998, ne furono profondamente influenzate le politiche monetarie e di bilancio di buona parte degli Stati, nella considerazione che condizione per la creazione della moneta unica fosse la convergenza duratura dei 'fondamentali' dell'economia. La rigidità dei parametri da rispettare per l'adesione obbligò così un certo numero di paesi a moneta debole a imprimere alle loro politiche di risanamento finanziario una brusca accelerazione, che determinò aggiustamenti strutturali rilevanti. E portò i paesi a moneta forte a imporre (inizio 1997) l'approvazione di un Patto di stabilità che garantisse anche dopo il 1999 la continuazione di politiche rigorose da parte dei paesi a moneta debole aderenti all'UEM.
Furono così superate le resistenze, manifestatesi soprattutto in Germania, relative all'ampliamento a 11 Stati dell'Unione monetaria. Esse avevano fatto leva sulla riluttanza dell'opinione pubblica tedesca ad abbandonare una valuta solida come il marco in favore della nuova moneta europea; ed erano state fortemente alimentate dalla sorda opposizione all'UEM della Banca centrale tedesca, nonché dalle perplessità di molti Länder: ma sembrarono anche far trapelare un'intenzione politica più generale, adombrando dietro un insuccesso dell'UEM - e il colpo negativo che ne sarebbe conseguito sull'intero processo unitario - il risorgere di tendenze verso quella posizione nazionale autonoma della Germania che per quasi mezzo secolo la politica dei paesi occidentali aveva teso a evitare.
Il secondo ordine di conseguenze del Trattato di Maastricht è rappresentato dalla diffusione in tutta l'Europa di una 'cultura della stabilità', che ha segnato l'affermarsi di una concezione economica omogenea all'età della globalizzazione. Ispirata essenzialmente alla competitività, alla stabilità dei prezzi, alla libertà del mercato e alla flessibilità del lavoro, essa ha comportato la necessità di abbandonare ogni impostazione statalista o dirigista e ha costretto a mettere in cantiere la non facile opera di revisione dello Stato sociale, la cui costruzione aveva storicamente caratterizzato i paesi occidentali europei.
L'affermarsi di quella concezione ha condotto peraltro a una reazione, i cui successi o insuccessi sono destinati a segnare gli svolgimenti dell'UEM. Partendo dal più difficile e pericoloso problema sociale europeo, l'alta disoccupazione, alcuni paesi hanno posto infatti il problema di un riequilibrio delle politiche monetarie affidate all'autonomia della BCE. Si è teso così a contrappesare la BCE assegnando al Consiglio dei ministri, oggi Consiglio dell'Unione, e alla Commissione di Bruxelles compiti più incisivi di indirizzo e coordinamento delle macropolitiche economiche degli Stati membri e, tendenzialmente, della stessa Unione, nell'applicazione dell'art. 103 del Trattato delle Comunità europee come modificato dal TUE. Ciò è risultato tanto più necessario dopo che al protocollo sul Patto di stabilità si è aggiunto (fine 1997) il protocollo sull'occupazione, posta ormai quale obiettivo specifico dell'Unione. Ed è in questo quadro che si è manifestata più forte l'esigenza di realizzare una politica fiscale europea, a cominciare dal superamento della "dannosa concorrenza fra regimi fiscali nazionali" di cui la Commissione ha documentato gli alti costi anche in materia occupazionale.
Nello stesso tempo - essendo ormai impossibile affrontare con espedienti monetari situazioni di crisi che investissero uno Stato membro sul terreno economico, sociale o politico - è destinata a divenire più importante la questione del grado di solidarietà che gli altri paesi dell'Unione dovrebbero accettare per contribuire al ristabilimento dell'equilibrio turbato in un partner in crisi. Ciò non potrà non porre il problema di una valutazione politica del contenuto, della compatibilità e degli strumenti delle politiche di solidarietà, che, a loro volta, non potrebbero essere realizzate se non da istituzioni europee più forti e autorevoli. Su tutti questi terreni, dunque, gli svolgimenti del Trattato di Maastricht (e di quello di Amsterdam del 1997 che non lo ha sostanzialmente modificato ma in parte integrato) sembrano destinati ad avere rilevante influenza, accanto ad altri fattori, sugli obiettivi e sui ritmi di costruzione della Unione politica.
Il Trattato di Amsterdam
Il Trattato era stato concepito come uno sviluppo - sia nel campo della sicurezza e della difesa sia in quello degli affari interni e della giustizia - della costruzione abbozzata a Maastricht; e una Conferenza intergovernativa si riunì dal marzo 1996 al luglio 1997 con l'espresso fine di gettare le fondamenta di un'Unione più integrata anche nelle materie del secondo e del terzo pilastro dell'Unione. Invece, tanto le conclusioni della Conferenza quanto, ancor più, quelle del Consiglio europeo di Amsterdam del 1997 non riuscirono a imprimere al processo unitario, né in termini di istituzioni né di politiche, l'accelerazione che era stata preconizzata.
In materia di sicurezza e di difesa, in particolare, l'U. E. si trovava di fronte a mutamenti rilevanti intervenuti nella sua area di riferimento. Da una parte, la minaccia militare 'convenzionale' era arretrata sul territorio per lo scioglimento del blocco militare orientale; ed era diminuita la minaccia nucleare per la trasformazione dell'URSS in uno Stato russo ridimensionato. D'altra parte, però, lo sviluppo di armamenti nucleari in paesi come l'Algeria, l'Iran, l'Iraq, Israele, il Pakistan, aveva fatto emergere minacce 'eccentriche' rispetto al classico equilibrio nucleare fondato su USA e URSS. Inoltre, l'area della sponda meridionale e orientale del Mediterraneo si era fatta più instabile e pericolosa, per una serie di ragioni convergenti: l'alto sviluppo demografico, la condizione economica sempre debole, le sperequazioni sociali, l'affermarsi di concezioni politico-religiose a carattere integralista, le attività terroristiche di gruppi estremi, i fenomeni migratori. Si era altresì fatta più stringente la connessione tra i problemi di questa regione e le vicende delle aree ad essa adiacenti: Golfo, Sahara, Corno d'Africa, Caucaso, Asia centrale ex sovietica a forte presenza musulmana. Ancora, l'area di instabilità si era allargata ai Balcani col manifestarsi di spinte disgreganti, a carattere etnico o economico, degli equilibri statali, in primo luogo nella Iugoslavia. Infine, era intervenuta la proliferazione degli armamenti convenzionali, la tendenza all'acquisizione di armi chimiche e biologiche, la moltiplicazione di vettori missilistici a lungo raggio capaci di allargare i teatri di guerra e la violenza dei conflitti.
Il quadro delle nuove questioni strategiche e di sicurezza aveva dunque posto all'Europa la necessità di darsi istituzioni e politiche capaci di rafforzare la sua presenza internazionale e la sua funzione stabilizzatrice, facendo oggetto dei Trattati europei un complesso di questioni che per molto tempo erano state lasciate alla semplice cooperazione intergovernativa tra Stati sovrani. Il Trattato di Amsterdam cadde però in una congiuntura politica assai delicata, sia per le reazioni nate in Germania e nei Paesi Bassi alla prospettiva di partecipazione all'UEM di paesi ritenuti 'a moneta debole', sia perché nel 1997 la contemporanea ascesa al potere delle forze socialdemocratiche in Francia e in Inghilterra - un anno dopo la sconfitta del centro-destra in Italia - aveva mutato l'equilibrio politico dell'Unione. Entrambi gli elementi aumentarono in Germania la diffidenza verso il processo unitario e indebolirono l'azione di guida del cancelliere cristiano-democratico Kohl. Derivarono da tutto ciò incertezze e remore nella leadership dei paesi maggiori. Peso effettivo ebbe, d'altra parte, l'estrema difficoltà degli Stati nazionali a privarsi dei loro poteri sovrani in materia di sicurezza e difesa, realizzando un'entità sovranazionale che ne supplisse funzioni storicamente determinanti. E tutto ciò ha finito col condizionare la portata effettiva del Trattato di Amsterdam.
Solo all'unanimità possono essere infatti decise le 'strategie comuni' di politica estera, come pure le 'azioni comuni' e perfino le 'posizioni comuni' se un solo Stato lo richiede. Di scarso rilievo è stata l'istituzione della 'cellula di programmazione politica e tempestivo allarme'. Incerto è il ruolo del nuovo 'Alto rappresentante' per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), nominato per la prima volta nel 1999 nella persona dello spagnolo J. Solana, già segretario generale della NATO. È stata infine bloccata l'incorporazione nell'U. E. dell'unica struttura militare integrata a disposizione degli Stati europei, cioè l'Unione europea occidentale (UEO). In sostanza, la politica estera e di difesa dell'U. E., malgrado le speranze europeiste suscitate da Maastricht, non è riuscita ad Amsterdam a istituzionalizzarsi e il pilastro politico dell'Unione è rimasto debole; così come debole è stata la capacità militare dimostrata dagli Europei nella crisi iugoslava che portò prima all'intervento in Bosnia (1995-96) e poi in Kosovo (1999), risultando decisivo in entrambi i casi l'apporto degli Stati Uniti.
Modesti sono stati anche i passi avanti nelle materie del terzo pilastro. I più importanti sono stati due: l'inclusione nelle competenze della Corte di giustizia di quelle materie e l'integrazione nell'ordinamento comunitario del cosiddetto acquis di Shengen (cioè dell'insieme delle regole e strutture previste dall'omonimo patto del 1990, firmato complessivamente da 13 paesi, che consente di eliminare i controlli delle persone alle frontiere interne).
La prospettiva di allargamento a Est dell'Unione Europea
A rendere più complessa la condizione europea ha contribuito la questione dell'ulteriore allargamento dell'Unione. Dal 1957 al 1972 furono necessari quindici anni perché l'originaria Comunità a sei diventasse a nove, con l'adesione di Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda. Nei quindici anni successivi, dal 1972 al 1986, si realizzò l'allargamento della Comunità verso Sud con l'ingresso di tre paesi mediterranei (Grecia, Spagna e Portogallo). Nel 1995 ebbe luogo un secondo allargamento verso Nord (Svezia, Finlandia e Austria). Successivamente, nel documento 'Agenda 2000' presentato nel 1997, la Commissione ha fissato il nuovo obiettivo dell'allargamento verso Est, e nel 1998 ha iniziato il negoziato con sei paesi (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Estonia, più Cipro). Nel Consiglio Europeo di Helsinki del dicembre 1999 è stato poi deciso di aprire il negoziato anche con Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania e Slovacchia, e di iniziare conversazioni preliminari con la Turchia. La politica adottata è stata quella di procedere all'allargamento effettivo dell'U. E. man mano che per ogni paese si vengano a realizzare le condizioni richieste, non prima comunque del 2003.
Le ragioni dell'allargamento a Est sono serie e profonde. Per l'Europa occidentale è importante ottenere la stabilizzazione democratica dei paesi ex comunisti; evitare l'insorgenza di fenomeni disgregativi di tipo iugoslavo su scala est-europea; contribuire a sciogliere le tensioni di carattere etnico, economico, linguistico; concorrere a organizzare, sia sul terreno politico sia su quello economico e commerciale, la vasta area in cui il crollo dell'egemonia sovietica ha aperto un vuoto di potere e di prospettive. Solo all'U. E. era credibilmente affidabile il compito di riagganciare nazioni tanto a lungo tagliate fuori dal circuito della libertà e della cultura occidentale e di riportarle alla democrazia, all'economia di mercato e allo sviluppo. Si tratta, nel complesso, di un impegno di respiro storico, dal cui assolvimento dipenderà largamente l'avvenire pacifico del continente e l'evolversi ordinato della vita internazionale.
Tuttavia, l'allargamento a Est implica una serie di problemi di non facile soluzione. Anzitutto - a tacere di ogni questione relativa ai sistemi politici e istituzionali, e al buio culturale in cui i nuovi paesi aderenti sono stati per quasi mezzo secolo - il loro standard economico e sociale ha ben poco a che fare con quello medio dell'Europa occidentale. L'applicazione ad essi delle politiche strutturali previste per l'U. E., attraverso il Fondo regionale, il Fondo sociale e il Fondo di coesione, può avere un costo molto alto, per il quale occorre trovare lo spazio nel bilancio comunitario. Un costo ancora maggiore potrebbe avere l'estensione ai nuovi paesi della politica agricola europea (PAC, Politica Agricola Comune), malgrado la riforma del 1999. Il bilancio dell'Unione dovrebbe essere accresciuto, creando una seria difficoltà politica ai paesi che formalmente sono contribuenti netti. È questo il problema sollevato al Vertice di Vienna (dicembre 1998) dal cancelliere tedesco G. Schröder (succeduto a Kohl nell'ottobre del 1998), il quale ha sottolineato come sia insostenibile per la Germania continuare ad assumersi un onere finanziario pari a quasi il 30% del bilancio dell'Unione (rispetto al 17,5% della Francia, all'11,8% della Gran Bretagna e all'11,5% dell'Italia). D'altra parte, con le regole fissate dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam, il coordinamento delle politiche macroeconomiche, dopo il 2003, diventerebbe ancora più difficile; il Parlamento e la Commissione sarebbero pletorici, la capacità decisionale dell'Unione destinata a diminuire drasticamente. L'Europa come Babele di un insieme larghissimo di paesi disparati (quasi 30), appare agli spiriti euroscettici, all'inizio del 21° secolo, una prospettiva ben possibile; mentre, a loro volta, gli europeisti più legati a concezioni federaliste temono che l'allargamento finisca col mutare i caratteri tradizionali della costruzione comunitaria e ne minacci la natura di organizzazione efficacemente operativa, creando nuovi problemi economici e sociali. Sta di fatto che l'allargamento previsto aumenterà la superficie dell'U. E. di circa il 30%, accrescerà la sua popolazione di circa il 20% e incrementerà il suo prodotto lordo di meno del 10%.
La questione istituzionale
I differenti svolgimenti del processo unitario hanno contribuito a rendere la riforma delle istituzioni europee la prima chiave di volta dell'avvenire politico del continente. Per comune convincimento, istituzioni pensate per un'Europa a sei Stati, in via di diventare quasi il quintuplo, rappresenterebbero, immutate, un fattore di confusione e di blocco. Per agire ed 'esistere' politicamente, l'Europa ha bisogno assoluto di una riforma istituzionale. Essa si articola in una serie di questioni specifiche, le quali tutte implicano la soluzione di due delicati problemi politici: la revisione dell'equilibrio finora raggiunto tra gli Stati e le istituzioni europee, da una parte, e la revisione dei rapporti tra le differenti istituzioni dell'Unione, dall'altra.
Appartiene tipicamente alla prima categoria la questione del voto a maggioranza qualificata nel Consiglio dell'Unione. La sua estensione - e la connessa riduzione del numero dei casi di voto all'unanimità, nel quale ogni singolo Stato possiede un diritto di veto - deriva essenzialmente da un'esigenza di efficacia operativa dell'Unione, poiché l'unanimità in un Consiglio a 15 Stati, poi a 21, infine a 27, renderebbe praticamente impossibile ogni decisione incisiva, con la conseguenza di aprire una nuova fase di 'eurosclerosi'. La questione si lega a quella della riponderazione del voto di ogni Stato entro il Consiglio: che è cruciale perché l'allargamento dell'Unione eleva di fatto il quorum necessario per raggiungere la maggioranza qualificata (con la conseguenza di ampliare il peso marginale di ogni singolo Stato e di prefigurare la paralisi dell'Unione). Infine, deve essere risolto prima del 2003 il problema del numero dei membri della Commissione, che con le attuali regole diverrebbe altissimo. È stato invece già stabilito che, in ogni caso, i membri del Parlamento non devono superare il numero di 700, ma anche questa decisione implica un successivo atto, cioè la redistribuzione della rappresentanza attuale fra i diversi Stati membri.
Appartiene invece tipicamente alla seconda categoria il problema del rapporto tra Consiglio dell'Unione e Parlamento. Il Trattato di Amsterdam ha esteso le procedure di codecisione tra Parlamento e Consiglio a 23 nuovi casi, in materia sociale, sanitaria, cooperazione doganale, statistica, protezione dei dati, trasparenza, diritti civili, mercato interno, professioni, attività non salariate, trasporti, ricerca, ambiente. Tuttavia, il Parlamento ha considerato questo successo una 'vittoria di Pirro', rilevando che non sono state accolte le più incisive proposte della Commissione fondate sulla nozione di domaine legislatif, e che la codecisione, in particolare, non è stata estesa a materie fondamentali come la politica agricola e la politica fiscale. Una novità rilevante ha rappresentato poi la rottura del tradizionale rapporto di collaborazione tra Parlamento e Commissione, che ha condotto quest'ultima a dimettersi, nel marzo 1999, a seguito delle critiche mossele su casi di cattiva gestione e nepotismo. Ciò ha portato, nello stesso mese, alla nomina del nuovo presidente della Commissione nella persona di R. Prodi, e successivamente all'approvazione parlamentare della nuova Commissione da lui proposta. Essa si è proposta di restaurare una efficace collaborazione col Parlamento, che sembra ormai deciso a rafforzare il suo peso politico nella vita dell'U. E. Non facile appare anche il problema dei rapporti che si svilupperanno tra il Consiglio, la Commissione e la Banca centrale europea.
La BCE è indipendente per tutto ciò che riguarda 'l'obiettivo principale' della politica monetaria, cioè la stabilità dei prezzi; ma è anche obbligata a sostenere, a termini dell'art. 105 del Trattato, "le politiche economiche generali della Comunità". Esse sono espresse a maggioranza dal Consiglio, su proposta della Commissione, e sono destinate ad avere un'importanza sempre maggiore, come fondamento macroeconomico della lotta alla disoccupazione, divenuta obiettivo specifico dell'Unione.
Di non facile applicazione sembra anche il principio della flessibilità introdotto ad Amsterdam, detto anche di cooperazione rafforzata mentre si tratta in realtà di una 'integrazione differenziata'. Esso consiste nella possibilità per i paesi willing and able di procedere nell'integrazione in tempi più rapidi e con forme più incisive rispetto ad altri paesi riluttanti a cessioni di sovranità. Già adottato in via di fatto per lo SME (Sistema Monetario Europeo), per il Trattato di Schengen e per l'UEM, il principio della flessibilità dell'Unione non potrebbe essere applicato, sulla base del Trattato di Amsterdam, alle questioni della sicurezza e della difesa, cioè proprio a quelle per cui era stato pensato. Su questo terreno, tuttavia il Consiglio Europeo di Helsinki del dicembre 1999 ha aperto la strada alla possibilità di compiere concreti passi avanti destinati a rafforzare la presenza politica dell'Europa.
Hanno infine effettivo valore, seppure non decisivo, alcuni elementi dell'identità costituzionale dell'Unione usciti dai Trattati del 1992 e del 1997. La costruzione comunitaria si era già venuta configurando come un fatto costituzionale composito, caratterizzato da elementi di diritto nazionale e da elementi di diritto europeo, i primi cedendo ai secondi in caso di conflitto. Si è parlato, in questo senso, di una 'unione di Costituzioni' come descrizione di un fenomeno che vede un'integrazione di ordinamenti oltre che di istituzioni. Su questa situazione si è inserito non soltanto l'accresciuto potere del Parlamento di cui si è detto, ma soprattutto la creazione della cittadinanza europea. Essa ha infatti carattere giuridico, oltre che politico, e determina per i cittadini dell'Unione obblighi e diritti, che esigono necessariamente un sistema istituzionale più affinato, nel quale l'elemento democratico, i poteri di controllo, i checks and balances del costituzionalismo classico, assumano progressivamente un ruolo preponderante. È tornata così ad avanzare, anche per questa via, l'esigenza di colmare l'attuale deficit democratico dell'Unione, poco corrispondente ai tratti caratteristici dei sistemi costituzionali moderni. In questa chiave va letto anche lo sforzo di elaborazione della 'carta dei diritti fondamentali' cui l'U. E. sta attendendo.
Quest'insieme di problemi e di ragioni rende di fondamentale importanza la conferenza dedicata alla riforma delle istituzioni, che ha iniziato i suoi lavori nel febbraio 2000 nella previsione di concluderli entro l'anno. Da essa largamente dipenderà la possibilità di una risposta positiva alla prima questione-chiave dell'Europa cui si è accennato. Ed è inevitabile che il suo risultato sarà influenzato dall'esito della più impegnativa impresa messa in essere nel processo europeo di mezzo secolo, l'Unione economica e monetaria: la cui moneta, l'euro, nel corso del primo anno di operatività dell'UEM si è peraltro deprezzata di circa il 25% nel rapporto con il dollaro.
La questione economico-sociale
La seconda chiave di volta dell'avvenire del continente risiede, in effetti, nell'accrescimento della vitalità del suo sistema economico-sociale. L'età della globalizzazione dell'economia ha reso di fatto obsoleto il modello, pur ricco di conquiste e progressi sociali, che si è progressivamente affermato in Europa nel 20° secolo, anche se con differenze notevoli tra nazione e nazione: il cosiddetto modello renano, basato sulla rilevante presenza e sull'attivo intervento dello Stato nella vita economica, sull'ampia rete di garanzia sociale assicurata dal welfare, e sulla complessiva prevalenza delle ragioni degli 'inclusi' rispetto a quelle degli 'esclusi'.
In particolare, tale modello ha espresso negli anni Novanta, attraverso una crescente dose di disoccupazione strutturale, la sua difficoltà di reggere la competizione globale nei confronti di sistemi economici qualificati dal limitato ruolo (di controllo) dello Stato, dalla prevalenza dell'iniziativa privata, dalla flessibilità del mercato del lavoro e da un sostegno finanziario dell'attività produttiva affidato essenzialmente ai meccanismi di mercato. Si è manifestata così una crescente dicotomia fra la condizione nord-americana, caratterizzata da sostanziale piena occupazione, equilibrio dei conti pubblici, basso tasso di inflazione e alto tasso di ricerca scientifico-tecnologica, e la condizione dei paesi europei, caratterizzati da una disoccupazione di circa il 10% della forza di lavoro, da una minore attenzione ai problemi della ricerca e dell'innovazione, da politiche di redistribuzione orientate alla tutela dei gruppi sociali più organizzati, da difficoltà di bilancio e da politiche monetarie guardinghe. Si è profilata d'altronde meno importante, nel confronto tra i due modelli, la questione del loro valore sociale, perché se quello americano, anche assorbendo continue ondate di immigrazione, ha mantenuto forti sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, l'insufficiente riforma di quello europeo ha avuto e può continuare ad avere l'effetto di limitare la crescita e di aumentare la disoccupazione e l'esclusione, accrescendo per questa via le tensioni sociali.
All'inizio del 21° secolo i due modelli di economia di mercato si confrontano sulla scena mondiale in una gara che per il momento sembra vedere perdente quello del vecchio continente; ove, oltretutto, le forze di sinistra prevalenti nei governi dei paesi dell'Unione risentono spesso della difficoltà di adeguare tempestivamente le loro concezioni di stampo socialdemocratico alle novità della globalizzazione. Né le crisi sprigionate dalle difficoltà finanziarie dei paesi dell'Asia sud-orientale nel 1997-98, del Brasile nel 1998-99, nonché della Russia e della Cina, né la ripresa dello sviluppo economico europeo, all'inizio del 2000, hanno tuttavia mutato la posizione relativa dei due sistemi a confronto. Gli Stati Uniti si presentano, rispetto ai paesi europei, non solo più ricchi di vigore economico e di attenzione ai problemi della formazione di capitale umano divenuti cruciali nella società post-industriale, ma anche forti, sotto il profilo morale e politico, degli storici successi ottenuti nel 'secolo breve' (Hobsbawm 1994), quando hanno contribuito in modo decisivo a battere gli imperi centrali a carattere autoritario nella Prima guerra mondiale, a distruggere nazismo e fascismo europeo e imperialismo giapponese nella Seconda guerra mondiale, e infine a provocare il crollo del comunismo nel mondo al termine della guerra fredda. In questo senso, se può apparire improprio parlare della prospettiva di un 'secolo americano' in un quadro che vedrà il progressivo affermarsi sulla scena mondiale di nuovi colossi economici quali la Cina, il Brasile e l'India, sembra tuttavia ben possibile che almeno i primi decenni del 21° secolo possano essere dominati dal modello di 'egemonia e consenso' prodotto dagli Stati Uniti, facilitati dall'influenza di cui dispongono nei grandi organismi internazionali di carattere politico ed economico e dalla supremazia militare che li rende di fatto l'unica superpotenza planetaria.
Condizioni dell'influenza europea
In questa condizione, la classe dirigente del vecchio continente, con realismo, non si è posta il problema di misurarsi frontalmente con gli Stati Uniti sul piano mondiale, nonostante che gli interessi del pilastro europeo del mondo occidentale divergano in vari casi da quelli del pilastro americano. Il potenziale di forze e di risolutezza degli Stati Uniti continua infatti a essere considerato indispensabile dalla dirigenza europea, soprattutto in vista del controllo di situazioni di emergenza sul piano economico o politico. Continua d'altra parte a essere attentamente considerata la comune connotazione democratica degli ordinamenti politici. Così, sebbene il rapporto tra Europa e Stati Uniti non sia mai riuscito ad assumere le forme della partnership proposta dal presidente J.F. Kennedy, esso rimane tuttora ben stretto. Né ciò può convalidare la tesi, avanzata sotto vari profili da diversi filoni di letteratura sociologica e politica, di un processo di 'decadenza europea'. Tuttavia, la possibilità per l'Europa di far valere in futuro, a livello mondiale, l'influenza e i valori della tipica civiltà che l'ha storicamente qualificata rappresenta un problema che si pone in termini diversi dal passato; e la sua soluzione sembra dipendere dal verificarsi di almeno due condizioni indispensabili anche se non sufficienti.
La prima è l'unità politica, sia pure attraverso la formazione di un 'nucleo duro' a carattere federale o semifederale, capace di assorbire progressivamente paesi dal passo meno veloce. In effetti, mentre non sono venute meno le ragioni ideali che nel corso del 20° secolo hanno alimentato il processo di unità europea, si è aggiunta a esse una stringente ragione di carattere strutturale. Nel mondo del 21° secolo, unificato nell'economia, nella finanza, nel mercato del lavoro, nella tecnologia e nell'informazione, non è la dimensione nazionale, né quella dell'attuale acquis dell'Unione, ma solo quella di un autentico governo europeo che può consentire una capacità di influenza sui grandi e decisivi fenomeni economico-sociali connessi alla globalizzazione. Nella stessa UEM è ben probabile che si farà strada l'idea che tali fenomeni non possono essere affrontati solo con la politica monetaria affidata al potere neutro della BCE, ma esigono una visione più complessa, affidata a un potere politico democraticamente responsabile di fronte ai popoli.
La seconda condizione è la creazione di un peculiare ordine economico-sociale dell'Europa, capace di competere con quello statunitense. L'Europa, peraltro, non ha solo il problema di sviluppare con robuste iniezioni di deregolamentazione e di liberalizzazione la vitalità economica di cui ancor oggi largamente dispone; ma anche quello di mantenere, attraverso l'avvio di nuovi strumenti e il raggiungimento di nuovi obiettivi di welfare, la coesione sociale assicurata in passato dal modello che l'ha caratterizzata, e le cui attuali rigidità e pesantezze hanno l'effetto di ridurre la competitività e accrescere il malessere. In sostanza si pone all'Europa il problema di definire, nel quadro dell'economia di mercato, un assetto economico-finanziario e sociale che non ripeta meccanicamente quello americano e che superi l'ormai insufficiente 'modello renano'.
Le due condizioni si tengono insieme, in un nesso politicamente inscindibile, e la loro realizzazione implica una duplice rivoluzione pacifica. Essa postula a sua volta il superamento delle resistenze derivanti da miti politici, da assetti consolidati, da convenienze di gruppi sociali influenti, e perfino da pigrizie intellettuali e costumi tradizionali: un complesso di elementi che senza dubbio rappresenta un ostacolo massiccio. E tuttavia esso può considerarsi non insormontabile per classi dirigenti dotate di volontà e di lungimiranza, soprattutto se l'UEM sarà adeguatamente gestita e sarà sorretta da una fase positiva dell'economia mondiale.
In questo non facile cammino può avere un'influenza non indifferente il nuovo orientamento della Gran Bretagna, tra le grandi nazioni europee la più restia al processo unitario, pur dopo aver superato il trauma della decadenza da paese imperiale. Con i governi conservatori di M. Thatcher, la Gran Bretagna è stata l'unico paese europeo ad avere incorporato nella sua struttura l'ondata liberista che ha inciso sulla condizione dell'Occidente e in particolare su quella americana. E sembra tuttavia averne in seguito dedotto non il tentativo di sviluppare prioritariamente la sua special relationship con gli Stati Uniti, ma al contrario l'opportunità di inserirsi più pienamente in Europa, dove meglio può collocare tanto il suo nuovo dinamismo socio-economico e culturale quanto le sue tradizioni politiche, e quei valori sociali che ne fecero l'antesignana della creazione del welfare, ieri, e della sua riforma, oggi. È apparsa altamente significativa del nuovo indirizzo britannico, favorito dal governo laburista, la proposta avanzata dal primo ministro T. Blair al vertice di Pörtschach (ottobre 1998) di costruire rapidamente nel campo della difesa una 'identità europea' non alternativa alla struttura NATO e non ripetitiva di essa. Tuttavia, l'adesione del Regno Unito all'UEM non sembra possa avvenire - sulla base degli impegni assunti dai leader britannici - se non dopo le elezioni politiche del 2002; in un periodo cioè in cui verrà contemporaneamente a scadenza il problema dell'allargamento dell'Unione a Est, con un sovraccarico di non facile assorbimento, sul quale inoltre peseranno i concreti risultati ottenuti nel frattempo dall'UEM.
Anche per questo, la condizione dei paesi europei 'mediterranei' (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) avrà un peso maggiore, in un senso o in un altro, negli svolgimenti del processo unitario. Essi sono considerati generalmente, dalle opinioni pubbliche di molti paesi nord-europei, scarsamente affidabili sul terreno finanziario, relativamente instabili su quello politico e deboli su quello dell'efficienza e correttezza dell'amministrazione pubblica. E i paesi nordici, come hanno avuto difficoltà a unirsi con essi nell'impresa dell'UEM, così sono riluttanti ad accettare una politica economica comune con essi, da elaborare all'interno delle istituzioni europee.
Sebbene anche la Germania e i paesi scandinavi abbiano robuste dosi di disoccupazione, l'orientamento e gli sviluppi dell'UEM si giocheranno perciò in buona parte, nell'assenza della Gran Bretagna, sulla capacità delle nazioni mediterranee di realizzare la riforma dei loro assetti meno apprezzati. In altri termini, ulteriori passi avanti compiuti con continuità dai paesi mediterranei in questa direzione contribuiranno a disperdere le resistenze al perseguimento di politiche mirate all'equilibrio sociale del continente, non meno che alla competitività dell'economia europea. Mentre in caso contrario appare fondata la previsione di una maggiore difficoltà dell'Europa ad esprimere un nuovo modello economico-sociale che, insieme all'unità politica, la metta in grado di accrescere il suo peso e la sua influenza su scala internazionale.
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Economia. Le fasi dell'unione economica e monetaria europea
Il processo per la realizzazione dell'unione economica e monetaria europea prevedeva tre fasi. La prima iniziò il 1° luglio 1990 e terminò nel 1993. Il 1° gennaio 1994, con la nascita dell'Istituto monetario europeo (IME), iniziava la seconda fase; l'Istituto aveva il compito di rafforzare la cooperazione fra Banche centrali europee e di coordinare le politiche monetarie, mettendo in atto i necessari presupposti per la creazione del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC). Nel periodo 1995-98, il Consiglio Europeo e l'Istituto monetario hanno compiuto una serie di passi che hanno condotto all'inizio della terza fase, il 1° gennaio 1999, con l'adozione della moneta unica.
Nel dicembre 1995, il Consiglio decise di chiamare euro (E) la moneta unica (v. anche euro, in questa Appendice), affidando all'Istituto monetario il compito di mettere in atto i necessari lavori preparatori per la sua concreta introduzione. Nel giugno 1997, ad Amsterdam, il Consiglio Europeo adottava un Patto di stabilità e crescita (PSC) che rafforzava l'impegno dei paesi aderenti al mantenimento di finanze pubbliche sane, fissando le regole da applicare nel caso in cui uno o più paesi non rispettassero i criteri dell'accordo di Maastricht. Nella stessa occasione, il Consiglio sottolineava l'esigenza primaria di combattere la disoccupazione e, sulla base di un precedente rapporto dell'Istituto monetario, adottava un meccanismo (il cosiddetto SME ii) per mantenere agganciate all'euro le monete di quei paesi che non avessero aderito alla moneta unica sin dall'inizio del 1999.
Le regole del PSC stabiliscono che il rapporto deficit/PIL del 3% può essere superato solo in via eccezionale (come nel caso di recessioni di particolare gravità); se il vincolo viene superato per altri motivi, il paese inadempiente sarà soggetto al pagamento di una 'multa' trattenuta in un deposito infruttifero per due anni. Il paese che non riassorba lo squilibrio entro due anni perde il diritto al rimborso della multa.
All'inizio del maggio 1998, il Consiglio Europeo decideva all'unanimità che undici paesi dell'U. E. (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna) avevano rispettato i criteri per l'adozione dell'euro sin dall'inizio del 1999. Il 25 maggio dello stesso anno, i governi degli undici paesi nominarono il presidente, il vicepresidente e quattro altri membri del comitato esecutivo della Banca centrale europea, con effetto dal 1° giugno 1998. Questa data ha segnato la nascita della Banca centrale europea che, insieme alle Banche centrali degli altri paesi dell'U. E., costituisce il Sistema europeo delle banche centrali cui è demandata la responsabilità di formulare e attuare una politica monetaria unica. Con la nascita della Banca centrale, l'Istituto monetario europeo ha concluso i suoi compiti. *
Economia. Unione monetaria europea
di Giancarlo Marini
Le previsioni di chi prospettava un'Unione monetaria europea a velocità differenziate non si sono realizzate; l'Unione è stata allargata a quasi tutti i paesi che hanno voluto parteciparvi: l'euro è stato introdotto il 1° gennaio 1999, come previsto dal Consiglio Europeo di Madrid del 1995. La sola Grecia è stata costretta a rimanere fuori, in quanto non in linea con i criteri di Maastricht, mentre Danimarca, Regno Unito e Svezia hanno preferito non essere presenti dall'inizio. I problemi principali per Regno Unito e Svezia, qualora decidessero di far parte in futuro dell'Unione monetaria, risiedono nel non aver partecipato al meccanismo del tasso di cambio e nel non aver concesso la piena indipendenza alle Banche centrali. Pertanto, nel rispetto del Trattato di Maastricht, questi paesi, prima di essere ammessi all'Unione, dovranno attendere almeno due anni dal loro ingresso nello SME ii, che con l'avvento della moneta unica ha sostituito il precedente meccanismo di cambi fissi, lo SME i. Lo SME ii prevede la definizione di parità centrali rispetto all'euro delle valute dei paesi interessati a partecipare all'Unione monetaria in una fase successiva, consentendo gli stessi margini di oscillazione (15%) previsti dallo SME i dopo la crisi del 1993. L'ampiezza della banda di fluttuazione (30%) dovrebbe escludere l'insorgere di eventuali attacchi speculativi nel periodo di transizione.
Mentre è indubbio che la Grecia otterrà l'ammissione non appena il processo di convergenza e risanamento sarà soddisfacente, è difficile stabilire se e quando la Danimarca accetterà di entrare nell'UEM. La Danimarca, pur rispettando tutti i requisiti previsti per la partecipazione alla moneta unica, ha deciso di esercitare l'opzione di non partecipare (concessale insieme alla Gran Bretagna) per motivi essenzialmente politici. La decisione di mantenere la corona danese nella banda di fluttuazione del 4,5%, che era quella prevista dallo SME i prima della crisi, si potrebbe interpretare come un tentativo di mantenere il cambio fisso con l'euro, senza dover rinunciare alla sovranità monetaria. La paventata Europa a due velocità, con un numero esiguo di paesi a formare l'iniziale 'nucleo duro', è stata evitata in quanto è alla fine prevalsa una lettura elastica del Trattato di Maastricht e della natura dei criteri, permettendo ai paesi che hanno avviato in modo credibile il processo di risanamento di partecipare, anche se non tutti rispettavano alla lettera le condizioni richieste.
L'unione monetaria non è una semplice riforma valutaria ma, a detta di molti esperti, è la realizzazione concreta, così come progettato nel Trattato di Maastricht, di un evento d'importanza cruciale per la futura unione politica europea. La strada scelta per realizzare l'integrazione europea è, infatti, una strada indiretta; piuttosto che partire da forme di integrazione politica, come pure la Germania avrebbe preferito, si è adottata la strategia di passare per il mercato unico. L'idea di fondo era che l'integrazione economica, concretizzatasi nella liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali, avrebbe costretto i paesi membri a un sempre maggiore coordinamento delle politiche monetarie e fiscali. Ciò, a sua volta, avrebbe dovuto condurre, dopo l'adozione della moneta unica, alla piena integrazione politica.
Non tutti sono però d'accordo sul fatto che la moneta unica sia indispensabile per il corretto funzionamento del mercato unico; molti economisti, soprattutto di tradizione anglosassone, sostengono che quest'ultimo sia compatibile con la sovranità monetaria dei paesi membri. Secondo loro, il costo connesso alla rinuncia alla valuta nazionale supera di gran lunga i vantaggi che ne deriverebbero, soprattutto in assenza di una qualche forma di federalismo fiscale in grado di assorbire shock asimmetrici attraverso la redistribuzione del reddito comunitario: i paesi colpiti da shock avverso non avrebbero più a disposizione l'opzione di far deprezzare la valuta nazionale al fine di uscire dalla recessione. La valuta unica non sarebbe quindi necessaria per mantenere il mercato unico; tra gli esempi a sostegno di questa tesi è citato l'accordo commerciale tra i paesi dell'America Settentrionale, perfettamente funzionante pur in presenza di differenti valute.
Di opposto parere è chi, invece, sostiene il ruolo strumentale della valuta unica per il processo di unificazione politica, sottolineando l'irreversibilità del percorso intrapreso. Il cambio non è più ritenuto, in un mondo caratterizzato da mercati sempre più integrati ed efficienti, uno strumento di politica economica efficace.
La teoria tradizionale con la quale si analizzano i problemi dell'unione monetaria è quella delle aree valutarie ottimali, secondo cui le dimensioni ottimali di un'area valutaria prescindono da considerazioni di carattere geografico o politico: ciò che conta è il confronto tra i costi e i benefici di una valuta unica. Tra questi ultimi vengono ascritti il risparmio in termini di costi di transazione, i vantaggi in termini di maggiori scambi commerciali conseguenti all'annullamento del rischio di cambio e, per l'Europa, il significato simbolico della rinuncia alle valute nazionali, in vista di una maggiore integrazione politica.
A fronte di tali vantaggi il costo è rappresentato dalla rinuncia a uno strumento di politica economica, il cambio, utile in presenza di shock asimmetrici. La valutazione di tale costo dipenderà allora dalla probabilità e dall'entità di tali shock per l'area valutaria in questione, nonché dall'esistenza di altri meccanismi in grado di rispondere agli stessi in modo efficace; questi meccanismi vanno ricercati nella flessibilità dei mercati e nella mobilità del lavoro all'interno dell'area valutaria. Sulla base di questi criteri, la maggior parte delle verifiche empiriche compiute in letteratura concorda sul fatto che l'Europa non sembrerebbe costituire un'area valutaria ottimale. Nonostante tali dubbi e incertezze, un largo numero di economisti europei si è sempre espresso in maniera favorevole al progetto.
Il primo argomento a favore dell'unione monetaria è rappresentato da considerazioni di carattere non squisitamente economico: la valuta è un simbolo delle identità e delle sovranità nazionali che l'Europa vuole superare. L'unione monetaria inoltre impone un serio coordinamento delle politiche monetarie e fiscali, che a sua volta implica una maggiore integrazione a livello istituzionale, primo passo verso l'integrazione politica. L'idea è allora quella di realizzare sul piano economico delle forme di integrazione irreversibili che favoriscano dal basso il processo di integrazione politica. I vantaggi della valuta unica non si esauriscono in questo caso in meri guadagni contabili, inglobando la stessa idea di un'Europa unita.
Per tornare a valutazioni di carattere più strettamente economico, il secondo punto messo in evidenza dai fautori della moneta unica è che nella realtà contemporanea la flessibilità del tasso di cambio, in presenza di mercati fortemente integrati e con elevata mobilità dei capitali, non rappresenta più uno strumento efficace per risolvere problemi di carattere strutturale. La manovra dei cambi ha infatti solo effetti di breve periodo (fonti tra l'altro di scontri a livello istituzionale), mentre nel lungo periodo eventuali svalutazioni si scaricano sui prezzi e non hanno effetti reali. In questo quadro la rinuncia allo strumento del cambio in presenza di shock asimmetrici non rappresenterebbe un costo eccessivo a differenza di quanto emerge dall'analisi teorica.
Pur concordando sull'impossibilità di usare lo strumento del tasso di cambio per obiettivi di lungo periodo, gli economisti contrari all'unione monetaria invitano a non sottovalutare i notevoli costi di aggiustamento che potrebbero portare a un aumento della già troppo elevata disoccupazione europea, che sembra reagire assai negativamente anche a shock di natura transitoria. Ecco allora che la ricetta più volte impiegata in passato da alcuni paesi europei per uscire da profonde crisi, ovvero contrazione fiscale accompagnata da svalutazione, non può più rientrare tra i provvedimenti di politica economica possibili. I vantaggi in termini di ridotti costi di transazione all'interno dell'Unione sono forse sovrastimati e non vengono appropriatamente discusse le possibili conseguenze negative. Non sarebbe, secondo alcuni, da sottovalutare la possibilità che l'U. E., trovandosi ora ad agire come attore unico nei negoziati con paesi terzi, potrebbe, a fronte dell'abolizione completa delle restrizioni commerciali all'interno dell'Unione monetaria, mantenere inalterate o inasprire le tariffe verso i partner commerciali esterni, determinando una perdita anziché un guadagno di benessere. Vista l'inadeguatezza degli strumenti fiscali e la scarsa flessibilità dei mercati non è infatti da escludere che possano emergere tentazioni protezionistiche in seguito all'occorrenza di shock di notevole entità.
L'analisi costi-benefici non sembra quindi fornire indicazioni univoche sull'opportunità dell'Unione monetaria europea. Occorre ricordare che la mera valutazione economica dell'Unione monetaria è stata giudicata inappropriata anche dall'economista che ha formulato la teoria delle aree valutarie ottimali, R. Mundell, da sempre acceso sostenitore della necessità di pervenire a una singola moneta europea. La forte spinta verso la moneta unica va quindi ricercata nelle motivazioni che hanno ispirato i grandi personaggi fautori dell'U. E., secondo i quali solo quando i cittadini delle diverse nazioni fossero divenuti cittadini d'Europa sarebbe stato possibile evitare l'insorgere di ulteriori guerre tra i paesi europei. Considerazioni extra-economiche di questo tipo potrebbero spiegare l'atteggiamento europeista per paesi come la Germania, che sembrerebbe destinata a subire ripercussioni negative nel passaggio all'Unione monetaria.
Mentre per paesi come Italia e Spagna i vantaggi della valuta comune deriverebbero dall'aumento di credibilità, necessaria per la riduzione delle aspettative inflazionistiche, gli osservatori faticano a individuare guadagni economici per paesi tradizionalmente più stabili. Un discorso a parte merita la Francia, le cui motivazioni vanno ricercate nel desiderio di riaffermare la propria posizione nella leadership europea, magari nella speranza che la rinomata efficienza dei funzionari pubblici francesi consenta loro di giocare un ruolo importante nella costruzione della futura Europa. D'altro canto il consenso della letteratura economica è pressoché unanime sul fatto che la Germania subirà notevoli perdite nel passaggio all'euro, in quanto vedrà ridursi l'indiscussa leadership monetaria, storicamente acquisita grazie alla reputazione anti-inflazionistica della Bundesbank.
Questa posizione però sembra non tener conto delle alternative possibili. Non sarebbero state proponibili infatti soluzioni come lo SME, dove la Germania ha quasi sempre condotto politiche monetarie volte a contenere l'inflazione, ricorrendo con assidua frequenza a manovre di sterilizzazione. La moneta unica avrà riflessi positivi anche sulla Germania, che non sarà più costretta, per contenere l'inflazione interna, a rivalutazioni del marco tali da pregiudicare la competitività internazionale delle imprese tedesche e/o a dover effettuare le suddette operazioni di sterilizzazione dei surplus commerciali. Dopotutto la Banca centrale europea, che ha sostituito l'Istituto monetario europeo a Francoforte, ha quale obiettivo principale - esattamente come la Bundesbank - la stabilità dei prezzi, secondo il trattato di Maastricht, che ne sancisce inoltre la totale indipendenza dalle istituzioni politiche.
Sono in molti, tuttavia, a ritenere che l'impegno anti-inflazionistico della BCE non potrà essere esattamente lo stesso della Bundesbank, per il semplice motivo che l'avversione all'inflazione non è la priorità assoluta al di fuori della Germania, soprattutto in presenza di elevati tassi di disoccupazione. Le decisioni di politica monetaria saranno, infatti, prese a maggioranza semplice dal sottoinsieme del Sistema europeo delle banche centrali, l'Eurosistema, che è composto dai 6 componenti permanenti del direttorio della BCE e dagli 11 governatori delle Banche centrali dei paesi partecipanti.
La riprova che la BCE non potrà essere pienamente indipendente è costituita, secondo alcuni, dalla controversia tra Francia e Germania sulla scelta del governatore, che ha portato a un compromesso non previsto nel Trattato. Il governatore olandese W. Duisenberg, infatti, dovrebbe dimettersi dopo metà mandato per lasciare il posto al francese J. Trichet. Non sussiste violazione formale al Trattato, che prevede una durata di 8 anni della carica, solo perché le eventuali dimissioni saranno comunque 'volontarie'.
Alcuni osservatori hanno poi messo in forte dubbio l'effettiva indipendenza della BCE alla luce dell'art. 109 del Trattato, che sembrerebbe lasciare le decisioni 'importanti' sulla politica del tasso di cambio al Consiglio dei ministri finanziari, sentito il parere della BCE. In altre parole, l'eventuale decisione di costituire in futuro un sistema monetario mondiale spetterebbe alle autorità politiche, che possono dare indicazioni anche in casi di eccezionale instabilità sul mercato dei cambi. È evidente che un forte controllo politico del cambio implicherebbe necessariamente ingerenza nella politica monetaria della BCE.
I sostenitori dell'indipendenza della BCE ritengono che, di fatto, l'intervento politico non potrà essere frequente, vista la scarsa probabilità di tornare a un sistema monetario mondiale con cambi fissi e considerato che saranno plausibilmente la BCE e le Banche centrali statunitense e giapponese a concertare interventi sui cambi in periodi di accentuata instabilità. Un'ulteriore riprova della ferma volontà della BCE di perseguire l'obiettivo primario della stabilità dei prezzi 'senza distrazioni' è data dal ruolo secondario che esercita, al momento, nel campo della supervisione bancaria. I compiti di vigilanza sul sistema finanziario sono, infatti, decentrati alle singole Banche centrali nazionali che, oltre a gestire i servizi di tesoreria della pubblica amministrazione, continueranno a svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza, presumibilmente previa consultazione con la BCE.
Per tutelarsi da spinte inflazionistiche derivanti da politiche di bilancio non rigorose si è instaurato, come già detto, il Patto di stabilità tra i paesi membri, che di fatto rende permanente il criterio di Maastricht del 3% come tetto massimo del rapporto deficit/PIL. Il rispetto di tale patto dovrebbe, nelle intenzioni, far drasticamente ridurre l'entità del debito pubblico nei paesi dove è eccessivamente elevato, diminuendo, di conseguenza, le eventuali tentazioni inflazionistiche.
Data la sensibilità del criterio a variazioni del reddito nominale e dei tassi di interesse, è evidente che il rapporto deficit/PIL non costituisce un efficace indicatore dell'andamento di lungo periodo delle politiche di bilancio. In particolare, paesi con elevato stock di debito possono trovarsi in difficoltà anche in presenza di politiche che comportano massicci avanzi primari, qualora la durata media del debito non sia sufficientemente elevata. Va segnalato che la durata media del debito è aumentata sensibilmente negli ultimi anni, proprio per evitare il verificarsi di questa eventualità. Visti inoltre gli stretti legami commerciali tra i paesi dell'U. E. e la forte correlazione tra i tassi di crescita del PIL, sono stati avanzati dubbi sull'effettiva applicabilità del PSC, che avrebbe soltanto un valore di facciata, per accontentare le pressanti richieste provenienti, a suo tempo, dalla Germania.
In altre parole, shock negativi dovrebbero ripercuotersi su quasi tutti i paesi che si asterranno in ogni modo dall'effettuare un autosanzionamento generalizzato. Anche qualora lo shock interessi un ristretto sottoinsieme dei paesi, non è affatto scontato che la procedura sanzionatoria venga messa in atto, per la particolare formalità di voto, che prevede una maggioranza di due terzi, con la ponderazione illustrata nell'art. 148 del Trattato. Sia il paese sotto esame, sia i non partecipanti all'Unione non avranno diritto di voto; le maggioranze necessarie perché vengano adottati provvedimenti sono quindi variabili ed è possibile costituire coalizioni di blocco con relativa facilità.
A titolo di esempio, qualsiasi coalizione tra Francia, Spagna, Portogallo e Italia sarebbe sufficiente a bloccare l'applicazione del PSC. In ogni caso, queste difficoltà di applicazione del PSC non dovrebbero produrre politiche di bilancio eccessivamente espansive nei paesi partecipanti, né influenzare le decisioni di politica monetaria. Forse è legittimo attendersi che la BCE, pur nel rispetto dell'obiettivo della stabilità dei prezzi, adotterà procedure più flessibili per tener conto dell'evoluzione congiunturale dell'economia. È altrettanto lecito comunque attendersi che politiche monetarie altamente accomodanti, prima possibili nei singoli paesi, saranno scarsamente probabili in futuro.
I timori di chi prevede momenti di tensione a seguito del verificarsi di shock asimmetrici (in assenza dello strumento sia monetario sia fiscale) si basano principalmente sulla scarsa probabilità che il cambiamento economico-culturale necessario per fronteggiare tali shock possa verificarsi in tempi brevi. Non esiste al momento un bilancio comunitario sufficiente per poter effettuare trasferimenti compensativi verso le regioni colpite da shock asimmetrici e temporanei. Le tensioni sulla necessità di rivedere le quote contributive nette, insieme alle crescenti esigenze finanziarie dovute all'allargamento nei confronti dei paesi dell'Est previsto dall'Agenda 2000, evidenziano sia l'esiguità del budget comunitario sia la totale inadeguatezza dell'attuale politica fiscale europea. C'è chi sostiene che una qualche forma di federalismo fiscale del tipo esistente negli USA sarà possibile solo con la piena integrazione politica.
Quanto prima i cittadini dei paesi membri si abitueranno all'idea che l'unione monetaria comporta un forte e inevitabile cambiamento nella conduzione dell'intera politica economica nei singoli Stati, tanto più indolore sarà il passaggio all'euro. La massiccia campagna di informazione in atto nei paesi europei dovrebbe contribuire a questo cambio di mentalità, anche se i sondaggi sembrano tuttora evidenziare un certo grado di indifferenza. Il motivo principale forse è che i singoli individui rimandano il loro investimento in informazione nel tempo, visto che l'euro rimarrà una moneta solo scritturale fino al 2002. Anche se le nuove emissioni di titoli pubblici dal 1° gennaio 1999 sono in euro ed è, in generale, possibile, sempre dal 1999, farne ampio uso nei contratti (secondo il principio di nessun obbligo, nessun divieto), la moneta entrerà in circolazione il 1° gennaio 2002 per sostituire, entro i sei mesi successivi tutte le valute nazionali dei paesi membri, che solo a quel punto cesseranno di avere corso legale. L'esordio dell'euro sui mercati internazionali è avvenuto sotto il segno di incertezza: dal 4 gennaio 1999 al 10 maggio 2000 si è deprezzato del 22,8% rispetto al dollaro USA e del 25,9% rispetto allo yen.
La lunghezza della transizione, dettata esclusivamente da motivi tecnici, non deve tuttavia trarre in inganno. L'Europa è partita dal mercato unico per giungere inevitabilmente, dopo l'abolizione dei controlli sui movimenti di capitale, alla moneta unica. Altrettanto inevitabile appare la necessità di pervenire all'unione politica, che potrà essere il solo rimedio contro l'insorgere di tensioni fra i paesi partecipanti a seguito di shock asimmetrici.
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Diritto comunitario
di Isabella Castangia
Con il Trattato sull'Unione Europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, l'ambizioso progetto di costruzione europea, iniziato nei primi anni Cinquanta con l'istituzione delle tre Comunità - CECA, CEE, CEEA -, è entrato in un'ulteriore e significativa fase di sviluppo che, oltre a segnare un rafforzamento dell'integrazione economica, fa acquisire maggior concretezza all'obiettivo dell'unificazione politica dell'Europa.
Il perseguimento di tale obiettivo è ora affidato all'U. E. - alla cui istituzione è consacrato appunto il Trattato di Maastricht, già sottoposto a una prima revisione con il Trattato di Amsterdam, firmato il 1° ottobre 1997, in vigore dal 1° maggio 1999 - che opera nel quadro di una nuova architettura dell'Europa comunitaria. L'Unione contemplata dal TUE infatti non si sostituisce alle tre Comunità, ma si sovrappone a esse integrandole con nuove politiche e nuove forme di cooperazione, "con il compito di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli". L'U. E. viene pertanto ad assumere una struttura complessa, comunemente descritta per immagini come un edificio che poggia su tre pilastri: rispettivamente, le Comunità europee, la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione nei settori della Giustizia e degli affari interni (GAI); quest'ultimo, ampiamente 'comunitarizzato' dal Trattato di Amsterdam, è ormai limitato alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. In virtù di questa configurazione, l'U. E. si prefigge non solo di portare avanti gli obiettivi propri dell'integrazione comunitaria, ma anche di estendere quest'ultima a pressoché tutti i settori di intervento statale, perfino a quelli che costituiscono la manifestazione più tradizionale della sovranità nazionale. Alla logica dell'integrazione, che riposa sui processi decisionali e sui meccanismi di controllo propri del 'metodo comunitario', risponde per ora solo il primo 'pilastro', mentre gli obiettivi degli altri due pilastri vengono portati avanti mediante procedure di carattere intergovernativo e una cooperazione di tipo burocratico, in attesa che siano maturi i tempi per una loro 'comunitarizzazione'; tale eventualità è esplicitamente prevista (art. 42 del TUE, cosiddetta passerella comunitaria) per le materie comprese nel terzo pilastro, che, con decisione unanime del Consiglio, potranno passare al pilastro comunitario. Malgrado questa differenziazione nei metodi di funzionamento, vi è tuttavia una chiara tendenza all'unitarietà di azione dell'U. E. e delle Comunità europee. Ciò emerge sia dal compito affidato all'U. E. di mantenere e sviluppare quanto già acquisito sul piano comunitario, il cosiddetto acquis comunitario, sia, più esplicitamente, dalla previsione di un quadro istituzionale unico per perseguire da un lato gli obiettivi propri dell'U. E., dall'altro quelli più specificatamente comunitari, sia infine dall'aver affidato al Consiglio Europeo, organo costituito dai capi di Stato o di governo, nonché dal presidente della Commissione europea, il compito di dare impulso allo sviluppo dell'U. E. e di definirne gli orientamenti politici generali.
Poco significative, soprattutto se rapportate al notevole accrescimento di competenze, appaiono le modifiche alla struttura istituzionale contemplate dal TUE, che ha elevato al rango di istituzione - accanto al Parlamento europeo, al Consiglio dei ministri ora chiamato Consiglio dell'Unione, alla Commissione e alla Corte di giustizia - la Corte dei conti; il TUE ha previsto istituzioni direttamente finalizzate alla creazione dell'Unione economica e monetaria (UEM); ha creato nuovi organismi e organi a carattere consultivo o ha formalizzato l'esistenza di quelli già sorti nella prassi comunitaria. Le modifiche più rilevanti sono state dettate dall'esigenza di conferire maggior democraticità ed efficienza al sistema giuridico comunitario e hanno riguardato soprattutto il Parlamento europeo, il quale col TUE vede allargati i suoi poteri normativi, grazie alla previsione della procedura detta di codecisione che lo associa ampiamente ai poteri decisionali del Consiglio; esso dispone inoltre del potere di sollecitare l'iniziativa legislativa della Commissione, primo passo verso il riconoscimento di una prerogativa peculiare dei parlamenti nazionali. Oltre a ciò, il ruolo del Parlamento europeo risulta potenziato, sotto l'aspetto del controllo democratico della vita comunitaria, oltre che dai meccanismi parlamentari tradizionali (interrogazioni, censura), dalla sua partecipazione al processo di designazione dei membri della Commissione (il cui mandato è stato pertanto elevato a cinque anni, al pari di quello dei membri del Parlamento europeo) e dall'introduzione di alcuni strumenti che lo rendono interlocutore privilegiato dei cittadini, quali il diritto di petizione (art.194 D Trattato CE) e il ricorso al Mediatore (art.195 E Trattato CE), una figura equivalente in sostanza all'ombudsman o difensore civico; questi, nominato dal Parlamento europeo per la durata della legislatura, è abilitato a ricevere denunce riguardanti casi di cattiva amministrazione nell'azione delle istituzioni e degli organi comunitari. L'equilibrio istituzionale è tuttavia rimasto sostanzialmente immutato: se la Commissione, dotata di maggiore legittimità democratica grazie all'investitura del Parlamento, riveste con più efficacia il suo ruolo di custode dei trattati, il Consiglio dell'Unione, pur restando il principale organo decisionale, vede diminuiti i suoi poteri non solo in misura corrispondente all'ampliamento dei poteri del Parlamento, ma soprattutto in ragione della sua sostanziale subordinazione al ruolo propulsore dello sviluppo dell'integrazione assegnato al Consiglio Europeo. Quest'ultimo, assistito per la politica estera e di sicurezza comunitaria (sola materia rimasta di pertinenza esclusiva dell'U. E.) dal Segretario generale della Presidenza con il ruolo di Alto rappresentante per la PESC, per ora è l'unica istituzione propria dell'U. E., che resta al di fuori del quadro istituzionale comunitario, anche se a esso collegato sia in virtù dell'obbligo di riferire al Parlamento europeo i risultati delle sue riunioni e i progressi compiuti dall'U. E., sia dal fatto che spetta al Consiglio e alla Commissione, nell'ambito delle rispettive competenze, attuare le politiche che più specificamente mirano ad assicurare la coerenza globale dell'azione esterna dell'U. E., cioè le politiche in materia di relazioni esterne, sicurezza, economia e sviluppo. Le istituzioni comunitarie sono pertanto messe a disposizione degli altri due pilastri su cui si fonda l'U. E., in una posizione peraltro più debole e con l'esclusione della Corte di giustizia, la quale però con il Trattato di Amsterdam assume alcune competenze di rilievo nell'ambito della PESC e soprattutto del terzo pilastro.
All'artificiosità della struttura dell'U. E., che ha reso il sistema comunitario ancora più sui generis di quanto non fosse originariamente, fa riscontro un'accentuazione della complessità dell'apparato normativo. Le modifiche e le integrazioni apportate nel tempo ai trattati istitutivi, comprese da ultimo quelle introdotte dal TUE, hanno reso più corpose e più elaborate le fonti primarie del diritto comunitario, mentre l'ampliamento e la diversificazione delle competenze ormai riassunte, seppure a diverso titolo, nell'U. E., generano una mole cospicua di fonti derivate, costituite non solo da un numero elevato di atti cosiddetti tipici (quali regolamenti, direttive e decisioni, anch'essi soggetti a reiterate modifiche), ma anche, in senso lato, da una serie innumerevole di atti di varia denominazione e spesso di difficile classificazione, che vanno dagli accordi internazionali della Comunità, alle norme complementari scaturite dagli atti convenzionali conclusi tra gli Stati membri ai fini dell'applicazione dei trattati, agli atti frutto della prassi delle istituzioni e diretti in genere a regolare l'attività istituzionale, alle dichiarazioni di varia natura, agli atti finali delle Conferenze governative, ai codici di condotta, alle azioni e posizioni comuni nell'ambito della PESC, alle posizioni comuni, decisioni-quadro e altre decisioni adottate nell'ambito del terzo pilastro. Né va trascurata l'importanza che hanno assunto i principi generali del diritto comunitario - le cosiddette fonti non scritte - individuati dalla Corte di giustizia per colmare le lacune dei trattati e da essa utilizzati sia come criteri di interpretazione delle norme comunitarie, sia come limiti di legittimità delle stesse: tra questi, vanno segnalati i principi che attengono al rispetto dei diritti fondamentali della persona, che la Corte ha ricavato, oltre che dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, dai trattati internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo; a essi il TUE (art. 6, nr. 2) fa esplicito riferimento, formalizzando la loro natura di principi generali del diritto comunitario e la competenza della Corte a verificarne il rispetto per quanto riguarda l'attività delle istituzioni (art. 46 lett. d del TUE).
Nell'intento di costruire un'Europa in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente e più vicino possibile ai cittadini, il TUE ha previsto che i cittadini e i residenti nell'Unione godano del diritto di accesso ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (art. 255 Trattato CE) e, in attesa di un'auspicata opera di consolidamento, ha dettato disposizioni per la semplificazione dei testi dei trattati comunitari e per la rinumerazione degli articoli degli stessi e del TUE. Gli obiettivi della trasparenza, nonché dell'efficienza delle azioni comunitarie ineriscono tuttavia anche all'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, che costituiscono oramai un limite esplicito al dispiegarsi dei poteri decisionali delle istituzioni comunitarie.
Come risposta all'esigenza di combattere la nascita di un'Europa accentratrice e burocratica e alla volontà di contribuire al rispetto delle singole identità nazionali, il TUE ha introdotto formalmente nel sistema comunitario (art.5 Trattato CE) il principio di sussidiarietà. In base a tale principio, l'intervento comunitario è da ritenere legittimo, oltre che in caso di perseguimento di obiettivi che rientrano nella competenza esclusiva della Comunità, anche nel caso in cui esso consenta di raggiungere l'obiettivo proposto in modo più soddisfacente di quanto conseguirebbe dall'azione dei singoli Stati membri. In entrambi i casi, tuttavia, l'intervento comunitario deve essere ridotto al minimo e risultare proporzionale all'obiettivo, in accoglimento della regola del 'minimo governo', che costituisce una remora giuridica agli eccessi di regolamentazione, i quali hanno nuociuto spesso alla democraticità e all'efficienza del processo decisionale comunitario. Sul piano normativo, tale concezione porta a privilegiare lo strumento della direttiva, nel suo originario significato di quadro di regole generali, rispetto al regolamento, al quale si dovrebbe ricorrere con sempre minore frequenza e comunque solo in presenza della necessità di stabilire regole uniformi.
Nella prospettiva di una decentralizzazione delle politiche comunitarie, il TUE ha previsto la creazione di un Comitato delle regioni (artt. 263-265 Trattato CE), organo a carattere consultivo, composto dai rappresentanti delle collettività regionali e locali, che è un primo passo verso il riconoscimento dell'aspirazione dei popoli europei alla preservazione delle loro diversità.
Il controllo dell'applicazione del diritto comunitario compete come sempre alla Commissione in quanto 'custode dei trattati'; a tal fine essa si avvale anche della possibilità di avviare procedure di infrazione, in ciò rafforzata dalla previsione nel TUE di nuovi poteri sanzionatori della Corte di giustizia nei confronti degli Stati inadempienti. A sua volta, la Corte, affiancata da un Tribunale di primo grado con una competenza ormai estesa a tutti i ricorsi diretti delle persone fisiche e giuridiche, tende ad assumere un ruolo simile a quello del giudice costituzionale e svolge con maggiore efficacia la sua funzione di supremo garante del diritto comunitario, sempre più coadiuvata dai giudici nazionali, cui i singoli si rivolgono per far valere i diritti derivanti dalle norme che li investono quali diretti destinatari. Ciò in conseguenza dell'eccezionale sviluppo che la Corte, al fine di rafforzare il primato del diritto comunitario, ha inteso dare al principio dell'efficacia diretta delle norme comunitarie, e in particolare delle direttive, quando siano chiare, precise e suscettibili di applicazione immediata.
Alla luce delle modifiche e delle innovazioni cui è andato incontro il relativo trattato istitutivo, appare chiaro che il polo centrale della costruzione europea è costituito dalla CEE, che con il TUE perde anche nel nome l'originaria vocazione economica e si trasforma in 'Comunità Europea'. Un'accentuata tendenza alla 'comunitarizzazione' di nuovi settori prima riservati agli Stati ha portato nel tempo la Comunità ad assumere funzioni che travalicano quelle proprie di un'organizzazione internazionale a carattere economico. Questo ampliamento di funzioni è stato riconosciuto in occasione della prima grande revisione dei trattati istitutivi attuata dall'Atto unico europeo e successivamente anche dal TUE, sicché la Comunità è ora investita di compiti in una serie di settori, inizialmente non previsti (ricerca e sviluppo tecnologico, istruzione, formazione, cultura, sanità, ambiente, protezione dei consumatori, coesione economica e sociale, reti transeuropee, energia, protezione civile e turismo, politiche in materia di visti, asilo, immigrazione, finalizzate al nuovo obiettivo dell'U. E. di creare progressivamente uno "spazio di libertà, sicurezza e giustizia", e in materia di occupazione), che riflettono le mutate esigenze della moderna società europea.
Il rafforzamento dell'integrazione economica resta un obiettivo prioritario della Comunità: allo scopo risponde innegabilmente la creazione dell'UEM (tit.vii Trattato CE), che, prefiggendosi, attraverso un'azione di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, di pervenire, al più tardi entro il 1° gennaio 2002, alla moneta unica (euro), si propone di consolidare il mercato interno e di sfruttarne meglio i potenziali vantaggi. Ma il TUE ha anche reso esplicito che l'assunzione di nuovi compiti incidenti sulla vita quotidiana dei cittadini ha determinato il passaggio a una concezione dell'integrazione in cui l'individuo si configura non più solo come soggetto economico, ma anche come membro di una società civile e politica: in tal senso appare significativa l'istituzione della cittadinanza dell'U. E. (artt. 17-22 Trattato CE) che, riconosciuta a tutti i cittadini degli Stati membri, conferisce loro, oltre al diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio dell'Unione, anche diritti politici, quali il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e a quelle del Parlamento europeo e perfino un embrionale diritto alla tutela diplomatica e consolare.
Da una lettura complessiva, quindi, le innovazioni del trattato istitutivo della Comunità, alla luce anche degli obiettivi e dei principi generali dell'U. E., sembrano prefigurare una progressiva trasformazione della stessa in una vera e propria unione europea coesa e solidale al suo interno, pur nel rispetto dell'identità nazionale degli Stati membri, e nel contempo capace di affermare la propria identità collettiva sulla scena internazionale. Il TUE (art. 6) ha già dettato i principi 'costituzionali' su cui deve fondarsi l'Unione: "libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto", definiti come principi "comuni agli Stati membri". Il rispetto di tali principi costituisce una condizione sia per l'ammissione all'Unione di nuovo Stati europei (art. 49 del TUE), sia per la piena conservazione del vincolo associativo. Infatti, in caso di grave e persistente violazione dei suddetti principi, gli Stati membri possono vedersi sospesi alcuni diritti derivanti dalla loro partecipazione all'Unione (art. 7 del TUE).
Tuttavia, sebbene appaia innegabile che il processo di costruzione europea vada orientandosi verso l'acquisizione di una dimensione politica, non risulta chiaramente decifrabile la forma istituzionale verso la quale è indirizzata l'integrazione: se cioè essa sia definitivamente avviata verso la creazione di un nuovo e diverso soggetto, sia esso un'unione di tipo federale o di tipo confederale, ovvero se risulti più opportuno privilegiare solo il rafforzamento del mercato unico per il tramite della cooperazione politica. Tutte queste opzioni sono state evidentemente tenute presenti dagli estensori del TUE, i quali, spinti dalla necessità di pervenire a un'unanimità di consensi, hanno ripiegato su una formula vaga di U. E., evitando di evocare esplicitamente la natura tendenzialmente federale dell'Unione. Tale obiettivo non è stato tuttavia accantonato, almeno in prospettiva: oltre all'accoglimento del principio di sussidiarietà, che costituisce la premessa per una ripartizione su basi federali dell'esercizio di sovranità tra U. E. e Stati, non mancano nel TUE altre manifestazioni della vocazione federale dell'U. E. (moneta unica, cittadinanza, politica estera e di sicurezza comune, principi generali dell'U. E.), anche se spesso sono presenti strutture e meccanismi che si ispirano alla tradizionale cooperazione internazionale.
Questo procedere non sempre lineare della costruzione europea rientra peraltro nella dinamica dell'integrazione, e del resto il TUE segnava per sua esplicita ammissione solo una "nuova tappa nel processo di creazione di un'unione sempre più stretta tra i popoli dell'Europa". Con il trattato di Amsterdam, che segna un'ulteriore tappa di questo processo, gli Stati membri dell'U. E., pur raggiugendo risultati inferiori alle aspettative, hanno tuttavia posto le nuove fondamenta per l'Europa del 21° secolo: occupazione, diritti dei cittadini, circolazione delle persone e sicurezza, ruolo dell'Europa sulla scena mondiale e miglioramento dell'architettura istituzionale sono i grandi temi attorno ai quali si misurerà la capacità dell'U. E. di rafforzarsi anche in vista del prossimo ampliamento.
Espressione in origine di sei Stati, l'ideale europeo è infatti oggi condiviso (in seguito a quattro successivi ampliamenti) da quindici Stati e la Comunità costituisce un polo di attrazione per numerosi altri paesi europei, che vi potranno aderire se dimostreranno di essere non solo in grado di applicare integralmente l'acquis comunitario, ma soprattutto di soddisfare i requisiti democratici ai quali si impronta l'edificazione dell'Europa. Se per un verso questa prospettiva, che nell'imminente coinvolge soprattutto i paesi dell'Est europeo, rappresenta un passo fondamentale nella costruzione di un'Europa riconciliata, pacifica e democratica dopo la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino, per un altro essa costituisce la grande sfida dalla quale dipende l'avvenire di una riedificazione geopolitica dell'Europa. È infatti diffusa la consapevolezza che, al fine di evitare i rischi di un processo decisionale più lento e complesso, nonché le difficoltà finanziarie derivanti dalle nuove azioni di solidarietà che andranno ad aggiungersi a quelle attualmente in corso, l'ampliamento dovrà essere preceduto da una riforma profonda delle istituzioni e del funzionamento dell'U. E.; in caso contrario, prevarrano le ragioni di quanti, più che all'unificazione politica, mirano a un'Europa frammentata, nella quale saranno cristallizzati i differenti gradi di sviluppo economico e sociale e in cui i vari Stati membri avranno la facoltà di selezionare il livello di integrazione che sono disposti ad accettare: la cosiddetta Europa à la carte, o a 'geometria variabile', che, seppure entro limiti circoscritti, è stata 'legittimata' dal trattato di Amsterdam con la previsione di norme (tit. VII TUE e art. 11 Trattato CE) sulla cooperazione rafforzata.
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