Unioni civili e convivenze di fatto: profili processuali
La l. 20.5.2016, n. 76, contiene prevalentemente norme di diritto sostanziale a cui ha affidato la disciplina dei rapporti tra persone dello stesso sesso e delle convivenze di fatto. Tuttavia le nuove regole hanno anche una significativa dimensione processuale specie per quanto riguarda la gestione dei conflitti che pongono in crisi tali rapporti e la disciplina dello scioglimento delle unioni civili modellata su quella del divorzio: in queste pagine si prendono in esame questi profili processuali che il legislatore ha costruito in modo poco preciso e lacunoso affidandosi specialmente alla tecnica del rinvio.
La nuova legge (l. 20.5.2016, n. 76, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che dà veste giuridica alle convivenze di fatto e consente alle coppie omosessuali di regolare il loro rapporti anche nelle innovative forme dell’unione civile, nel suo unico articolo, suddiviso in sessantanove commi1, contiene in prevalenza norme di diritto sostanziale riguardanti la costituzione e l’assetto di tali rapporti specie sotto il profilo dei diritti e dei doveri derivanti dalle convivenze di fatto o che hanno titolo nell’eventuale stipulazione di un contratto di convivenza o nella costituzione di un’unione civile (v. in questo volume Diritto civile, 1.1.1 Unioni civili).
La disciplina delle convivenze e delle unioni civili annovera anche norme che riescono a darle una significativa dimensione processuale specie quando si tratta di individuare gli strumenti per gestire i conflitti che pongono in crisi le convivenze e le unioni civili per quanto convenga osservare che le norme d’interesse processuale contenute nella legge riguardano quasi esclusivamente la disciplina di queste ultime.
In altri contesti, la nuova legge si limita a qualche aggiornamento di vigenti regole d’interesse processuale: mi riferisco, ad esempio, quando prende in considerazione i nuovi status familiari nell’àmbito degli istituti di protezione degli incapaci, dove si limita ad aggiornare quanto già dispone il codice civile sulla legittimazione a domandare la nomina dell’amministratore di sostegno, del tutore o del curatore e, ancora, quanto ai soggetti da preferire per l’attribuzione di tali uffici. Mentre il codice fa costante riferimento alla persona «stabilmente convivente», la nuova legge ha lo scrupolo di fare espresso riferimento alla parte dell’unione civile e al convivente di fatto: così, infatti, i co. 15 e 48, che, a ben vedere, non arricchiscono in modo sostanziale quanto già previsto dal codice civile. Questo rilievo vale anche per il co. 14, che riproduce l’art. 342 bis c.c. a proposito degli abusi familiari: il comma citato si limita a precisare che è possibile pronunciare gli ordini di protezione anche quando gli abusi si verificano nell’àmbito di un’unione civile, mentre la regola del codice che si riferisce alla condotta del coniuge ma anche a quella «di altro convivente», consente d’avvalersi di questa tutela anche per gli abusi compiuti nell’àmbito delle convivenze di fatto.
Per quanto riguarda le norme che regolano propriamente i profili processuali dei nuovi istituti, il legislatore si è affidato alla medesima tecnica utilizzata per regolarne la disciplina sostanziale. Così ha riprodotto nel testo della legge norme già previste dal codice civile, sia pure apportandovi le necessarie varianti; più raramente, ha novellato norme del codice civile al fine di applicarle anche alle unioni civili o alle convivenze. Ancora, frequenti sono i rinvii ad articoli del codice civile o a leggi speciali e mi riferisco, ad esempio, a quanto dispongono i co. 5 e 21 della nuova legge che fanno rinvio, rispettivamente, a norme del codice riguardanti il matrimonio e alla disciplina processuale del divorzio. Infine, il co. 20, dopo aver stabilito che alle parti dell’unione civile non si applica la legge sull’adozione dei minori e che, per quanto riguarda il codice civile, possono essere utilizzate soltanto le norme a cui la nuova legge fa espresso riferimento, precisa ulteriormente che alle parti dell’unione civile si applicano tutte le disposizioni riferentesi «al matrimonio e quelle contenenti le parole coniuge, coniugi o termini equivalenti» ovunque ricorrano in altri testi normativi o in atti amministrativi.
Ci si può chiedere quali riflessi abbia questa regola generale per quanto riguarda il codice di procedura civile: a parte il richiamo, sul quale torneremo, alle disposizioni del codice di rito in materia di separazione personale effettuato dal co. 25 della legge, è quanto dispone il citato co. 20 che impone di leggere in modo nuovo anche non poche norme del codice di rito. Per fare qualche esempio, si pensi alla norma sul divieto di testimoniare di cui all’art. 247 c.p.c. o ancora all’elenco delle cose assolutamente impignorabili di cui all’art. 514 c.p.c. o alla regola limitativa dell’opposizione all’esecuzione proposta dalla moglie del debitore prevista dall’art. 622 c.p.c., norme tutte la cui applicazione riguarderà, d’ora innanzi, anche le parti di un’unione civile.
Conviene notare che la nuova legge non detta regole speciali per quanto riguarda lo svolgimento dei diversi giudizi che la sua applicazione può generare. Infatti, continuano a trovare applicazione le regole vigenti per quanto sostanziose novità si attendono dall’annunciata riforma del processo civile già approvata dalla Camera il 10 marzo 2016 e ora all’esame del Senato. Si tratta di una riforma centrata, per quanto riguarda le controversie familiari, sull’istituzione di apposite sezioni specializzate e sulla previsione di un rito speciale da affidare alla legislazione delegata: un nuovo rito da regolare, come dice il disegno di legge, «secondo criteri di tendenziale uniformità, speditezza e semplificazione con specifica attenzione alla tutela dei minori e alla garanzia del contraddittorio tra le parti, valorizzando i poteri conciliativi del giudice e il ricorso alla mediazione familiare».
Come si è già osservato, le norme d’interesse processuale contenute nella nuova legge riguardano prevalentemente la disciplina delle unioni civili e quindi un rapporto che, avendo molte analogie con il matrimonio, può conoscere le medesime crisi interpersonali a cui il legislatore ha voluto dare ogni opportuna e necessaria soluzione utilizzando, almeno in parte, gli strumenti giudiziali e stragiudiziali previsti per regolare le crisi che insorgono nei rapporti coniugali. In particolare, vengono richiamate le norme processuali contenute nella legge sul divorzio e anche le regole che danno ai coniugi la possibilità di sciogliere il matrimonio avvalendosi delle forme stragiudiziali di cui agli artt. 6 e 12 del recente decreto legge sulla deiurisdictio (d.l. 12.9.2014, n. 132 convertito dalla l. 10.11.2014, n. 162) che prevedono, rispettivamente, il divorzio attuato con la negoziazione assistita da avvocati o davanti al sindaco quale ufficiale dello stato civile.
Per quanto riguarda la disciplina data alle convivenze di fatto che rientrano in una tipologia individuata con precisione dalla legge, essa è affidata a norme di diritto sostanziale di cui solo poche, come si vedrà, possono interessare in questa sede per avere una rilevanza processuale soltanto indiretta.
Le norme con i risvolti processuali più marcati e interessanti sono quelle che riguardano lo scioglimento delle unioni civili. È possibile sùbito notare che le cause di scioglimento delle unioni civili sono, salvo un’importante eccezione, le stesse previste per lo scioglimento del matrimonio. Così è, infatti, per la morte o la dichiarazione di morte presunta di una delle parti: lo stabilisce il co. 22, ricognitivo di quanto dispongono, per il matrimonio, rispettivamente gli artt. 149 e 65 c.c. norma quest’ultima, già richiamata dal co. 5, per cui «divenuta eseguibile la sentenza che dichiara la morte presunta il coniuge può contrarre nuovo matrimonio».
Ma è alle norme che, per sciogliere le unioni civili, fanno rinvio alla legge sul divorzio che occorre dare particolare attenzione. Mi riferisco, in primo luogo, al disposto del co. 23, per cui lo scioglimento di un’unione civile può avvenire, sempre su domanda di parte, in tutte le ipotesi contemplate dall’art. 3 l. 1.12.1970, n. 898 (l. div.) che vengono espressamente richiamate ma con un’unica e importante eccezione. Infatti, manca ogni riferimento a quanto dispone la lett. b) del n. 2 del citato art. 3, e quindi al divorzio fra coniugi che sono già separati poiché il legislatore non ha voluto dare alle parti dell’unione civile l’accesso alla separazione personale, come risulta non soltanto dall’esclusione di quest’ultima dall’elenco delle cause di scioglimento dell’unione civile, ma anche dal fatto che la legge in commento non richiama in nessun luogo la disciplina sostanziale della separazione personale prevista dal codice civile.
La legge prende ancora in considerazione, come causa di scioglimento dell’unione civile, «la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso». Si tratta di una norma ricognitiva di quanto già stabilito per i coniugi dalla l. 14.4.1982, n. 164 e dal testo novellato della legge sul divorzio che, all’art. 3, n. 2, lett. g), prevede che lo scioglimento del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi quando è passata in giudicato la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso. È da ritenere che la regola dettata per il divorzio debba integrare quanto stabilito, in modo un po’ sbrigativo, dal co. 26 per lo scioglimento dell’unione civile: occorre quindi che la sentenza di rettificazione sia passata in giudicato e che lo scioglimento sia oggetto di un’apposita domanda. Resta fermo che i coniugi possono avvalersi di quanto dispone il co. 27 e quindi, con una dichiarazione congiunta ricevuta dall’ufficiale dello stato civile, ottenere «l’automatica instaurazione dell’unione civile».
Il legislatore ha disegnato un originale percorso per dare rilevanza alla volontà delle parti di sciogliere il vincolo che ha titolo nell’unione civile costituita davanti all’ufficiale dello stato civile e alla presenza di due testimoni, come prescrive il co. 2 della nuova legge. Come si è detto, le parti non hanno l’onere della previa separazione personale, bensì quello, sostanzialmente molto diverso, di rendere pubblica la loro volontà di sciogliere il vincolo: a norma del co. 24, si tratta di una manifestazione di volontà affidata a un’apposita dichiarazione da rivolgere all’ufficiale dello stato civile, una dichiarazione che può essere compiuta congiuntamente o disgiuntamente da entrambe le parti, ma essere anche unilaterale e quindi provenire soltanto da una di esse: ipotesi, quest’ultima, non espressamente contemplata dal legislatore, fermo restando che, in ogni caso, gli effetti della dichiarazione decorrono dalla data in cui essa è stata effettuata.
La legge non lo prescrive espressamente, ma l’ufficiale dello stato civile dovrà annotare la dichiarazione che ha ricevuto nell’istituendo registro delle unioni civili osservando le regole da introdurre con i decreti legislativi previsti dal co. 28, lett. a): questi decreti avranno lo scopo di «adeguare alle previsioni della presente legge le disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni», un adempimento legislativo da eseguire «entro sei mesi» dall’entrata in vigore della legge in commento2. Il co. 34 prevede tuttavia che, in attesa delle norme delegate ed «entro trenta giorni» dall’entrata in vigore della legge, il Governo emani un regolamento per disciplinare, in via transitoria, la tenuta di un registro provvisorio delle unioni civili, adempimento già attuato con il d.P.C.m. 23.7.2016, n. 1443.
Non è chiaro quale sia l’ufficiale dello stato civile competente a ricevere tali dichiarazioni e neppure è previsto quali ne siano la forma e i possibili contenuti: per quanto riguarda la competenza, la soluzione più corretta è certamente quella di attribuirla all’ufficiale dello stato civile del comune nel quale l’unione che si vuole dissolvere è stata costituita, ma è anche configurabile la competenza concorrente dell’ufficiale del comune di residenza del dichiarante o, nel caso di dichiarazione congiunta, della residenza di uno dei dichiaranti4. È questa, peraltro, la scelta compiuta dal citato regolamento provvisorio.
Ancora, non è precisato se la parte debba manifestare personalmente la propria volontà oppure se possa anche affidarla a un procuratore speciale o a un documento scritto: la legge prescrive che la manifestazione di volontà avvenga «dinanzi» all’ufficiale dello stato civile, l’avverbio evoca l’esigenza che la dichiarazione sia effettuata dalla parte comparendo personalmente davanti al pubblico ufficiale.
L’adempimento di questo onere non ha effetti dissolutivi ma è soltanto il necessario presupposto per dare corso al procedimento di scioglimento dell’unione civile che le parti prescelgono. La relativa domanda deve essere proposta, come precisa ulteriormente il citato co. 24, nel rispetto del termine dilatorio di tre mesi decorrenti dalla data in cui è stata manifestata la volontà di sciogliere l’unione. Si tratta di un termine dilatorio che ha l’evidente scopo di dare alle parti una pausa di riflessione per valutare l’an e il quomodo della loro decisione di porre fine al loro rapporto: essendo questa la sua funzione, è un termine che opera qualunque sia lo strumento prescelto per arrivare allo scioglimento e non soltanto quando si intende utilizzare la via giudiziale, come sembra invece disporre il co. 24 là dove fa riferimento alla «domanda», un riferimento che non si attaglia alla scelta delle parti di scogliere il loro rapporto percorrendo le vie stragiudiziali previste, per lo scioglimento del matrimonio, dagli artt. 6 e 12 d.l. n. 132/2014.
Decorsi tre mesi dalla dichiarazione compiuta davanti all’ufficiale dello stato civile, ciascuna delle parti può, come si è detto, proporre la domanda giudiziale di scioglimento dell’unione civile. Resta fermo che nell’ipotesi in cui entrambe le parti hanno la comune volontà di dissolverla, esse hanno la possibilità d’avvalersi sia del divorzio su domanda congiunta sia delle forme stragiudiziali di scioglimento del matrimonio previste dagli artt. 6 e 12 d.l. n. 132/2014: il riferimento è al divorzio attuato con la negoziazione assistita o, in sede amministrativa, davanti al sindaco quale ufficiale dello stato civile.
Per quanto riguarda le forme giudiziali di scioglimento dell’unione civile, esse trovano la propria disciplina non soltanto nelle norme della legge sul divorzio, richiamate con minuzioso elenco dal co. 25 sia pure con la prudenziale riserva di compatibilità, ma anche nelle norme processuali che regolano la separazione giudiziale e questo per effetto d’un rinvio di cui occorre chiarire il significato alle disposizioni di cui «al titolo II del libro quarto del codice di procedura civile».
Il rinvio compiuto alle disposizioni processuali della legge sul divorzio è particolarmente significativo, poiché riesce a dare una compiuta disciplina al procedimento: anche qui la domanda deve essere proposta al tribunale competente5 ed avere forma di ricorso a cui allegare, come vuole l’art. 4, co. 6, l. div., la dichiarazione dei redditi. Di altri documenti la nuova legge non fa parola, ma è evidente che il ricorrente ha anche l’onere di produrre sia la copia del documento che, a norma del co. 9, certifica la costituzione dell’unione sia dell’atto con il quale le parti hanno manifestato, a norma del co. 24, la volontà di sciogliere la loro unione.
La legge, nel rinviare alle norme sul divorzio, consente di applicare ai giudizi di scioglimento delle unioni civili le norme sulla fase presidenziale dei giudizi di divorzio: così, il presidente del tribunale dovrà anche in questa sede tentare di riconciliare le parti e, se il tentativo non riesce, dare con l’ordinanza prevista dall’art. 4, co. 8, l. div., i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse delle parti: in particolare, potrà autorizzare le parti a vivere separate durante la pendenza del giudizio e anche disporre, a favore della parte più debole, un assegno temporaneo. L’ordinanza ha la stessa efficacia e conosce le stesse garanzie proprie dell’ordinanza presidenziale pronunciata nei giudizi di divorzio: ha quindi efficacia esecutiva ed è possibile oggetto di reclamo alla corte d’appello poiché trova anche nei suoi confronti applicazione la regola dettata dall’art. 708, co. 4, c.p.c., che, a norma di quanto prevede l’art. 4 l. 8.2.2006, n. 54, opera anche per le ordinanze pronunciate nei giudizi di divorzio e quindi, per li rami, nei giudizi di scioglimento delle unioni civili.
Per quanto riguarda la fase contenziosa del procedimento, occorre considerare non soltanto quanto dispone la legge sul divorzio nel citato art. 4, ma anche nell’art. 5 a cui la legge in commento fa rinvio, norma anche questa richiamata integralmente, salvo per quanto riguarda le norme sul cognome della donna divorziata poiché l’incidenza dello scioglimento dell’unione sui nomi delle parti è regolata in modo specifico da quanto dispone il co. 10 della nuova legge.
Resta fermo, pertanto, che il tribunale adito, nel contraddittorio delle parti assistite dai rispettivi difensori, accertata la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge, pronuncia con sentenza lo scioglimento dell’unione civile e, come prescrive l’art. 5 l. div., ordina all’ufficiale dello stato civile del luogo ove questa è stata registrata di procedere all’annotazione della sentenza, un’annotazione che avrà luogo, a norma dell’art. 10 l. div., esso pure richiamato dal co. 25 della legge in commento, quando la sentenza passa in giudicato. È dal giorno dell’annotazione che, sempre per l’art. 10 l. div., la sentenza avrà efficacia «a tutti gli effetti civili», ad eccezione per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica poiché la sentenza di primo grado è su tali capi provvisoriamente esecutiva fatta salva la facoltà del tribunale, per quanto riguarda l’assegno, di stabilirne la decorrenza dal momento della proposizione della domanda: regole queste operanti tutte anche nei giudizi sulle unioni civili applicando quanto dispone l’art. 4, co. 13 e 14, l. div. Se il giudizio deve continuare per la determinazione dell’assegno o, eventualmente, anche per altre domande patrimoniali, il tribunale può sciogliere l’unione civile con una sentenza non definitiva, come consente l’art. 4, co. 12, l. div., e disporre l’ulteriore prosecuzione del giudizio sulle altre domande.
La clausola di compatibilità non impedisce l’applicazione della regola, prevista essa pure dall’art. 5 l. div., che esige la necessaria partecipazione del pubblico ministero: una partecipazione fondata non soltanto su questa regola speciale ma anche su quanto dispone l’art. 70, co. 1, n. 3, c.p.c., chiaro essendo che le controversie de quibus rientrano tra le cause riguardanti lo stato delle persone e richiedono, pertanto, l’intervento della parte pubblica6.
Anche l’assetto dato ai rapporti fra le parti di un’unione civile che è stata sciolta, conosce le medesime regole previste per il divorzio, regole che consentono la revisione dei capi della sentenza o delle clausole degli accordi raggiunti in sede stragiudiziale riguardanti, in particolare, la misura e le modalità dei contributi da corrispondere alla parte creditrice: così, il co. 20 richiama non soltanto quanto dispone l’art. 9 l. div., ma anche il rinvio agli artt. 6 e 12 d.l. n. 132/2014 consente di avvalersi degli strumenti stragiudiziali ivi previsti per ottenere tali modifiche.
La tendenziale equiparazione fra il rapporto coniugale e quello che ha titolo in un’unione civile, trova conferma non solo nel comparare la disciplina sostanziale dei due rapporti, ma anche nella scelta del legislatore di applicare le norme processuali previste per il divorzio alla gestione delle crisi sorte fra le parti dell’unione.
Non può quindi meravigliare che sia parso opportuno al legislatore estendere anche alle parti di un’unione civile le nuove regole, introdotte dal d.l. n. 132/2014. Si tratta di regole volte a consentire ai coniugi che abbiano la comune volontà di sciogliere il loro matrimonio di evitare gli oneri d’un giudizio contenzioso e di affidarsi non soltanto, come prevede l’ultimo comma dell’art. 4 l. div., al rito camerale del divorzio su domanda congiunta ma anche alle vie stragiudiziali della negoziazione assistita e del divorzio in sede amministrativa “celebrato” dal sindaco quale ufficiale dello stato civile in un procedimento, quest’ultimo, interamente deformalizzato dove l’assistenza di avvocati è soltanto facoltativa.
Come si è detto, anche quando le parti intendono avvalersi di questi strumenti stragiudiziali, hanno l’onere di effettuare la dichiarazione prescritta dal co. 24 per rendere pubblica la loro volontà di sciogliere il proprio rapporto e di rispettare il termine dilatorio di tre mesi per avviare la negoziazione o per rivolgersi al sindaco quale ufficiale dello stato civile come previsto, rispettivamente, dagli artt. 6 e 12 d.l. n. 132/2014.
Soltanto il tempo potrà dirci quali saranno le scelte prevalenti, ma è verosimile che le parti di un’unione civile in crisi mostreranno una netta preferenza per la via del divorzio amministrativo specialmente se le parti potranno, in quella sede, concordare l’an e il quantum dell’assegno di solidarietà previsto dall’art. 5 l. div., una possibilità questa che non sembra essere ostacolata dalla lettera dell’art. 12, co. 3, d.l. n. 132/2014, là dove prescrive che l’accordo di divorzio raggiunto davanti all’ufficiale dello stato civile «non può contenere patti di trasferimento patrimoniale», formula correttamente interpretata da una circolare del ministero degli Interni come impeditiva di negozi «produttivi di effetti traslativi di diritti reali»7.
Molto poche sono le norme d’interesse processuale riguardanti le convivenze di fatto previste dalla nuova legge. Non tutte le convivenze sono qui contemplate dal legislatore, ma soltanto quelle che rispondono ai criteri oggettivi indicati dal co. 36: la legge fa riferimento soltanto alle convivenze fra soggetti che hanno «legami affettivi di coppia» e quindi, come è stato notato, vivono una relazione aperta alla sessualità8 mentre restano escluse le convivenze cd. di solidarietà. La prova dell’esistenza del rapporto di convivenza è data, come vuole il co. 37, dalla dichiarazione anagrafica prevista da norme regolamentari a cui la legge fa espresso richiamo9, ma è evidente che l’accertamento della convivenza e delle sue caratteristiche oggettive può essere data con ogni mezzo di prova come avviene per ogni fatto con rilevanza giuridica.
Il convivente può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno dell’altra parte: così il co. 48 che, sul punto, non fa che specificare quanto già prevede la disciplina del codice civile sul ruolo che hanno, nell’applicazione delle norme di protezione degli incapaci, le persone «stabilmente conviventi».
Nella legge in commento non vi sono norme che prevedano tentativi di conciliazione o, più in generale, la gestione in sede giurisdizionale delle eventuali crisi insorte nel ménage dei conviventi. Tuttavia il legislatore non rimane indifferente di fronte all’eventuale cessazione delle convivenze e, infatti, il co. 65 della legge detta una norma di notevole importanza: mi riferisco al diritto agli alimenti che, nella cessazione della convivenza, sorge in capo al convivente «qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento».
In tal caso, l’obbligo alimentare del convivente dev’essere adempiuto con precedenza su quello che grava sui fratelli e le sorelle e trovano applicazione le norme dettate dal codice civile per quanto riguarda la misura della prestazione alimentare (infatti viene richiamato espressamente l’art. 438, co. 2, c.c.), mentre la nuova legge detta una regola speciale per quanto riguarda la sua durata: il giudice, infatti, dovrà assegnare gli alimenti «per un periodo proporzionale alla durata della convivenza», formula questa di non immediata intelligenza che dà al giudice notevoli margini di discrezionalità.
Quando i rapporti patrimoniali fra i conviventi sono regolati dal contratto di convivenza di cui ai co. 50 ss. della legge10, la sua risoluzione è affidata alle vie stragiudiziali previste dai co. 59 ss. Infatti, se le parti non trovano l’accordo per risolvere il contratto di convivenza, ciascuna di esse può giovarsi della risoluzione per «recesso unilaterale» da attuare manifestando la propria volontà con le medesime forme solenni previste dal co. 51 per la sua stipulazione: quindi, anche la risoluzione per recesso unilaterale deve avere la forma d’atto pubblico o di scrittura privata autenticata da un notaio o anche da un avvocato, ferma la competenza del notaio per i trasferimenti di diritti reali immobiliari «comunque discendenti» dal contratto di convivenza.
Si noti che la cessazione della convivenza non è di per se stessa causa di risoluzione del contratto: la legge, infatti, ai fini della risoluzione ex lege non dà rilevanza alla cessazione di fatto della convivenza ma vuole che tale cessazione trovi formale evidenza nella costituzione di un’unione civile con «altra persona» (co. 59).
Mi limito ad osservare che la legge presenta diverse lacune che potranno tuttavia essere colmate non soltanto con l’interpretazione ma anche, almeno in parte, dai decreti legislativi e ministeriali, previsti rispettivamente dal co. 28, lett. a) e dal co. 34, che dovranno adeguare alle previsioni della legge le disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni11.
Qualche dubbio può tuttavia sorgere a causa di quanto dispone il co. 25 della legge per il rinvio che fa alle norme del codice di procedura civile che regolano la separazione personale fra i coniugi. Ho già osservato che la legge non prevede che le parti di un’unione civile possano separarsi nei modi e con gli effetti della separazione coniugale e, pertanto, non è chiaro quale possa essere il significato di questo rinvio alle norme processuali della separazione personale effettuato richiamando, come dice testualmente il comma citato, «le disposizioni di cui al titolo secondo del libro quarto del codice di procedura civile».
Se non si vuol ricorrere a un’interpretazione abrogante sul presupposto che questo rinvio trovava la propria oggettiva giustificazione soltanto nel testo originario del disegno di legge sulle unioni civili che prevedeva per esse anche il regime della separazione personale, il rinvio non può avere altro scopo che integrare la disciplina processuale dello scioglimento delle unioni civili, modellata sulle regole dei giudizi di divorzio, con quella prevista per la separazione giudiziale nei pochi luoghi in cui tra le due discipline esiste una apprezzabile divergenza.
Così trova applicazione l’art. 706 c.p.c., in luogo di quanto dispone l’art. 4 l. div., a proposito della competenza territoriale del tribunale. Infatti, il criterio di collegamento che considera «l’ultima residenza comune dei coniugi» previsto sia dall’art. 706 c.p.c. sia dall’art. 4 l. div., è stato dichiarato incostituzionale nel 2008 con limitato riferimento al divorzio12, mentre conserva la propria oggettiva giustificazione – che lo sottrae a ogni censura di incostituzionalità – per quanto riguarda la competenza territoriale dei giudizi di separazione personale.
È evidente che identica giustificazione riguarda anche la competenza a conoscere le domande di scioglimento di un’unione civile e quindi di parti che hanno ancora, non essendo richiesta la loro previa separazione, una residenza comune: fare invece riferimento al testo dell’art. 4 l. div., mutilato del criterio che considera la residenza comune dei coniugi, significherebbe dover prendere unicamente in considerazione il luogo dove il coniuge convenuto ha residenza o domicilio, mentre resta fermo il disposto dell’art. 4 là dove prescrive che la domanda congiunta può essere proposta al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’uno o dell’altro coniuge.
Ancora, può trovare applicazione quanto dispone l’art. 708, co. 4, c.p.c. sulla possibilità di proporre reclamo alla corte d’appello nei confronti delle ordinanze pronunciate nella fase presidenziale, una possibilità che avrebbe comunque trovato il proprio fondamento nell’interpretare in modo estensivo la regola dettata dall’art. 4 l. n. 54/2006 sull’affidamento condiviso che applicava la nuova regola del reclamo nei confronti delle ordinanze presidenziali pronunciate nei giudizi di separazione anche a quelle dei giudizi di divorzio. Infine, si può guardare alle norme sulla revisione previste dall’art. 710 c.p.c. che trovano qui una modulazione più articolata di quanto previsto in eadem re dall’art. 9 l. div.
Per contro, il rinvio alle norme processuali sulla separazione non può riguardare quanto dispone l’art. 711 c.p.c. a proposito della separazione consensuale: si tratta di una disciplina che ha presupposti e contenuti manifestamente incompatibili con quelli previsti dalla nuova legge sullo scioglimento delle unioni civili. Le parti che siano d’accordo a chiedere lo scioglimento possono utilizzare la via breve delineata dall’art. 4, ult. co., l. div. che disciplina il procedimento camerale di divorzio su domanda congiunta o ancora, come già si è detto, quella della negoziazione assistita o dello scioglimento attuato in sede amministrativa davanti al sindaco quale ufficiale dello stato civile.
Non sembra possano trovare applicazione le norme che nel divorzio riguardano i figli, poiché i diritti e i doveri dei figli continuano a trovare la propria disciplina soltanto nel rapporto con i loro genitori e, allo stato attuale della legislazione, alle parti di un’unione civile è preclusa l’adozione di minori come prescrive il co. 20 della legge in commento. Tuttavia l’ultima parte del comma prevede, con una buona dose d’ambiguità, che «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti»: una formula che sembra salvare quella giurisprudenza che in non pochi casi, ha dato riconoscimento ad adozioni effettuate all’estero da coppie omosessuali di cittadini italiani13 o ancora ha ritenuto possibile l’adozione non legittimante del figlio del partner del genitore omosessuale interpretando in modo evolutivo quanto dispone l’art. 44, lett. d), l. 4.5.1983, n. 184, a norma del quale, constatata l’impossibilità dell’affidamento preadottivo d’un minore, questi può essere adottato anche da chi non è coniugato14 (v. in questo volume, Diritto civile, 1.2.1 Adozione coparentale -stepchild adoption).
Può quindi avvenire che, in questi casi, le parti di un’unione civile abbiano, sia pure a diverso titolo, i medesimi figli e, in tal caso, la crisi indotta dallo scioglimento della loro unione, avendo inevitabili riflessi anche su questi ultimi, crea le premesse per la necessaria applicazione anche delle norme del divorzio dettate per dare ogni conveniente tutela ai figli minori e al loro superiore interesse nonostante la dissoluzione della coppia genitoriale.
Note
1 La singolare struttura è dovuta all’esigenza tecnica di semplificarne l’iter parlamentare facilitandone un’approvazione tutt’altro che scontata ricorrendo anche al voto di fiducia. Per un esame analitico dei vari aspetti della nuova disciplina, si vedano i numerosi contributi pubblicati nel numero speciale di Fam. dir., 2016, fasc. 10 ed ivi, per i profili processuali, Danovi, F., L’intervento giudiziale nella crisi dell’unione civile e della convivenza di fatto, 995 ss.
2 La legge sulle unioni civili è entrata in vigore, in applicazione delle regole generali, il 5 giugno 2016. Il co. 35 ha cura di precisare ulteriormente che le disposizioni riguardanti le unioni civili acquistano efficacia a decorrere dalla data dell’entrata in vigore della nuova legge.
3 Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile.
4 È questa la scelta compiuta dall’art. 6 del citato d.P.C.m. n. 144/2016, per individuare l’ufficiale dello stato civile competente a ricevere la dichiarazione di divorzio prevista dall’art. 12 d.l. n. 132/2014. regole di competenza che, per l’ultimo comma dell’art. 6 cit., sono applicabili anche per individuare l’ufficiale dello stato civile competente a ricevere la dichiarazione prevista, ai fini dello scioglimento dell’unione, dall’art. 1, co. 24, l. n. 76/2016.
5 Sui criteri per individuarne la competenza territoriale, si veda § 3. In ogni caso, la coincidenza fra la competenza dell’’ufficiale dello stato civile a ricevere la prescritta dichiarazione e quella del tribunale, è soltanto eventuale ed accidentale.
6 Vellani, M., Pubblico ministero (dir. proc. civ.), in Dig. civ., XVI, Torino, 1997, 142 ss.
7 Così la circ. Min. interni, n. 6/2015 peraltro annullata dal TAR Lazio, 7.7.2016 su ricorso di alcune associazioni di cultori del diritto di famiglia: v. Tommaseo, F., Il TAR e una circolare controversa: quale interpretazione dare al divieto di trasferimenti patrimoniali?, in quotidianogiuridico.it, 14 luglio 2016.
8 Coì Lenti, L., La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, in Ius civile (iuscivile.it), 2016, 95 s.
9 Si tratta della dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13, co. 1, lett. b), d.P.R., 30.5.1989, n. 223, Nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente.
10 Il legislatore ha qui disciplinato una manifestazione dell’autonomia negoziale finora non tipizzata: sull’argomento vedi Oberto, G., La convivenza di fatto, i rapporti patrimoniali e il contratto di convivenza, in Fam. dir., 2016, 943 ss., ma anche, dello stesso autore, sulla situazione anteriore alla legge in commento, I diritti del convivente: realtà e prospettive, Padova, 2012.
11 In attesa dei decreti legislativi è stato emanato, come si detto, il d.P.C.m. n. 144/2016.
12 C. cost., 23.5.2008., n. 169, in Fam. dir., 2008, 670 ss.
13 App. Milano, 16.10.2015, annotata da Tommaseo, F., Sul riconoscimento di un’adozione estera del figlio del partner d’una coppia omosessuale, in Fam. dir., 2016, 271 ss.
14 In questo senso, ora anche Cass., 22.6.2016, n. 12962, in Dir. giust., 2016, 61 ss. con nota di Figone, A., La Cassazione dice sì alla “stepchild adoption”, e già, in questi termini, Trib. min. Roma, 29.10.2015 e 30.7.2014, in Fam. dir., 2015, 574 ss. con nota di Ruo, M.G., A proposito di omogenitorialità adottiva e interesse del minore, su cui v. anche la nota sostanzialmente adesiva di Long, J., L’adozione in casi particolari del figlio del partner dello stesso sesso, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 117 ss.