Unione Europea
di Sergio Romano
Unione Europea
sommario: 1. Introduzione. 2. L'Unione economico-monetaria e il Trattato di Maastricht. 3. Allargamento, approfondimento e Trattato di Amsterdam. 4. Dal Trattato di Nizza alla convocazione della Convenzione europea. ▭ Bibliografia.
1. Introduzione
La costruzione dell'Europa è un processo 'freddo' nel quale ogni passo in avanti richiede lunghe deliberazioni ed estenuanti patteggiamenti. La lentezza è fisiologica, inevitabile risultato delle particolari condizioni in cui il processo si svolge. Non esiste infatti un 'federatore', capace d'imporre la propria volontà ai soci, né esiste un imminente pericolo esterno di fronte al quale i paesi federati debbano mettere da parte le loro riserve e dimenticare il loro 'particulare'. Vi fu indubbiamente, negli anni della guerra fredda, una minaccia sovietica che occorreva affrontare con un fronte comune. Ma quella minaccia, anche se è stato spesso sostenuto il contrario, non ebbe l'effetto di favorire e accelerare l'integrazione; essa accentuò piuttosto la dipendenza dell'Europa dagli Stati Uniti e scoraggiò di fatto qualsiasi ambizione unitaria nei settori cruciali della politica estera e militare.
Non sorprende, quindi, che la macchina si rimetta in moto proprio nel momento in cui non esiste più la minaccia sovietica. Benché il processo sia ancora incompiuto e l'esito incerto, la fine della guerra fredda ha allentato i vincoli che legavano l'Europa agli Stati Uniti e ha schiuso prospettive che qualche anno prima apparivano ancora remote. Il processo rimane lento, faticoso, e la strada segue un percorso irregolare, fatto di curve, deviazioni e occasionali inversioni di marcia. Ma la caduta del muro di Berlino, il crollo dell'Impero sovietico e la disintegrazione dell'URSS hanno aperto nella storia dell'integrazione europea un capitolo nuovo. È quello che cercheremo di descrivere in queste pagine.
2. L'Unione economico-monetaria e il Trattato di Maastricht
Il prologo risale al giugno del 1989. Nel Consiglio europeo che si tenne allora a Madrid, il presidente della Commissione, Jacques Delors, presentò ai capi di Stato e di governo un rapporto sulla realizzazione dell'Unione economica e monetaria. Il progetto era nato nel 1970, quando la Comunità aveva affidato a un uomo politico lussemburghese, Pierre Werner, lo studio della propria unificazione monetaria. Ma quello studio era stato poi dimenticato per alcuni anni nei cassetti della Commissione. Ne era riemerso quando l'Europa, verso la metà degli anni ottanta, aveva cominciato a dare prova di maggiore dinamismo. Il rapporto del 'Comitato Delors' confermava alcune delle proposte avanzate dal 'Comitato Werner', indicava le condizioni necessarie alla realizzazione dell'Unione (convertibilità delle monete, liberalizzazione del movimento dei capitali, eliminazione dei margini di fluttuazione, tassi di cambio definitivamente fissi) e abbozzava un calendario. Il rapporto fu accolto bene. Ma Bino Olivi (v., 1998) nel suo libro L'Europa difficile osserva che dietro il plauso generale dei convenuti vi erano le riserve della Gran Bretagna e della Germania: la prima era pregiudizialmente contraria a un obiettivo che avrebbe fortemente intaccato la sua sovranità nazionale; la seconda era orgogliosa del marco, divenuto ormai simbolo della straordinaria rinascita tedesca dopo la fine della guerra, e temeva che la sua scomparsa avrebbe consegnato le sorti dell'economia nazionale nelle mani di governi che avevano spensieratamente gestito, negli anni precedenti, le finanze dei loro paesi. Nei mesi seguenti, tuttavia, la Germania cambiò bruscamente rotta e mise tutto il suo peso e la sua autorità al servizio della realizzazione del progetto. Quali fattori e considerazioni modificarono così drasticamente la posizione tedesca?
La causa fu la caduta del muro di Berlino. Nel corso dell'estate, mentre i leaders convenuti a Madrid rientravano nelle loro capitali, la storia registrò una forte accelerazione. I turisti della Germania Orientale che visitavano in quei mesi la Cecoslovacchia e l'Ungheria rifiutarono di rientrare nella Repubblica Democratica Tedesca (RDT) e chiesero alle ambasciate della Repubblica Federale il diritto di passare all'Ovest. Sopraffatti da un fenomeno che, nelle nuove circostanze politiche europee, non era più possibile reprimere con la forza, i governi di Praga e di Budapest aprirono le loro frontiere con i paesi occidentali e divennero così complici dello spontaneo 'referendum' con cui alcune migliaia di cittadini 'comunisti' votavano la sfiducia al proprio regime. L'episodio sembrava chiuso quando, agli inizi di ottobre, in occasione delle feste per il quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica Tedesca, scoppiò una seconda crisi. Incoraggiati dalla franchezza con cui Michail Gorbačëv criticò in quella occasione la politica di Erich Honecker, leader della RDT, i tedeschi dell'Est scesero nelle piazze per manifestare la loro insoddisfazione e presero d'assalto a Berlino il muro che separava i settori occidentali dal settore orientale. Gli avvenimenti provocarono, insieme all'apertura delle frontiere, una sorta di terremoto al vertice dello Stato comunista.
Fu questo il momento in cui Helmut Kohl, cancelliere della Repubblica Federale, intravide la prospettiva dell'unificazione. Alla fine di novembre, con un discorso che sbigottì l'Europa e cambiò il corso della sua storia, presentò al Bundestag un piano in tre tappe per l'annullamento della frontiera che aveva diviso per quasi mezzo secolo il popolo tedesco. Le reazioni più preoccupate furono quelle francesi. Il presidente François Mitterrand temette che l'unificazione della Germania avrebbe irrimediabilmente alterato gli equilibri europei e privato la Francia dell'egemonia morale di cui aveva goduto, per diritto di vittoria, nell'ambito dell'asse franco-tedesco. Il presidente francese capì, in altre parole, che quell'evento avrebbe restituito alla Repubblica Federale la sua completa sovranità, chiudendo il suo lungo dopoguerra. Egli prese allora due iniziative dirette a scongiurare, per quanto possibile, tale eventualità. Il 6 dicembre del 1989 andò a Kiev per incontrare Gorbačëv e il 20 dicembre visitò la Repubblica Democratica Tedesca. Ma l'incontro con il leader sovietico gli permise di constatare che l'URSS non si sarebbe opposta al disegno di Kohl, mentre il viaggio a Berlino Est fu soltanto una pietosa visita al capezzale di un moribondo.
Fra i due avvenimenti si tenne a Strasburgo, sotto la presidenza francese, un nuovo vertice europeo nel corso del quale fu tacitamente stretto il patto che avrebbe permesso i progressi degli anni seguenti. La Germania rinunciò alle riserve con cui aveva considerato sino ad allora le prospettive dell'Unione monetaria e i suoi partners affermarono di voler perseguire "il rafforzamento della situazione di pace in Europa", nella quale il popolo tedesco potesse ritrovare la sua unità tramite una libera determinazione. Fu deciso che si sarebbe aperto un negoziato per la revisione dei Trattati e che una conferenza governativa si sarebbe riunita sotto la presidenza italiana prima della fine del 1990 per fissare l'ordine del giorno. Gli inglesi cercarono di opporsi, ma furono messi in minoranza e dovettero accettare una prospettiva a cui erano tradizionalmente ostili. Come quello di Milano del giugno 1985, il voto di Strasburgo dimostrò che il principio dell'unanimità era stato ormai definitivamente scalfito. L'Europa fece un altro passo decisivo verso la propria integrazione.
Cominciò così nei mesi seguenti un grande dibattito sui temi che sarebbero stati verosimilmente affrontati a Roma e nelle successive conferenze intergovernative: architettura istituzionale dell'Europa, unione monetaria, politica estera e militare, solidarietà sociale. Emersero ancora una volta le vecchie distinzioni tra 'federalisti' e 'confederalisti', fautori di una politica estera comune e difensori della sovranità nazionale, sostenitori di un welfare State europeo e paladini del libero mercato. Si cominciò a parlare esplicitamente, in particolare, di unione politica, e il dibattito coincise con avvenimenti internazionali che coinvolgevano l'Europa e la sollecitavano a parlare con una voce sola: il crollo del sistema sovietico in Europa centro-orientale, la crisi del Golfo dopo l'occupazione irachena del Kuwait nella seconda metà del 1990, l'inizio della guerra nel gennaio dell'anno seguente, la disgregazione della Iugoslavia, la fine dell'URSS, la rottura dell'unità nazionale fra Cechi e Slovacchi.
Il momento delle decisioni arrivò a Maastricht, durante il vertice che si tenne sotto la presidenza olandese nel dicembre 1991. Sul progetto di Unione Monetaria vi furono intese concrete e specifiche: l'Unione sarebbe stata realizzata, al più tardi, il 1° gennaio 1999. Sugli altri problemi le intese furono molto meno impegnative. L'espressione "vocazione federale", con cui veniva descritto il futuro dell'Europa, fu soppressa. In materia di difesa comune prevalsero le tesi degli 'atlantisti', preoccupati dalla possibilità che i progressi in questo campo allentassero i legami con gli Stati Uniti. In materia di politica estera fu deciso che l'unanimità sarebbe stata necessaria soltanto per le questioni di "politica generale" e che le decisioni di applicazione, invece, sarebbero state adottate con un voto di maggioranza. Fu creata una "Unione Europea", ma le sue diverse funzioni sopravvissero sotto forma di 'pilastri' a cui corrispondevano gradi diversi di integrazione: l'economia e la moneta (in cui sarebbero confluite le tre comunità originali: CEE, CECA, EURATOM), la politica estera e di sicurezza comune, la collaborazione intergovernativa nelle questioni di polizia e giustizia. Fu solennemente proclamata l'esistenza di una cittadinanza europea, ma l'affermazione ebbe ancora, in quelle circostanze, un valore prevalentemente simbolico; furono inoltre ampliate, nel modo di cui diremo in seguito, le competenze del Parlamento europeo. Finalmente redatto in tutte le sue parti, il Trattato venne firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992.
Il risultato delle conferenze intergovernative fu ineguale, ma l'Unione Monetaria ha rappresentato senza dubbio, nella storia dell'integrazione europea, un avvenimento 'rivoluzionario'. Se ne ebbe la prova indirettamente quando ci si accorse, nei mesi seguenti, che essa suscitava forti resistenze e opposizioni. Interpellati con un referendum, i Danesi si pronunciarono contro la ratifica del Trattato e i Francesi lo approvarono di stretta misura. La Danimarca negoziò nuovi accordi e finì per ratificare il Trattato di Maastricht, ma ottenne, come la Gran Bretagna, il diritto di opt out, vale a dire la facoltà di non aderire alla moneta unica. Non basta. Una grave crisi monetaria, scoppiata nell'autunno del 1992, fu anche, per molti aspetti, il risultato del Trattato che era stato firmato qualche mese prima. Sapendo che l'Unione avrebbe costretto le economie dei paesi firmatari a convergere verso gli stessi parametri, i mercati finanziari constatarono che alcuni di essi (quelli con maggiori debiti e più alti tassi di inflazione) avevano di fronte a sé un cammino particolarmente arduo. Decisero di scommettere sulla loro debolezza e misero in opera tutte le loro batterie contro Francia, Italia e Gran Bretagna. La prima fu salvata dai massicci interventi della Banca Centrale Tedesca, le altre due dovettero uscire dal Sistema monetario (il patto che limitava fortemente la fluttuazione tra le divise europee) e svalutare drasticamente le loro monete.
Ma a queste manifestazioni di contrarietà e scetticismo si accompagnarono altri segnali, molto più incoraggianti. Alla fine del 1992 sette paesi (Lussemburgo, Grecia, Italia, Belgio, Spagna, Portogallo e Paesi Bassi) avevano già ratificato il Trattato di Maastricht. Il 1° gennaio 1993 entrò in vigore il Mercato Unico. Nel novembre dello stesso anno, ultimate ormai le procedure di ratifica, entrò in vigore il Trattato di Maastricht. Nel gennaio del 1994 fu creato l'Istituto Monetario Europeo, vale a dire l'organismo che avrebbe gestito la seconda fase dell'Unione Monetaria Europea e preparato l'avvento della Banca Centrale Europea. Nel frattempo cominciarono a Bruxelles i contatti preliminari e i negoziati con cinque paesi dell'Europa occidentale (Austria, Finlandia, Norvegia, Svezia e Svizzera) che avevano fatto domanda di adesione. In due di essi (Norvegia e Svizzera) gli elettori sconfessarono la decisione dei governi, ma Austria, Finlandia e Svezia entrarono ufficialmente nell'Unione il 1° gennaio 1995. Ormai avviata, la grande macchina dell'euro (come venne chiamata di lì a poco la moneta che avrebbe sostituito le valute nazionali) si attenne puntualmente al calendario deciso dai Consigli europei e preparò le numerose norme necessarie al cambiamento. A dispetto dell'opposizione di vari ambienti europei, dall'estrema sinistra all'estrema destra, gli obblighi previsti dal Trattato di Maastricht furono accettati con grande serietà ed ebbero da quel momento un'influenza decisiva sulla politica economica e finanziaria dei paesi che lo avevano firmato. Uno dei casi più interessanti fu quello dell'Italia.
La firma del Trattato di Maastricht coincise con l'inizio di una delle fasi più turbolente e imprevedibili della vita politica italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. La scoperta di alcuni episodi di corruzione dette il via a una serie di indagini giudiziarie che coinvolsero i maggiori partiti politici ed ebbero effetti devastanti soprattutto per quelli che fino ad allora avevano avuto responsabilità di governo. Fra le elezioni del 1992 e quelle del 1996 la Farnesina ebbe cinque ministri: Vincenzo Scotti dal giugno al luglio del 1992, Emilio Colombo sino alla fine del governo Amato, Beniamino Andreatta durante il governo Ciampi, Antonio Martino durante il governo Berlusconi e Susanna Agnelli nel governo di Lamberto Dini sino alle elezioni dell'aprile 1996. Alcuni di essi avevano esperienza di relazioni internazionali e il desiderio di riscattare, per quanto possibile, la pessima immagine che il paese aveva in quegli anni. Ma nessuno di essi ebbe il tempo e l'autorità per abbozzare le nuove linee della politica estera italiana dopo la fine della guerra fredda, e soprattutto per garantire ai partners europei che l'Italia si sarebbe risolutamente impegnata a correggere i dati del suo sistema economico più lontani dai parametri di convergenza del Trattato di Maastricht: disavanzo, debito pubblico, tasso d'inflazione, tassi d'interesse.
Quando il paese cominciò a uscire dalla sua lunga crisi e a dar prova di maggiore stabilità, il governo affrontò finalmente il problema dell'euro e della distanza che ancora separava l'Italia dai suoi partners. Divenuto presidente del Consiglio dopo le elezioni dell'aprile 1996, Romano Prodi sperò a tutta prima che i suoi colleghi avrebbero dato prova di una certa benevolenza e credette di poter contare sulla solidarietà della Spagna. Ma a Valencia, nel settembre di quell'anno, il primo ministro spagnolo José Maria Aznar gli fece presente che il suo paese era deciso ad adottare l'euro sin dal 1° gennaio 1999. Era sempre più evidente, al tempo stesso, che il maggiore partner dell'Unione, la Germania, temeva l'ingresso nel sistema monetario di un paese 'indisciplinato' e afflitto da alcuni gravi vizi politico-finanziari come l'Italia.
I segnali che giungevano in quei mesi dalla Repubblica Federale erano, per il governo italiano, particolarmente inquietanti. A Bonn stavano circolando nuovamente vecchie teorie sull'Europa 'a due velocità' e sulla necessità di un nucleo direttivo da cui l'Italia sarebbe stata esclusa. Fu quello il momento in cui Prodi dovette cambiare la sua strategia: aiutato da un ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, che era stato presidente del Consiglio prima delle elezioni politiche e governatore della Banca d'Italia negli anni precedenti, decise che anche l'Italia, come la Spagna, sarebbe stata fra i primi. Grazie a un rigoroso controllo della spesa pubblica e alla generale diminuzione dei tassi d'interesse, l'Italia poté superare l'esame di passaggio nel 1997 e adottare l'euro alla scadenza fissata dal Trattato. Ma i Tedeschi, nel frattempo, si erano premuniti contro indiscipline future. Tra il 1996 e il 1997 fu concordato e adottato il Patto di stabilità: un corpo di norme sugli obblighi di bilancio che i paesi dell'euro avrebbero dovuto rispettare dopo l'adozione della moneta unica e sulle ammende che avrebbero colpito eventuali inadempienti. Il 1° gennaio 1999 l'euro divenne quindi la moneta unica di Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna. Rimasero fuori di 'Eurolandia', come venne chiamata da allora l'area della moneta unica, i paesi che si erano riservati la facoltà di non aderire (Danimarca, Gran Bretagna, Svezia) e la Grecia che non era riuscita a rispettare i criteri di convergenza. Ma anche per la Grecia il traguardo dell'euro ebbe l'effetto di una benefica calamita: nei due anni seguenti il governo di Atene riuscì a risanare i propri conti e ottenne l'ammissione al club.
3. Allargamento, approfondimento e Trattato di Amsterdam
Mentre l'Europa avanzava con una sorta di testarda coerenza verso il traguardo dell'Unione Monetaria, il problema dell'allargamento era stato deliberatamente accantonato. La questione, come abbiamo detto più sopra, era sorta immediatamente dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi comunisti nell'Europa centro-orientale. La grande crisi del comunismo aveva restituito la sovranità ai paesi occupati dall'Armata Rossa negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, ma aveva risollevato problemi che la lunga egemonia sovietica aveva paradossalmente risolto. Quale sarebbe stata d'ora in poi la collocazione internazionale dei nuovi arrivati? Quale organizzazione avrebbe garantito la loro sicurezza? Chi li avrebbe aiutati a ricostruire le loro economie? Dietro ciascuna di queste domande si nascondeva un timore di cui i governi occidentali erano perfettamente consapevoli, ma del quale erano poco inclini a parlare con franchezza. Non bisogna dimenticare che i vecchi satelliti dell'URSS erano i 'paesi di Versailles', vale a dire gli Stati creati o rinati dopo la prima guerra mondiale a seguito del crollo del Reich tedesco, dell'Impero austro-ungarico e dell'Impero russo. Anche se la classe politica preferì non esprimersi in questi termini, i governi sapevano che gli Stati dell'Europa centro-orientale - con la loro insicurezza, il loro velleitarismo, l'arroganza con cui avevano trattato le loro minoranze - erano stati, insieme alla follia di Hitler, le cause della seconda guerra mondiale. E non potevano permettere che quelle schegge di imperi defunti divenissero, dopo la morte dell'Impero sovietico, la causa di nuove tensioni etniche e dispute di frontiera.
La crisi iugoslava, la secessione slovacca, le tensioni nel Baltico, in Transilvania e in Moldavia furono altrettanti segnali d'allarme. L'Europa non era allora in grado di dare una risposta soddisfacente alla domanda di sicurezza che proveniva dalla regione, ma doveva dimostrarsi pronta ad assumere qualche responsabilità per la soluzione dei suoi problemi economici e sociali. Questa esigenza, come sappiamo, fu particolarmente sentita dalla Germania, alla quale stavano a cuore in quel momento due obiettivi: estendere l'area della democrazia al di là delle sue frontiere orientali e mettere una sorta di ipoteca sui nuovi mercati che si sarebbero sviluppati in quei paesi. Sin dall'inizio degli anni novanta, quindi, il grande problema all'ordine del giorno, in ogni discussione sul futuro dell'Europa, fu l'allargamento.
Ma proprio la Germania, paradossalmente, ne pregiudicò le prospettive. Mentre si parlava di allargamento della Comunità ai paesi del vecchio blocco comunista, la Repubblica Federale si riunì alla Repubblica Democratica Tedesca, realizzando il proprio 'allargamento'. Nacque così nel 1990, fra i timori e i sospetti di molti, un colosso economico e demografico che avrebbe profondamente alterato gli equilibri dell'Europa comunitaria. Per tranquillizzare i suoi partners, il cancelliere Kohl, come sappiamo, giunse alla conclusione che soltanto un gesto, la rinuncia alla sovranità del marco, avrebbe dimostrato che la Repubblica Federale non aveva alcuna intenzione di sacrificare i suoi ideali europei alla prospettiva di un grande impero economico e politico tedesco in Europa centro-orientale. Da allora, come era inevitabile, i tempi dell'allargamento vennero interamente subordinati a quelli dell'approfondimento. Prima di iniziare i negoziati per l'adesione dei paesi ex comunisti occorreva che l'Europa digerisse la moneta unica e soprattutto evitasse, con alcune importanti riforme istituzionali, di divenire - dopo l'allargamento - ingovernabile.
Il secondo obiettivo si dimostrò ancora più complicato del primo. Il Trattato di Maastricht aveva disegnato tre pilastri, il primo dei quali raggruppava tutti i settori (libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, agricoltura, ecc.) sui quali hanno competenza le istituzioni comunitarie, mentre gli altri due (politica estera e di sicurezza, spazio giuridico) erano affidati in larga parte alla collaborazione intergovernativa. La soluzione dei problemi irrisolti veniva delegata a una nuova conferenza. La preparazione cominciò al Consiglio europeo di Corfù, nel giugno del 1994, si protrasse per due anni e produsse una serie di proposte che vennero esaminate alla conferenza intergovernativa di Torino nel marzo del 1996. Toccò ai Consigli europei successivi, in particolare a quello del giugno 1997, trasformare il grezzo materiale degli anni precedenti in un progetto di Trattato che fu firmato ad Amsterdam il 2 ottobre. Come ogni altra tappa dell'Unione Europea, anche questa può essere rappresentata come il bilancio di un'azienda e divisa in due colonne: i passivi e gli attivi.
I passivi furono subito evidenti. Per ammettere nuovi candidati occorreva restringere il diritto di veto dei paesi membri, ponderare i voti del Consiglio (ossia assegnare a ogni paese un numero di voti corrispondente alla sua importanza) e fissare il numero dei commissari nell'organo esecutivo dell'Europa allargata. Se ogni nuovo membro avesse avuto diritto a uno o due commissari, secondo i criteri seguiti per l'Europa a 15, la Commissione sarebbe divenuta una piccola assemblea. Ma su nessuno di questi problemi fu possibile raggiungere un accordo. Era chiaro, in quelle circostanze, che non era ancora possibile parlare concretamente di allargamento e che i candidati sarebbero rimasti ancora per qualche anno in sala d'aspetto.
Su altri punti, fortunatamente, fu fatto qualche progresso. La Corte di giustizia divenne competente per le materie previste dalla Convenzione europea sui diritti dell'uomo del 1950 e l'Unione ebbe così da allora un tribunale dei diritti umani e civili. Furono gettate le basi per un sistema che fu definito "cooperazione rafforzata" e che avrebbe permesso alla maggioranza dei membri del Consiglio europeo, in teoria, di avanzare da soli in settori in cui la minoranza non era disposta ad assumere impegni comuni. Fu rafforzato, a vantaggio del Parlamento europeo, il processo di "codecisione". Come ha osservato Olivi, "la regola della codecisione […] è pertanto ormai applicabile alla grande maggioranza delle procedure legislative" (v. Olivi, 1998, p. 499). In materia di politica estera i progressi furono modesti. Fu decisa la creazione di una 'Unità della pianificazione della politica e di allerta rapida' e venne creata una nuova figura istituzionale, l'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune; ma il 'signor PESC' - come venne popolarmente chiamato - è soltanto un alto funzionario, privo di qualsiasi reale autorità politica. Nelle crisi internazionali seguenti fu sempre presente con molta diligenza e buona volontà, anche se la sua impotenza ebbe paradossalmente l'effetto di rendere ancora più evidente la mancanza di una politica estera europea.
Nella colonna degli attivi occorre invece iscrivere la decisione di 'comunitarizzare' la cooperazione prevista dalla Convenzione di Schengen. La Convenzione era stata preceduta da un Accordo, firmato il 14 giugno 1985, con cui cinque paesi (Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi) si erano impegnati a ridurre gradualmente i loro controlli di frontiera sino a realizzare il libero movimento dei loro connazionali e di chiunque fosse entrato nell'area comune attraversando il confine di uno dei firmatari. L'Accordo era particolarmente importante per molte ragioni: aboliva la frontiera, vale a dire uno dei simboli più forti della sovranità nazionale; creava una frontiera comune in cui ogni forza di polizia avrebbe, in nome e per conto degli altri, controllato il suo vecchio tratto nazionale; era fondata sull'esistenza di un rapporto di piena fiducia tra i paesi membri; e affermava implicitamente il principio secondo cui alcuni paesi della Comunità avrebbero potuto procedere da soli sulla strada dell'integrazione. Ma una Convenzione 'a cinque', in una materia così delicata, affermava implicitamente che non tutti i soci della costruzione europea erano egualmente preparati ad amministrare insieme una frontiera comune.
Abolita nelle relazioni tra i cinque, la frontiera tra questi e gli altri diveniva in tal modo ancora più evidente. Fortunatamente negli anni seguenti l'area di Schengen si allargò sino a includere l'Italia (1990), la Spagna e il Portogallo (1991), la Grecia (1992), la Svezia, la Finlandia e la Danimarca (1996) e persino due paesi estranei all'Unione (Islanda e Norvegia). Restava fuori un grande paese, il Regno Unito, sempre ostile a qualsiasi perdita di sovranità e diffidente forse dei controlli che altri avrebbero esercitato in suo nome. Ma ad Amsterdam, come abbiamo detto più sopra, la Convenzione allargata divenne parte dell'Unione. Oltre a un mercato unico e a una moneta unica, l'Europa avrebbe avuto una frontiera unica. E grazie all'esistenza di una sola frontiera avrebbe dovuto affrontare e risolvere collegialmente altre questioni che stavano diventando negli anni novanta particolarmente delicate e urgenti: immigrazione, diritto d'asilo, lotta contro la criminalità organizzata. In questo spirito fu deciso che nei cinque anni seguenti sarebbe stato preparato un 'programma d'azione' per creare uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia.
Come era accaduto in altri appuntamenti importanti, il bilancio di Amsterdam fu quindi ineguale: qualche passo avanti, qualche delusione e molti rinvii a momenti più opportuni. Per camminare più speditamente lungo la strada dell'integrazione occorreva sopprimere il diritto di veto su alcune questioni cruciali. Ma per sopprimere il diritto di veto occorreva un accordo unanime. Prigioniera di questa contraddizione, l'Europa era costretta a procedere con lentezza. Esisteva ormai, tuttavia, una logica dell'integrazione che agiva da sola, indipendentemente dalla volontà dei governi e dalle formali delibere del Consiglio europeo. Se ne ebbe la prova, dopo Amsterdam, in due circostanze: la rivolta del Parlamento europeo contro la Commissione Santer e le sanzioni inflitte all'Austria dopo l'ingresso nel suo governo di un partito considerato nazionalista e xenofobo.
La nomina di Jacques Santer alla presidenza della Commissione era stata laboriosa. La Germania avrebbe preferito il primo ministro belga, Jean-Luc Dehaene. Ma il premier britannico John Major vedeva in lui il continuatore della politica federalista di Delors e oppose il suo veto. Fu necessario convocare una nuova riunione del Consiglio europeo a Bruxelles il 15 luglio 1994, e la scelta cadde su Jacques Santer, primo ministro del Lussemburgo. Fu il primo presidente della Commissione che dovette, all'inizio del suo mandato, conformarsi alle nuove regole fissate con il Trattato di Maastricht e presentarsi di fronte al Parlamento europeo per ottenerne il consenso. La fiducia fu accordata, ma il Parlamento dava ormai segni di crescente irrequietezza. Mentre i suoi poteri erano, grosso modo, quelli del Reichstag nella Costituzione della Germania guglielmina, l'Assemblea di Strasburgo avrebbe voluto essere la Camera dei deputati di un regime parlamentare. La prima vittima di queste ambizioni frustrate fu per l'appunto Santer.
La crisi scoppiò quando si sparse voce che alcuni commissari, fra cui in particolare un ex primo ministro francese (Edith Cresson), avevano fatto un uso improprio e personale dei fondi assegnati al loro ufficio. Contro la Cresson e un commissario spagnolo, Manuel Marin, cominciarono a circolare accuse di frode e nepotismo. Vi fu un dibattito parlamentare nel corso del quale Santer poté evitare il voto di sfiducia, ma dovette accettare la costituzione di un comitato d'indagini. Il comitato presentò un rapporto che confermava i peccati dei commissari inquisiti e il Parlamento, desideroso di farsi vedere e sentire, decise che avrebbe votato, come era nei suoi diritti, una mozione di sfiducia. Per evitare il voto l'intera Commissione si dimise. Era il marzo del 1999. In settembre un nuovo presidente, Romano Prodi, si presentò con i suoi commissari di fronte al Parlamento e ne ottenne il consenso. La causa della crisi fu tutto sommato modesta, ma l'episodio dimostrò che sarebbe stato imprudente, d'ora in poi, ignorare gli umori e la volontà del Parlamento.
Il caso austriaco scoppiò qualche mese dopo e coinvolse il Consiglio europeo. Alle origini della vicenda vi fu lo straordinario successo elettorale (26,9%) del Freiheitliche Partei Österreichs alle elezioni politiche del novembre 1999. Il partito era guidato da un uomo politico, Jörg Haider, che aveva la reputazione di essere nazionalista, xenofobo e, secondo alcuni, addirittura filonazista. Quando i cristiano-democratici di Wolfgang Schüssel decisero di allearsi con lui per formare un governo di coalizione, i maggiori leaders europei manifestarono disapprovazione e indignazione. Con il Trattato di Amsterdam, due anni prima, era stato deciso che il Consiglio europeo avrebbe avuto il potere di constatare all'unanimità "la violazione grave e persistente dei diritti dell'uomo da parte di uno Stato membro" ed eventualmente di sospenderlo (con voto a maggioranza) dall'esercizio di alcuni diritti previsti dai Trattati.
Con l'Austria non si arrivò a tanto, ma l'Unione la 'punì' con alcune sanzioni prevalentemente simboliche che furono applicate dal febbraio al settembre del 2000. Come l'offensiva del Parlamento di Strasburgo contro la Commissione era stata motivata soprattutto dal desiderio di esercitare maggiori poteri, così le sanzioni all'Austria furono provocate dalle particolari convenienze politiche ed elettorali degli altri governi. Nessuno dei due casi, quindi, poteva considerarsi un impeccabile precedente europeo, un esempio positivo del modo in cui l'Unione avrebbe funzionato non appena fosse riuscita a emergere dal limbo confederale e intergovernativo in cui aveva lungamente vissuto. Eppure, ciascuna delle due vicende dimostrava che il processo d'integrazione stava producendo interessi collettivi e atteggiamenti transnazionali.
Lo stesso può dirsi della politica estera comune. L'Unione non aveva ancora un vero ministro degli Esteri e la sua forza di pronto intervento (circa 60.000 uomini) non sarebbe stata pronta prima del 2004. Ma non sarebbe giusto affermare che l'Unione non avesse una riconoscibile posizione internazionale.
Nelle grandi questioni - dall'Afghanistan alla Palestina, dall'Iraq all'Iran, dalla politica ambientale al Tribunale penale internazionale - vi era spesso un orientamento europeo, più cauto e conciliante di quello statunitense, che il mondo conosceva e di cui doveva, entro certi limiti, tenere conto. La lunga guerra civile europea del XX secolo e le ultime esperienze coloniali (la spedizione di Suez, la guerra d'Algeria, la perdita delle colonie portoghesi) avevano profondamente modificato la percezione che l'Europa aveva dei conflitti. Anche se i suoi arsenali fossero stati pieni, i governi avrebbero dovuto tener conto di un'opinione pubblica prudente, ostile in linea di principio alle prove di forza e favorevole a un'estensione delle regole del diritto internazionale in materia di giustizia e uso della forza. Ma per affermare questi orientamenti mancavano ancora gli strumenti necessari: un corpo diplomatico, una forza militare, uno Stato maggiore integrato. L'Europa sapeva quel che voleva, ma non aveva ancora i mezzi per raggiungere i suoi obiettivi.
4. Dal Trattato di Nizza alla convocazione della Convenzione europea
L'esame delle finanze nazionali per il passaggio all'euro ebbe luogo alla fine del 1997, la moneta unica fu adottata, come previsto dal Trattato di Maastricht, nel gennaio del 1999 e sostituì le valute nazionali nelle tasche dei cittadini europei il 1° gennaio del 2002. Nasceva così una grande area monetaria composta da Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna, a cui si unì successivamente la Grecia. Ne rimasero fuori Danimarca, Regno Unito e Svezia, vale a dire i paesi che maggiormente esitavano ad abbandonare la loro sovranità monetaria e che potevano comunque vantare alcune delle principali caratteristiche previste dai Trattati: un bilancio vicino al pareggio, una moneta stabile, un debito pubblico tollerabile. Ma nessuno di essi aveva definitivamente voltato le spalle all'euro. Volevano anzitutto verificare il funzionamento del nuovo sistema ed essere certi che l'adesione non si sarebbe scontrata con l'opposizione delle loro pubbliche opinioni.
Al momento dell'introduzione dell'euro, nel gennaio del 1999, fu deciso che il valore della nuova moneta sarebbe stato pari a un dollaro e 17 centesimi. Nei mesi seguenti l'euro perdette progressivamente valore, scendendo al di sotto degli 80 centesimi, per risalire sino alla parità nell'estate del 2002. La svalutazione se per un verso dimostrava che la nuova moneta non riscuoteva ancora la piena fiducia dei mercati internazionali, per un altro favorì le esportazioni europee verso l'area del dollaro in un momento in cui l'economia europea attraversava una fase di stasi.
L'avvento dell'euro costrinse i membri dell'Unione ad affrontare finalmente il problema dell'allargamento. L'attesa era stata lunga, ma il tempo, fortunatamente, non era andato perduto. Alcuni paesi (soprattutto la Polonia, l'Ungheria e la Repubblica Ceca) impiegarono gli anni Novanta a digerire una buona parte dell'acquis communautaire, vale a dire quell'enorme corpus di norme che i soci dell'Europa avevano progressivamente accumulato nel corso degli anni precedenti. Si è così assistito, grazie alla prospettiva dell'adesione, a una considerevole trasformazione di alcune economie dell'Europa centro-orientale. Non è tutto. Benché l'Unione non fosse ancora in grado di accogliere i candidati, la prospettiva dell'adesione ebbe un effetto salutare anche sull'evoluzione politica dei loro regimi e della loro politica estera. Quelli che avevano ereditato dal passato vecchie beghe territoriali o conflitti di minoranze capirono che l'Unione non li avrebbe accolti se non avessero prima cercato di risolvere i loro problemi con 'spirito europeo'. L'Ungheria e la Romania, in particolare, riuscirono a impedire che il problema degli Ungheresi di Transilvania (circa due milioni di persone, più dell'8% della popolazione romena) divenisse occasione di nuove dispute.
L'allargamento prevedeva un calendario: entro il 2004 sarebbero entrati nell'Unione Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. Negli anni seguenti, secondo scadenze non ancora definite, sarebbe stato il turno di Bulgaria, Romania, 'Slavi del sud' e, con qualche incertezza in più, Turchia. Come vedremo in seguito, nel dicembre del 2000 si decise a Nizza quale sarebbe stato, nell'Europa allargata, il peso elettorale di ogni membro, vecchio e nuovo. Ma il tempo trascorso e le mutate condizioni hanno cambiato considerevolmente il contesto politico ed economico. Finalmente affrontato, il problema dell'allargamento coincise sfortunatamente con circostanze alquanto diverse da quelle dei primi anni Novanta.
È cambiato anzitutto il clima politico. La necessità di rispettare i criteri di convergenza ha rallentato la crescita delle economie dell'Unione, il patto di stabilità ha fortemente limitato la sovranità finanziaria dei singoli Stati e l'introduzione della moneta unica ha avuto qualche effetto inflazionistico. Queste e altre preoccupazioni (fra cui, in particolare, il problema della libera circolazione dei lavoratori) hanno creato un'area di 'euroscetticismo' che si è andata progressivamente allargando. Tutti i governi, persino quelli che in passato avevano dato prova di maggiore europeismo, hanno cercato di conservare ciò che ancora resta della loro vecchia sovranità. Non sono stati rimessi in discussione né il Trattato di Maastricht né il processo d'integrazione europea, ma si è guardato con preoccupazione, pur senza dirlo esplicitamente, all'arrivo di nuovi membri.
Accanto alle difficoltà economiche e agli oneri finanziari esistono poi le difficoltà istituzionali. Il Trattato di Amsterdam, come abbiamo visto, non è riuscito a sciogliere i nodi più intricati e li ha rinviati a un Trattato successivo, negoziato negli anni seguenti e approvato dalla Conferenza intergovernativa di Nizza nel dicembre del 2000, vale a dire pochi giorni prima che l'euro venisse finalmente usato dai cittadini dell'Unione. Anche per questo nuovo Trattato, come per quello di Amsterdam, conviene dare un'occhiata alla colonna degli attivi e dei passivi.
A Nizza si è concordata, in previsione dell'allargamento, una nuova ripartizione dei seggi al Parlamento europeo ed è stato deciso che il numero massimo dei deputati sarebbe stato 732. Per raggiungere lo scopo ogni vecchio membro, a parte la Germania e il Lussemburgo, ha dovuto acconsentire a una riduzione della propria deputazione. Avremo così un'Assemblea in cui il maggiore gruppo parlamentare nazionale (quello tedesco) sarà composto da 99 parlamentari e quello più piccolo (Malta) da 5. Sono state fissate nuove regole per il voto a maggioranza, è stato assegnato ai vecchi e ai nuovi membri un voto ponderato ed è stato ridotto il numero delle materie per cui vale ancora il criterio della unanimità. Nella prossima Commissione (quella che entrerà in funzione agli inizi del 2005) ogni Stato, piccolo o grande, avrà un solo membro. Il suo presidente verrà designato con voto a maggioranza dal Consiglio europeo, ma entrerà in carica soltanto dopo essere stato approvato dal Parlamento di Strasburgo e potrà organizzare i lavori della Commissione con maggiori poteri di quanti ne avessero i suoi predecessori. È stato rivisto, con qualche utile modifica, il funzionamento delle altre istituzioni: Tribunale di prima istanza, Corte di giustizia, Corte dei Conti, Banca Centrale Europea, Banca Europea degli Investimenti, Comitato economico sociale, Comitato delle regioni. E dopo l'approvazione del Trattato la Conferenza intergovernativa ha approvato una Carta dei diritti fondamentali che cerca di definire i caratteri civili, sociali e religiosi della cittadinanza europea.
Alcuni di questi progressi, tuttavia, sono soltanto apparenti.
Per tenere conto dei nuovi arrivati la Conferenza di Nizza, come abbiamo visto, ha cambiato il sistema utilizzato finora per le votazioni a maggioranza qualificata (Vmq). Ma Lorenzo Bini Smaghi, in un saggio sul costo dell'allargamento, osservava che "il nuovo trattato […] ha addirittura reso più stringenti i requisiti per il raggiungimento della maggioranza. Un esempio: il Vmq è stato esteso all'area dei fondi strutturali, ma non prima del 2007, garantendo quindi un potere di veto ai paesi che entreranno prima di quella data, il che in pratica impedirà qualsiasi riforma" (v. Bini Smaghi, 2002, pp. 104-105). Dopo avere fatto un certo numero di simulazioni, alcuni studiosi sono giunti alla conclusione che in una Unione composta da 27 membri la "probabilità di approvazione di una norma al Consiglio europeo sarebbe del 2,1%" (ibid., p. 105; attualmente è dell'8,2%) e ne hanno tratto la convinzione "che solo un sistema a maggioranza semplice, sia in termini di voti che di popolazione, garantirebbe un'elevata efficienza decisionale, indipendentemente dal numero dei paesi". Per altri aspetti della politica comune, infine, il Trattato ha confermato le tradizionali diffidenze e difficoltà con cui i membri affrontano i temi più delicati della sovranità nazionale. In materia di sicurezza e difesa, ad esempio, i progressi fatti a Nizza sono stati modesti (è stata approvata una relazione della presidenza del Consiglio che prevede in particolare lo sviluppo delle capacità militari dell'Unione e la creazione di strutture politiche e militari permanenti); ma questa prudenza non ha impedito che l'opinione pubblica irlandese vedesse nel Trattato una minaccia alla neutralità del paese e si pronunciasse con un referendum contro la sua ratifica.
Anche il Trattato di Nizza, quindi, non ha dato una risposta soddisfacente ai molti problemi che l'Unione avrebbe dovuto affrontare nel corso del primo decennio di questo nuovo secolo. Dal metodo pragmatico e funzionale con cui l'Europa si è andata progressivamente integrando è emersa una costruzione 'a domino', formata da istituzioni nate in momenti diversi e priva di qualsiasi armonia costituzionale. Ogni problema è stato risolto con la stipula di un trattato e la creazione di un organo. Ma ogni soluzione ha creato problemi nuovi e messo in evidenza i molti vuoti che restano da riempire. Occorre, in altre parole, una costituzione. Il tema era già stato discusso due anni prima di Nizza, quando il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer aveva pronunciato un discorso alla Humboldt Universität di Berlino sull'architettura istituzionale di un'Europa federale: ora tale discorso è divenuto finalmente attuale.
La parola 'costituzione' suscita il sospetto dei paladini delle sovranità nazionali ed è stata sostituita con espressioni meno impegnative come "semplificazione dei Trattati". Ma i governi hanno compreso che le disposizioni adottate a Nizza non avrebbero salvato l'Unione, dopo l'arrivo di nuovi soci, dal rischio della ingovernabilità. Al Consiglio europeo di Laeken, nel dicembre del 2001, si è quindi raggiunto un accordo sulla necessità di una Convenzione alla quale affidare il compito di fare proposte per la riforma del sistema europeo: composta da 125 membri - in rappresentanza del Parlamento europeo, della Commissione, dei governi e dei parlamenti dei paesi membri e degli Stati candidati - la Convenzione ha iniziato i suoi lavori nella primavera del 2002 e ha presentato le sue proposte nel luglio del 2003. Le scelte definitive tuttavia saranno adottate da una nuova conferenza intergovernativa. Il calendario prevedeva che il testo della Carta fosse approvato prima delle elezioni europee del 2004. Alla presidenza della Convenzione è stato nominato un ex presidente della Repubblica francese, Valéry Giscard d'Estaing, e alla vice presidenza due ex presidenti del Consiglio: l'italiano Giuliano Amato e il belga Jean-Luc Dehaine. Benché la parola 'costituzione' sia prudentemente assente da qualsiasi documento ufficiale, Giscard d'Estaing non ha esitato a pronunciarla e in uno dei suoi primi interventi si è spinto sino a fare un confronto con la Convenzione americana che nel 1787 scrisse a Filadelfia la Costituzione americana. In un'altra circostanza ha sostenuto che l'approvazione della Carta avrebbe avuto l'effetto di rendere ormai vecchie e inutili alcune delle misure adottate dal vertice di Nizza.
Sembrava conclusa ormai la lunga fase nel corso della quale l'Europa aveva deliberatamente rifiutato di iscrivere i suoi progressi in una chiara cornice istituzionale. Ma alcune parti del testo proposto dalla Costituzione (fra cui, in particolare, quella sul tipo di maggioranza ponderata necessaria per le procedure di voto) hanno suscitato l'opposizione di alcuni paesi e provocato uno stallo che è stato superato, con un compromesso, soltanto nella primavera del 2004. Dopo la firma a Roma, nell'ottobre dello stesso anno, il Trattato costituzionale richiedeva la ratifica dei parlamenti o, nei casi in cui veniva preferita la formula dei referendum popolari, dei popoli dei 25 membri dell'Unione. Se la Costituzione verrà ratificata da tutti, esisterà nel mondo una entità nuova che, come ha sostenuto Giovanni Bognetti (v., 2001), non potrà definirsi né totalmente confederale né compiutamente federale. Ma se alcuni paesi mancheranno all'appello della ratifica, gli altri dovranno decidere se accontentarsi del Trattato di Nizza o adottare le formule delle 'cooperazioni rafforzate' fra gli Stati pronti a fare insieme progressi più decisivi. Si formerebbe così, all'interno di una stessa larga cornice istituzionale, un gruppo più piccolo, ma più ambizioso, erede di quello che aveva cominciato a percorrere, mezzo secolo prima, la strada dell'unità.
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