Unione Europea
La crisi
Nei primi anni del 21° sec. si è manifestata nell'Unione Europea (UE) una forte crisi politica, alla cui base debbono essere posti anzitutto i quattro storici avvenimenti dell'ultimo decennio del Novecento: la caduta del sistema sovietico nel blocco orientale; il riallineamento strategico degli Stati dell'Est europeo; l'accelerarsi dei processi di globalizzazione; l'inizio dello sviluppo sostenuto di vaste aree povere.
Tali avvenimenti hanno modificato le basi stesse su cui si era innestato per quattro decenni il processo di integrazione europea, in quanto hanno annullato la minaccia sovietica sulla parte occidentale del continente, trasformato la condizione dell'economia, reso mondiali i mercati e determinato la riunificazione della Germania. Essi hanno portato, quindi, sia all'interruzione del percorso compiuto dall'Europa verso forme più intense di unità politica (v. europeismo), sia alla revisione di molte concezioni affermatesi nella seconda metà del 20° sec. circa il ruolo e le prospettive del continente (v. europa). La UE si presenta come una civile e democratica area di libero scambio, di sicura e pacifica convivenza, di larga integrazione monetaria, non priva di squilibri ma nel complesso economicamente ricca e socialmente più avanzata di ogni altra area del mondo. Allo stesso tempo, però, essa è caratterizzata da rilevanti difficoltà politiche ed economiche, che hanno scosso la sua coesione e fermato il suo lungo cammino, dalla limitata Comunità del carbone e dell'acciaio del 1951 ai trattati di Maastricht del 1992 e di Amsterdam del 1997: gli atti, cioè, dai quali è derivata l'introduzione dell'euro come moneta unica, realizzatasi il 1° gennaio 2002, e l'estensione delle funzioni e dei campi di competenza della UE in direzione della politica estera, di sicurezza e di difesa, nonché dello spazio giuridico europeo.
La crisi della UE è stata connotata da tre momenti, intrecciatisi fra loro con effetti moltiplicativi. Il primo è costituito dal suo ristagno economico, intervenuto a partire dal 2000 (cui ha fatto seguito a partire dal 2006 l'inizio di una moderata ripresa), il secondo dal suo ampio allargamento, sancito nel 2003 dal Trattato di Atene, il terzo dalla caduta della sua nuova Costituzione, nel 2005.
Il ristagno economico
La fase di stagnazione economica può dirsi essenzialmente dovuta alla difficoltà di adeguare la struttura del modello produttivo europeo alle nuove esigenze poste dalla globalizzazione. La perdita di competitività di molte imprese e l'accresciuta difficoltà di esportare beni di media tecnologia sono state così, accanto alla rigidità del mercato del lavoro, tra i fattori principali della stagnazione, cui si sono aggiunti motivi peculiari alla condizione di ciascun Paese, nonché il rallentamento dellstatunitense. Per suo conto, la Banca centrale europea (BCE), nel perseguimento del suo primario obiettivo, la stabilità dei prezzi, e forse nella convinzione di essere di fronte a una questione strutturale più che a un problema di espansione monetaria, non ha potuto o voluto fare di più che decidere una limitata riduzione dei tassi di interesse. In effetti, dove minore è stato lo sforzo di riforma degli assetti economico-sociali, maggiore è stato il ristagno: così in Francia, in Germania, in Italia. È in questi Paesi del 'nucleo forte', più che in altri, che si sono evidenziati i mali presenti in buona parte della UE: riduzione del tasso di sviluppo, crescita dei deficit di bilancio, ampia disoccupazione, forte disagio sociale.
Inoltre, uno degli effetti assai significativi della fase di stagnazione economica è stato quello di rendere evidente la compresenza nella UE, sotto un profilo non formale ma reale, di tre diverse aree, con diversi problemi economico-sociali e differenti indirizzi politici.
Nella prima si possono collocare i Paesi del nucleo forte, stabilizzati da mezzo secolo di sviluppo economico e di protezione sociale (non disgiunti tuttavia dalla formazione di assetti poco flessibili e di gruppi 'esclusi'), ma caratterizzati da ridotta competitività, modesto tasso di sviluppo, e limitata energia creativa. Si tratta di quelle nazioni che più decisamente operarono, in passato, per l'unità europea; ma anche di quelle nelle quali la condizione economica deteriorata ha favorito il manifestarsi di tendenze nazionalistiche e protezionistiche, e con esse la riluttanza a ulteriori cessioni di sovranità e a nuovi impegni finanziari a favore della UE.
Appartengono a una seconda area le nazioni ex comuniste dell'Europa orientale, oramai protese in direzione di un ordine democratico europeo. Sono Paesi risoluti a uscire dalle difficoltà materiali, ricchi di energie e di spirito d'iniziativa, ostili a vincoli e dirigismi. Essi hanno aderito alla UE non tanto per realizzare una costruzione sovranazionale quanto per assicurarsi uno strumento di democrazia, di modernizzazione e di sviluppo. Possono inoltre accomunarsi alle nazioni ex comuniste, sotto il profilo dello sprigionamento di forze vitali e della volontà di crescita economico-sociale, i Paesi dell'Europa meridionale usciti nel corso degli anni Settanta da esperienze di tipo fascista o autoritario: Spagna, Portogallo, Grecia.
Infine, una terza area è costituita dai Paesi nordici. Gran Bretagna, Irlanda, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia, Finlandia hanno ottenuto in effetti successi rilevanti proprio sul difficile terreno della riforma economico-sociale. Sono in tal modo riusciti ad assicurarsi, allo stesso tempo, competitività, sviluppo economico, protezione sociale, limitata disoccupazione, infine bassa inflazione, creando un modello che ha ridotto, e talora annullato, gli effetti della fase di stagnazione.
Differenze fra le tre aree
Le differenze fra queste tre aree non si limitano al terreno economico e sociale ma si estendono a quello politico, e sono in gran parte il risultato della loro diversa storia. Le nazioni del primo gruppo sono state infatti marcate nel Novecento da più o meno lunghe ma sempre traumatiche esperienze fasciste, e poi, a partire dal secondo dopoguerra, da una vita democratica fondata principalmente su coalizioni politiche moderate e concezioni sociali solidaristiche. Al contrario, l'area nordica è stata dominata da concezioni e istituzioni di carattere democratico-liberale; e in essa la sinistra, rappresentata dai partiti socialdemocratici, ha avuto un ruolo politico, una funzione di governo nonché un impatto sociale sconosciuti al resto dell'Europa, giovandosi anche di una accountability e di un costume politico rigoroso che hanno rappresentato elementi portanti di quel modello di società. Del tutto differente da entrambe queste aree è stata la storia dei Paesi dell'Europa centro-orientale, i quali nel Novecento sono stati dapprima caratterizzati da instabilità politica e da esperienze non democratiche, e sono stati poi dominati per quarant'anni dalla dittatura comunista, che li ha segnati sotto tutti i profili.
Sulla base di questi retroterra diversi tra loro, differente è stata nelle tre aree la concezione dell'unità europea, lungo un ampio raggio che va dall'originario integrazionismo a sfondo 'federalista' (v. federalismo) a una visione sostanzialmente 'libero-scambista'. Non meno differenti sono state altresì le posizioni sui principali problemi di politica estera. In particolare, il rapporto con l'unica superpotenza mondiale rimasta sulla scena, gli Stati Uniti, in genere considerato importante nei Paesi della UE, è ritenuto addirittura di interesse vitale da quelli ex comunisti, perché ne dipende la loro stessa garanzia di sicurezza internazionale. Al contrario, l'asse franco-tedesco, che più volte ha profondamente influenzato l'insieme della UE, si è venuto contraddistinguendo dopo il Duemila per un indirizzo non solo distinto da quello degli Stati Uniti ma anche di contrappeso politico a essi.
Il momento topico di tale diversità di impostazioni si ebbe all'inizio del 2003, sulla questione dell'Irāq, quando l'Europa si divise (anche con differenti documenti politici) in due schieramenti contrapposti: l'uno, contrario alla strategia statunitense, composto da Francia e Germania, e appoggiato fuori della UE dalla Russia; l'altro, di sostegno alla posizione degli Stati Uniti, formato da Gran Bretagna, Danimarca, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Spagna, Portogallo e Italia. Collimante con questa seconda posizione fu inoltre un documento di cinque Paesi ex comunisti, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania e Slovenia, ai quali si associarono anche Croazia, Macedonia e Albania. Successivamente, tuttavia, l'asse franco-tedesco si è scomposto a seguito delle elezioni in Germania dell'autunno del 2005. Esse hanno visto la caduta del governo socialdemocratico-verde diretto da G. Schröder, che è stato sostituito da una 'grande coalizione' guidata dalla leader cristiano-democratica A. Merkel e ispirata da una visione internazionale più equilibrata. In Francia, dopo le elezioni della primavera del 2007, sembra egualmente destinata a prevalere una linea diversa da quella di taglio nazionalista e protezionista del presidente J. Chirac. A sua volta la Spagna, dopo la vittoria dei socialisti di J.L.R. Zapatero alle elezioni del marzo 2004, sulla questione irachena ha abbandonato l'orientamento del precedente governo (diretto dal leader del Partito popolare J.M. Aznar), assumendo una posizione di distacco, anche se non di ostilità, rispetto agli Stati Uniti. In Italia, egualmente, le elezioni politiche dell'aprile 2006 hanno rovesciato la coalizione di centrodestra e portato alla vittoria quella di centrosinistra, guidata dall'ex presidente della Commissione europea, R. Prodi. Nel quadro politico europeo si delineano così nuove prospettive, il cui punto d'approdo sembra dipendere soprattutto dall'incisività dei nuovi indirizzi della Germania e dallo sviluppo delle tendenze multilateraliste affiorate negli Stati Uniti durante il secondo mandato del presidente G.W. Bush.
L'ingresso delle nazioni ex comuniste nella Unione Europea
L'ampio 'allargamento a est' della UE rappresenta il secondo elemento chiave della condizione europea. Nel maggio del 2004, a seguito del Trattato di Atene, gli Stati membri sono passati da 15 a 25: dei 10 nuovi membri, ben 8 sono nell'Est europeo (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania), e 2 nel Mediterraneo (Malta e Cipro). La popolazione della UE è passata così da 378 a 452 milioni, presentando un incremento di oltre il 19%. Il suo prodotto interno lordo, a parità di potere di acquisto, è cresciuto del 9%, vale a dire di 831 miliardi di euro. Il reddito pro capite è invece diminuito dell'8,7%, passando da circa 24.000 euro a 21.910 (dati 2002; per gli 8 Paesi dell'Est era di 11.150 euro).
Le ragioni che hanno motivato l'allargamento della UE - proseguito nel 2007 con l'ingresso di Romania e Bulgaria - sono principalmente di carattere internazionale, e si riassumono nella necessità, subito dopo la caduta dell'egemonia sovietica, di organizzare su basi molto solide, politicamente democratiche ed economicamente non stataliste, la vasta area che confinava con l'Europa 'a 15' e che era diventata a serio rischio di destabilizzazione. Queste stesse ragioni sono addotte nel caso degli altri Stati per i quali si sono iniziati i negoziati di adesione, Macedonia, Croazia e Turchia, sebbene per quest'ultima si siano manifestate vive resistenze in più Stati della UE. Peraltro, il fatto che l'allargamento della UE sia stato operato negli anni del ristagno economico si è dimostrato carico di conseguenze. Le impegnative questioni poste dall'ingresso delle nazioni ex comuniste si sono infatti cumulate con i gravi problemi economici e finanziari emersi nella UE durante la fase di stagnazione. Si è così generato un affievolimento dello spirito di solidarietà economica e sociale, cui ha corrisposto una nuova tendenza, da parte di vari Paesi, a tutelare interessi e posizioni puramente nazionali. Il mito dell'Europa si è incrinato nelle opinioni pubbliche. Si è levata una vasta ondata di preoccupazione e di timori per la condizione economica e sociale del continente, che si è coniugata con le reazioni generate dall'aggravarsi dei problemi migratori e dall'espandersi della criminalità organizzata. L'ondata ha finito con l'investire anche gli Stati dell'Est, nei quali le rimostranze contro la UE hanno riguardato, in particolare, la mancata attuazione di una vera strategia di riequilibrio economico-sociale e gli insufficienti fondi stanziati allo scopo. Nei Paesi già componenti l'Europa a 15 è avanzato invece un crescente allarme per l'aumento della disoccupazione e per la riduzione della protezione sociale che l'allargamento verso est avrebbe potuto determinare. E si è manifestata, parallelamente, una deriva protezionistica che ha influito sui governi di numerose nazioni. Più in generale, è fallita la strategia definita nel marzo 2000 dal Consiglio europeo di Lisbona, che mirava a rendere la UE, entro il 2010, l'area mondiale più dinamica, competitiva e scientificamente avanzata del mondo globale. Il Consiglio europeo nel giugno 2005 l'ha rimpiazzata con più vaghi 'Orientamenti integrati per la crescita e l'occupazione', aggiornati poi nel marzo 2006, e anch'essi peraltro di incerta realizzazione.
Molte sono state le espressioni significative della reale condizione della UE. La direttiva Bolkestein per la liberalizzazione del settore dei servizi (che costituisce circa il 70% dell'economia europea) è rimasta a lungo bloccata (v. oltre). Sono stati creati seri ostacoli alla fusione intereuropea di importanti aziende industriali o bancarie. Si è registrata una forte ostilità a misure liberalizzatrici in vari settori, in particolare in quello, cruciale, dell'energia. È stata bloccata l'iniziativa britannica tesa a rivedere la politica agricola comune, che anche dopo la parziale riforma contenuta nell'Agenda 2000 continua ad assorbire in modo antieconomico quasi la metà del bilancio della UE. Sono stati diminuiti gli aiuti allo sviluppo delle aree deboli. Sono stati rallentati gli investimenti infrastrutturali. Soprattutto, è stato emendato in senso meno rigoroso il Patto di stabilità che presidiava alla creazione dell'euro e che è stato poi, in pratica, largamente disapplicato.
Così, disillusione e risentimento caratterizzano i Paesi dell'Europa centrale e orientale, i cui dubbi sulla reale volontà politica della UE minacciano di divenire una critica all'intero acquis communautaire. A loro volta, i Paesi del nucleo forte hanno visto incrinata quella coesione che era stata la sigla del cosiddetto modello sociale europeo, e sono stati percorsi da movimenti civili e sociali, di varia estensione e intensità, che hanno spesso costretto i governi ad arretrare dalle posizioni assunte sulla riforma di assetti tradizionali. Hanno scosso l'intera opinione pubblica europea, infine, gli atti terroristici organizzati dall'estremismo islamico: prima quelli a New York e Washington del settembre 2001, che generarono nella UE un immediato sentimento di simpatia per gli Stati Uniti, presto peraltro dissoltosi; poi quelli che hanno colpito Madrid nel 2004 e Londra nel 2005.
È in questo contesto, divenuto critico sotto tutti gli aspetti, quello politico e civile non meno di quello economico e sociale, che si è inserita infine la problematica della nuova Costituzione europea, la cui caduta, in definitiva, è risultata emblematica della caduta di tensione unitaria del continente.
La Costituzione europea
La revisione delle fondamenta istituzionali europee, da molto tempo discussa, divenne una necessità assoluta con l'allargamento della UE. Con esso si riducevano ulteriormente, infatti, i margini di funzionalità della vecchia struttura, inizialmente pensata per una UE molto più piccola e con problemi assai diversi. La decisione di intraprendere la riforma istituzionale fu presa dal Consiglio europeo di Laeken, nel giugno 2001, con la convocazione di una 'Convenzione costituente'. Fu dato vita così a un organismo non intergovernativo ma di tipo schiettamente politico, comprendente la rappresentanza dei Parlamenti nazionali, del Parlamento europeo e della Commissione, affidandone la direzione all'ex presidente francese V. Giscard d'Estaing, coadiuvato da due vice, ossia gli ex primi ministri belga e italiano J.-L. Dehaene e G. Amato. La Convenzione cominciò a riunirsi nel febbraio 2002, e varò rapidamente il suo progetto di Costituzione, presentandolo alla presidenza italiana della UE nel luglio del 2003. Si riunì quindi una conferenza intergovernativa sia per valutarlo sia per esaminare gli emendamenti proposti da alcuni governi. Il nuovo 'Trattato costituzionale dell'Unione Europea', sebbene non poco modificato, fu infine approvato dal Consiglio europeo nel giugno 2004 e solennemente firmato a Roma in ottobre.
Apertosi il processo di ratifica da parte degli Stati, il Trattato venne approvato dai Parlamenti di alcuni Paesi ma respinto nei referendum popolari tenuti in Francia e nei Paesi Bassi nella primavera 2005. Quel voto è stato sufficiente, politicamente, per farlo accantonare e, in pratica, cadere. Successivamente, vari governi hanno tentato di riprendere il filo della riforma costituzionale, senza riuscire ancora a superare il vuoto apertosi.
Non risolta rimane inoltre la situazione paradossale che ne è seguita. Nel febbraio 2001 era stato infatti firmato il Trattato di Nizza che, in vista dell'allargamento della UE, sanciva gli accordi di compromesso raggiunti nell'Europa a 15 su importanti punti istituzionali: il peso del voto di ciascuno Stato nei Consigli ministeriali, l'aumento del numero dei casi in cui non è necessaria l'unanimità, il numero dei componenti la Commissione, la dimensione della rappresentanza di ogni nazione nel Parlamento europeo ecc. Si trattò di accordi giudicati unanimemente poco felici, e tuttavia varati vista l'impossibilità di raggiungerne altri, e anche nella consapevolezza che erano destinati a cedere a una nuova normativa costituzionale. La caduta del Trattato costituzionale restituisce invece validità al Trattato di Nizza, e la UE si trova a essere ancora fondata su una struttura di riconosciuta inadeguatezza. Rimane pienamente valida, invece, la Carta dei diritti fondamentali, proclamata al vertice di Nizza del 2000, che rappresenta una rilevante conquista giuridica per la definizione dello spirito etico e dell'identità dell'Europa.
Altri eventi significativi
Se i principali eventi del periodo 2000-2006 sono quelli delineati, occorre anche far cenno a una serie di altri avvenimenti non irrilevanti che sono intervenuti nella vita della UE. Si sono avuti, anzitutto, due avvicendamenti significativi. Il governatore della Banca di Francia, J.-C. Trichet, ha sostituito nel corso del 2003 il nederlandese W. Duisenberg come presidente della BCE. Nel 2004 il Consiglio europeo ha inoltre nominato il nuovo presidente della Commissione nella persona del portoghese J.M. Barroso, in sostituzione di Prodi. È stato altresì approvato il bilancio pluriennale valido per il periodo 2007-2013. E nel giugno 2004, infine, è stato eletto il sesto Parlamento europeo.
Composto per la prima volta da 732 membri, eletti in 25 Stati e divisi in 8 gruppi parlamentari (i maggiori dei quali sono quello popolar-conservatore, con 274 deputati, quello socialista-socialdemocratico, con 200, e quello liberale-democratico-riformatore, con 90), il nuovo Parlamento inaugurò la sua presenza politica inserendosi con decisione nella dinamica istituzionale dell'Unione. Esso rifiutò infatti di approvare la composizione della nuova Commissione che era stata proposta dal presidente Barroso, costringendolo sostanzialmente a rimaneggiare la sua formazione nonché a sostituire sia un vicepresidente (l'italiano R. Buttiglione) sia la commissaria alla fiscalità e al mercato interno (la nederlandese I. Udre).
Il Parlamento è intervenuto nel 2006 anche sulla direttiva Bolkestein (a cui si è accennato prima), arenatasi per l'opposizione della Francia e della Germania, ma anche dell'Austria e della Svezia. Sulla base di un compromesso raggiunto tra i due gruppi politici maggiori, il Parlamento, in marzo, l'ha modificata in modo rilevante e l'ha rinviata al Consiglio, acquisendo così il merito rilevante di averla fatta uscire dallin cui era caduta, ma pagando anche il prezzo di averne molto limitato l'impatto innovatore.
Quanto al bilancio pluriennale per il periodo 2007-2013, esso fu oggetto di un duro braccio di ferro tra Francia e Gran Bretagna, che nel dicembre 2004 portò inizialmente a respingere, per l'opposizione della seconda, il testo proposto dal premier lussemburghese J.-C. Junker, appoggiato dalla prima, mentre i Paesi dell'Est esprimevano un profondo disagio per la riduzione dell'entità del bilancio e la conseguente riduzione dei fondi a loro disposizione. La questione fu nuovamente affrontata soltanto un anno dopo, nel periodo di presidenza britannica della UE. Ma la rinnovata proposta di riduzione della spesa agricola, finalizzata a destinare maggiori fondi alla ricerca scientifica e allo sviluppo, fu nuovamente osteggiata dalla Francia, che mirava a mantenere immutati i fondi all'agricoltura e sosteneva l'opportunità di recuperare disponibilità finanziarie ponendo fine al costoso rebate in favore della Gran Bretagna. Nel vertice tenutosi nel dicembre 2005, per la mediazione anche finanziaria della Germania, si giunse finalmente a un compromesso che elevava modestamente alcune poste di spesa e manteneva immutata sia la protezione agricola sia il rebate, in pratica rinviando tutti i problemi al 2010. Il Parlamento, a questo punto, è a sua volta intervenuto sul problema: al termine di una lunga trattativa ha strappato al Consiglio, nella primavera del 2006, un aumento di 2 miliardi di spesa, portando quindi il bilancio, per il sessennio, a 863,362 miliardi di euro.
Complessivamente, dunque, il Parlamento ha mostrato di voler esercitare in concreto un'opera di intervento politico omogenea alla crescita del suo potere legislativo, di controllo e di indirizzo. È dubbio tuttavia che esso sia in grado di assumere decisioni che lo costituiscano in organo di pari forza del Consiglio e della Commissione.
Mantenere l'ordine europeo
Nel vario quadro che si è descritto, ricco di ombre e di luci, un punto rimane fermo: la volontà di tutti gli Stati membri di non intaccare l'ordine europeo che è stato raggiunto. Esso non soltanto rappresenta un successo storicamente rilevante, ma corrisponde anche agli interessi profondi di tutti i Paesi della UE; e colpirlo, in qualsiasi modo ciò avvenisse, rappresenterebbe una sorta di autolesionismo politico ed economico che nessuna nazione europea ritiene sensato proporsi.
È su questa base che si manifestano, a cominciare dalla Germania, nuove tendenze e indirizzi, ancora non chiaramente precisati e il cui punto di arrivo non può essere stabilito. Si può dire, tuttavia, che essi si profilano nel senso di impegnare maggiormente la UE al rafforzamento dell'unità dell'Occidente, con un rallentamento della sua crescita politica e un maggiore ricorso alle 'cooperazioni rafforzate' fra Stati willing and able. In effetti, lo sviluppo sequenziale dei processi europei previsto dalla dottrina 'funzionalista' deve considerarsi ormai terminato: insomma, il progresso dell'unità economica del continente non conduce più a una maggiore unità sul terreno politico. Così, la più avvertita riflessione si rivolge meno ai problemi del continente e più a quelli del mondo globale, concentrandosi fondamentalmente su due punti molto importanti: i termini e i modi in cui l'economia europea può tornare a crescere, a un ritmo che le consenta di non essere spinta in coda alla corsa internazionale; e i termini e i modi in cui l'Europa può aumentare la sua influenza politica nel mondo, ciò che in primo luogo pone la questione del rapporto con la superpotenza superstite, gli Stati Uniti. In altri termini, i nuovi discorsi europei mirano ad acquistare concretezza e prospettiva, rifiutando ogni spirito eurocentrico e inserendosi in una visione del quadro internazionale.
In questa chiave, si pone per l'Europa un problema di rapporto con le potenze che sui nuovi problemi dell'epoca sono in posizione di avanguardia. In primo luogo, naturalmente, con gli Stati Uniti.
Si osserva anzitutto in proposito che, per avere su di essi un più efficace rapporto di influenza, all'Europa occorrono anzitutto progressi sul piano dell'efficienza militare, in modo da divenire un soggetto più capace di azione di fronte a nuovi possibili turbamenti di equilibri regionali o mondiali, o a una intensificata attività terroristica. In tale direzione si muovono, sia pure con lentezza e non senza difficoltà, gli sforzi di varie nazioni della Unione per mettere in essere una efficace Agenzia per gli armamenti e per apprestare un nuovo quadro, anche istituzionale, della politica comune di sicurezza e di difesa. Essa è, da una parte, inevitabilmente legata alla politica estera della UE; ma dall'altra, malgrado segnali contraddittori, sembra debba essere connessa alla NATO e agli Stati Uniti, che della NATO sopportano il maggiore onere. Altrimenti si avrebbe probabilmente una duplicazione delle strutture e delle forze, che non sarebbe tecnicamente utile, comporterebbe una moltiplicazione della spesa militare e incontrerebbe il dissenso di un buon numero di Stati della UE. Si osserva in secondo luogo che all'Europa occorre individuare gli strumenti attraverso cui utilizzare più efficacemente il suo soft power, l'arma civile e morale che possiede in misura maggiore degli Stati Uniti. E si rileva a questo proposito che sono fondamentali l'incremento della dotazione finanziaria e una migliore qualità della politica di aiuto allo sviluppo delle aree povere, perseguita dagli Stati membri e dalla UE sia direttamente sia nella sede degli organismi internazionali deputati allo scopo.
Non meno importante è per l'Europa uscire dalla stagnazione economica. Sono auspicati in questo senso, prioritariamente, interventi riformatori e liberalizzanti che contribuiscano a rialimentare la fiducia e il ciclo, uscendo dal clima di 'patriottismo economico' diffuso dal risorgente nazionalismo europeo. Pone problemi ben più complicati l'integrazione della politica monetaria con le politiche economiche e fiscali, che sarebbe fondamentale per dare all'Europa la sostanza di una potenza economica.
Dei vari trattati della Unione, più che un 'coordinamento', previsto dal Trattato di Amsterdam, occorrerebbe infatti una modifica che riconducesse alla UE la programmazione di un'unica politica economica pluriennale per tutto il suo territorio, in sostituzione di quelle nazionali: ciò che nella condizione presente non sembra realistico. Si pensa anche a rafforzare l'Unione economica e monetaria attraverso l'ingresso in essa di altri Stati, in aggiunta ai 12, e in particolare si guarda con attenzione, seppure con perplessità, all'ingresso della Gran Bretagna, che era stato ipotizzato dal governo britannico ma poi allontanato dalle convulse vicende in cui si è impigliata la UE. Invece, sul terreno della politica commerciale, integralmente gestita dalla Commissione di Bruxelles, la UE ha avuto una sua politica organica (pur appesantita dai problemi irrisolti della protezione della sua agricola), dimostrando una capacità di negoziato e di spinta, che l'ha resa nel Doha Round uno dei protagonisti dei processi di liberalizzazione del commercio internazionale. In conclusione, nel turbinio dei problemi mondiali degli ultimi tre lustri l'Europa sembra trovarsi in una tormentata fase di transizione. Non può sfuggire l'impressione che essa sia uscita dal cammino fondamentalmente rettilineo durato quarant'anni senza aver ancora imboccato un'altra strada. Circa la quale il dibattito si è fatto strategico, mentre l'Europa, ormai più larga, è divenuta anche, inevitabilmente, più lenta. Alle classi dirigenti europee si profila intero un dato di fatto per esse nuovo: che la questione dell'unificazione del continente, lungi dal continuare a essere il problema regionale che è stato per alcuni decenni, si interseca ormai con gli immensi problemi suscitati dai processi di globalizzazione dell'economia, della politica, della scienza, della cultura, della comunicazione. Si comincia a vedere che la questione europea, non più sospinta dai vecchi motori, troverà soluzioni di un tipo o di un altro (e perciò non necessariamente positive) solo in relazione a essi. Quanto però è in gioco non è tanto l'identità della UE, quanto invece la configurazione di essa, la sua forma politica, il suo stesso rapporto con la storia dell'Occidente e del sistema-mondo. Non sembra diverso da questo il problema primo e cruciale della UE.
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