Unioni civili: profili penalistici della riforma
L’assetto giuridico dei rapporti familiari ha subito un epocale cambiamento con la l. 20.5.2016, n. 76, che ha istituito le unioni civili tra persone dello stesso sesso e ha disciplinato le convivenze di fatto. La riforma produce effetti anche nel diritto penale, che tuttavia sono stati sostanzialmente trascurati durante i lavori parlamentari. In particolare, quanto alle “unioni civili”, in assenza di un’espressa previsione di legge è il Governo, attraverso una generica delega legislativa non specificamente riferita al diritto penale, ad essersi fatto carico del problema del coordinamento con le disposizioni penalistiche interessate dalla riforma. Oltre a prendere atto delle non poche novità (estensione di norme incriminatrici, circostanze del reato, scusanti e cause di non punibilità), l’interprete deve confrontarsi con alcuni profili problematici: un sospetto (parziale) eccesso di delega e il mancato coordinamento normativo in rapporto alle convivenze di fatto.
SOMMARIO 1. La ricognizione 2. La focalizzazione 2.1 Convivenze di fatto e diritto penale: le novità 2.2 Unioni civili e diritto penale 2.3 Lo schema di decreto legislativo 2.4 Nuova nozione di “prossimi congiunti” 2.5 Nuove nozioni di “matrimonio” e di “coniuge” 2.6 Non punibilità per i delitti contro il patrimonio 2.7 Novità in ambito processuale (cenni) 3. I profili problematici
La l. n. 76/2016 («Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze») – nota anche come legge Cirinnà – segna un momento storico nel diritto di famiglia italiano: con essa infatti viene istituita l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione»1, e viene altresì introdotta una disciplina organica delle convivenze di fatto.
Quanto alle «unioni civili», con la l. n. 76/2016 anche nel nostro ordinamento, al pari di quanto avvenuto più o meno di recente in diversi paesi europei ed extraeuropei, si riconoscono svariati effetti giuridici a relazioni affettive tra persone dello stesso sesso, maggiorenni, che istituiscono il relativo vincolo con dichiarazione resa, in presenza di testimoni, davanti a un ufficiale dello stato civile. Le parti dell’unione civile2 – che possono stabilire di assumere un cognome comune, scegliendolo tra i loro – acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; hanno l’obbligo della reciproca assistenza materiale e morale e della coabitazione; sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni; concordano tra loro l’indirizzo della «vita familiare» e fissano la residenza comune; definiscono tra di loro il regime patrimoniale che, in assenza di diversa convenzione, è costituito dalla comunione dei beni. In via di principio – e con alcune significative esclusioni, a partire dalla disciplina in materia di adozione – la ratio della legge Cirinnà è di operare un riconoscimento di effetti ad ampio raggio – all’interno della coppia e nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i terzi in genere – che colloca le unioni civili in posizione sostanzialmente equiparata al matrimonio.
Quanto poi alle «convivenze di fatto», la l. n. 76/20163 amplia significativamente il novero dei diritti e delle facoltà riconosciute dall’ordinamento ai conviventi, definiti come «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile»4. Il riconoscimento riguarda diversi ambiti e, in particolare, quelli dell’assistenza sanitaria, della casa e del lavoro. In particolare, quanto all’assistenza sanitaria, in caso di malattia e di ricovero la l. n. 76/2016 prevede non solo il diritto reciproco di visita, di assistenza e di accesso alle informazioni personali, secondo le stesse regole previste per i coniugi e i familiari, ma si spinge ben oltre, attribuendo a ciascun convivente la facoltà di designare l’altro convivente quale rappresentante per le decisioni in materia di salute – in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere – e per la donazione degli organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie, in caso di morte. Quanto ai rapporti tra i conviventi, la legge stessa ha infine previsto la possibilità di regolare i rapporti patrimoniali attraverso un “contratto di convivenza”.
Va da sé che, a fronte del riconoscimento, ad ampio spettro, di diritti e obblighi connessi a rapporti di coppia ulteriori e diversi rispetto a quello, tradizionale, del matrimonio, la legge Cirinnà ripercuote i propri effetti nei diversi rami dell’ordinamento: non solo nella sfera del diritto civile – indubbiamente in primo piano – ma anche, per quanto interessa in questa sede, nel diritto penale5.
È risaputo che la famiglia, il matrimonio e i relativi vincoli, sono realtà giuridicamente rilevanti anche per il diritto penale. Il pensiero corre subito ai «Delitti contro la famiglia» (titolo XI del libro II c.p.) e alle altre numerose disposizioni, collocate nel codice penale e nelle leggi complementari, che a vario titolo danno rilievo ai rapporti familiari e coniugali in specie. Si pensi, solo a titolo di esempio, quanto ai delitti contro la persona, all’aggravante per l’omicidio del coniuge, ex art. 577, co. 2, c.p.; quanto ai delitti contro il patrimonio, alla causa di esclusione della punibilità per i fatti commessi contro il coniuge non legalmente separato, di cui all’art. 649, co. 1, c.p.; quanto ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, alla scusante accordata dall’art. 384 c.p. per chi ha commesso il fatto – in ipotesi, una falsa testimonianza – per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Quando l’evoluzione sociale dei rapporti di tipo familiare viene recepita e riconosciuta dal diritto – come in occasione della l. n. 76/2016 – si pone il problema dell’adeguamento alla nuova realtà delle disposizioni penalistiche – molte delle quali risalenti al Codice Rocco – che fanno riferimento alla famiglia e ai rapporti coniugali. All’indomani dell’approvazione della legge Cirinnà ci si è infatti domandati se e quali di quelle disposizioni debbano oggi essere riferite, con effetti in malam e/o in bonam partem, anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso e/o alle convivenze di fatto6. Si tratta, com’è evidente, di un problema di non poco conto sotto il profilo delle scelte politico-criminali, che deve peraltro confrontarsi con l’esigenza di una necessaria parità di trattamento, anche nel ramo penalistico dell’ordinamento, tra i diversi vincoli di tipo coniugale e paraconiugale. Senonché, verosimilmente proprio in ragione del profilo spiccatamente politico e simbolico delle scelte in questione, il legislatore ha preferito non affrontarle esplicitamente, per non rendere più arduo un percorso parlamentare già di per sé complesso (la riforma è stata tutt’altro che incontrastata). Il Parlamento ha così perso l’occasione per una complessiva rimeditazione dei rapporti tra “famiglie” e diritto penale, tanto in relazione alle convivenze di fatto, quanto alle unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Quanto alle convivenze di fatto, è arcinoto, che il nostro codice penale risale al 1930 e che solo in anni recenti sono state episodicamente introdotte alcune disposizioni che danno rilievo alla convivenza more uxorio. Emblematico è il caso del classico delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), trasformato nel 2012 in «Maltrattamenti contro familiari e conviventi». Ed è altresì noto come, in assenza di interventi del legislatore, il giudice penale non possa adeguare la norma alla mutata realtà sociale dei rapporti di coppia, trovando un ostacolo insuperabile ora nel divieto di analogia (quando l’interpretazione evolutiva produrrebbe effetti in malam partem), ora nel carattere eccezionale delle disposizioni via via considerate (nel caso, invece, di effetti in bonam partem). Il pensiero corre, a tale ultimo proposito, ad annose questioni: l’estensione ai conviventi di fatto della scusante di cui all’art. 384 c.p., in tema di delitti contro l’amministrazione della giustizia, ovvero della causa di non punibilità ex art. 649 c.p., in materia di delitti contro il patrimonio.
Dottrina e giurisprudenza da tempo sollecitano un intervento del legislatore, volto ad ammodernare la disciplina penale mettendola al passo con quella stessa mutata realtà sociale che fa da premessa, oggi, alla legge Cirinnà. In questa direzione un autorevole invito si deve, ancora di recente, alla Corte costituzionale, che nel 2015, in una pronuncia di inammissibilità relativa all’art. 649 c.p. ha ricordato che «spetta al ponderato intervento del legislatore ... l’indispensabile aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare» (C. cost., 5.11.2015, n. 223).
A fronte di questo contesto, sostanzialmente assenti, nella legge Cirinnà, sono tuttavia le novità che interessano il ramo penalistico dell’ordinamento relativamente alle convivenze di fatto. L’unica espressa disposizione in qualche modo relativa al diritto penale (inteso in senso lato) è contenuta nell’art. 1, co. 38, ai sensi del quale «i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario». Si tratta di un’affermazione certamente importante sul piano di principio, che però non è per lo più innovativa. L’ordinamento penitenziario, infatti, parifica già oggi a diversi effetti i diritti del convivente a quelli del coniuge. È così, ad esempio, per quanto riguarda i colloqui (art. 37 o.p.), anche in caso di sorveglianza speciale (art. 14 quater o.p.) e nel contesto del regime del cd. carcere duro (art. 41 bis o.p.); la corrispondenza telefonica (art. 39 o.p.); i permessi al detenuto per far visita al coniuge o convivente in imminente pericolo di vita o comunque in casi di particolare gravità (art. 30 o.p.), ovvero affetto da grave disabilità (art. 21 ter o.p.); l’invio di parte del peculio da parte del detenuto (art. 25 o.p.; art. 57 reg. o.p.). L’efficacia innovativa della citata disposizione della l. n. 76/2016 sembra a conti fatti limitata all’art. 57 o.p., che estende la legittimazione alla richiesta di alcune misure alternative alla detenzione ai “prossimi congiunti” del condannato.
Al di là di questa marginale novità, non si segnala altro. È vero che si potrebbe pensare che la legge Cirinnà, nel definire le convivenze di fatto, abbia riconosciuto, in capo ai conviventi, un reciproco obbligo di assistenza materiale e morale, analogo a quello che grava sui coniugi, rilevante ex art. 40, co. 2, c.p.; sennonché a noi pare che ciò debba escludersi, limitandosi l’art. 1, co. 36, a fotografare una situazione di fatto (l’esistenza, appunto, tra i conviventi, di un reciproco vincolo di assistenza materiale e morale) e non a imporre un corrispondente obbligo giuridico.
Piuttosto, va segnalato che promette invece di avere una significativa ricaduta penalistica – in tema di consenso nell’attività medicochirurgica e di scelte di fine-vita – la già citata disposizione della l. n. 76/2016 che consente di designare l’altro convivente come proprio rappresentante per le decisioni in materia di salute, con poteri pieni o limitati, in caso di malattia che comporti l’incapacità di intendere e di volere.
Ben più articolato è il quadro per quanto riguarda i riflessi penalistici dell’istituzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso: nonostante il silenzio della legge, che non incide direttamente su disposizioni penalistiche, la volontà legislativa di parificare ad ampio raggio le nuove formazioni sociali rispetto al matrimonio promette di produrre un impatto ben maggiore sul diritto penale.
Anzitutto, sul terreno della parte generale, va segnalata la costituzione di una posizione di garanzia ex art. 40, co. 2, c.p., analoga a quella istituita in relazione ai coniugi dall’art. 143 c.c. L’art. 1, co. 11, l. n. 76/2016 stabilisce infatti che «dall’unione deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione». Ciascuna delle parti dell’unione civile può pertanto essere chiamata a rispondere dell’omicidio o delle lesioni personali procurate all’altra parte attraverso una condotta omissiva, dolosa o colposa (si pensi alla mancata prestazione di cure o alimentazione al partner che ne sia bisognoso, per qualsiasi ragione).
Ben più numerose sono le novità attese nella parte speciale del diritto penale, dove in rapporto a una pluralità di disposizioni che si riferiscono al “matrimonio” e/o ai “coniugi” si pone un problema di adeguamento alle “unioni civili”. Naturalmente, in un diritto penale retto dal principio di legalità, l’estensione analogica di quelle disposizioni da parte del giudice è bandita, sicché deve provvedervi il legislatore.
In tal direzione vengono in rilievo due disposizioni della l. n. 76/2016, che si fanno carico, in rapporto all’ordinamento giuridico nel suo complesso – compreso pertanto il diritto penale –, dei problemi di coordinamento con il nuovo istituto delle “unioni civili”:
a) l’art. 1, co. 20, detta una clausola generale di adeguamento automatico, stabilendo che «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso … »;
b) l’art. 1, co. 28, lett. c), delega il Governo ad apportare con un decreto legislativo – limitatamente alle “unioni civili” – «modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti».
A fronte di questo dato normativo, il legislatore delegato si è trovato di fronte a una fondamentale alternativa: ritenere la clausola di equivalenza di cui all’art. 1, co. 20 idonea e sufficiente e realizzare il necessario coordinamento anche sul versante penalistico dell’ordinamento, ovvero intervenire su quel versante esercitando la delega di cui all’art. 1, co. 28, lett. c).
La prima soluzione (clausola di “adeguamento automatico”) avrebbe rimesso sostanzialmente il problema nelle mani dell’interprete e comportato comunque effetti limitati alle disposizioni penalistiche delle quali possa dirsi che contribuiscono in qualche modo ad «assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile». È quel che si sarebbe potuto dire, ad esempio, della norma incriminatrice della violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), ma non anche, ad es., della norma che punisce l’abuso d’ufficio in ipotesi di omessa astensione in presenza di un conflitto d’interesse con un prossimo congiunto, o dell’aggravante dell’omicidio ai danni del coniuge (art. 577, co. 2, c.p.), ovvero della causa di non punibilità per i delitti contro il patrimonio ex art. 649, co. 1, n. 1, c.p., ovvero, ancora, della scusante ex art. 384, co. 1, c.p.7.
Senonché il Governo ha scelto di seguire la seconda delle strade indicate. Il 4 ottobre 2016, infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato uno schema di decreto legislativo recante disposizioni di coordinamento in materia penale, adottato in attuazione della delega di cui all’art. 1, co. 28, lett. c), l. n. 76/20168. La premessa maggiore, come si legge nella Relazione illustrativa, è che «l’equiparazione contenuta nel comma 20 non può riguardare il diritto penale, specie sostanziale»: sarebbe infatti limitata «agli effetti civili, tributari, amministrativi, giuslavoristici». A sostegno di questa tesi la Relazione così argomenta: poiché con riguardo allo scioglimento delle unioni civili l’art. 1, co. 25 della l. n. 76/2016 richiama, in quanto compatibili, le norme sul divorzio di cui alla l. n. 898/1970, ivi compreso l’art. 12 sexies, che punisce l’omesso versamento dell’assegno divorzile (con un rinvio quoad poenam all’art. 570 c.p.), l’ulteriore coordinamento con il diritto penale sostanziale – per evitare vuoti di tutela e disparità di trattamento rispetto ai coniugi – dovrebbe essere realizzato attraverso un complessivo intervento in esercizio della citata delega legislativa. A fronte di un simile intento, indubbiamente nobile, va però problematicamente registrato il carattere non irresistibile dell’argomento impiegato dal Governo per escludere l’operatività in ambito penale della clausola di adeguamento automatico ex art. 1, co. 20, che – ribadiamo – opera in rapporto alle sole disposizioni, ovunque ubicate nelle leggi (anche nel diritto penale, pertanto), che contribuiscono ad assicurare l’effettività dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi nascenti dall’unione civile. Messa fuorigioco quella clausola teleologicamente orientata, nel versante penalistico dell’ordinamento, la strada intrapresa dal Governo – con una scelta della quale non può tacersi il carattere quantomeno problematico sotto il profilo del sospetto eccesso di delega – è stata come detto quella di rimettere a un decreto legislativo, pur in assenza di precisi criteri direttivi, il necessario coordinamento del diritto penale con il nuovo istituto delle unioni civili. La necessità di quel coordinamento, d’altra parte, conseguirebbe all’esigenza di tassatività/determinatezza della legge penale, che rende opportuno (rectius, necessario) un intervento del decreto delegato volto a rendere espresso l’adeguamento normativo. È questa – per inciso – una considerazione indubbiamente condivisibile, che però a nostro avviso non toglie il carattere problematico – sotto il segnalato profilo dell’eccesso di delega – di un intervento del decreto delegato – come quello che ci accingiamo a illustrare – che – questo è il punto – va oltre i confini segnati dalla clausola di adeguamento automatico ex art. 1, co. 20, operante con validità generale nell’ordinamento giuridico al solo fine di rafforzare i diritti e gli obblighi nascenti dall’unione civile.
Nello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri, il coordinamento del diritto penale con l’istituto delle unioni civili passa attraverso una generale equiparazione tra le parti delle unioni stesse e i coniugi, con effetti in malam e in bonam partem, più estesi di quelli realizzabili in applicazione della clausola di cui all’art. 1, co. 20, l. n. 76/2016.
Viene infatti, anzitutto, modificata la definizione legale di “prossimi congiunti”, dettata agli effetti della legge penale dall’art. 307, co. 4, c.p., inserendo nel relativo novero «la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso». Questa modifica, si legge nella Relazione, sarebbe d’altra parte necessaria in vista dell’attuazione della Direttiva UE 2015/849, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, che all’art. 3 «fa propria una definizione rilevante ai fini penali di familiari, che espressamente contempla accanto al coniuge una persona equiparata», con un «chiaro riferimento alla parte di un rapporto matrimoniale o paramatrimoniale analogo a quello derivante dall’unione civile».
La modifica della definizione di cui all’art. 307 c.p., come si legge nella Relazione, si rifletterà sulle disposizioni penali nelle quali ricorre il concetto di “prossimo congiunto”. Vengono in rilievo, quanto agli effetti in bonam partem: le circostanze attenuanti per la procurata evasione (art. 386, co. 4, c.p.) e per la procurata inosservanza di pene o misure di sicurezza (artt. 390, co. 2 e 391, co. 1, c.p.); la citata scusante relativa ai delitti contro l’amministrazione della giustizia (ad es., falsa testimonianza) commessi a favore di un prossimo congiunto (art. 384 c.p.); le cause di non punibilità relative ai fatti di assistenza ai partecipi di cospirazione o banda armata, o agli associati per delinquere (artt. 307, co. 3, e 418, co. 3, c.p.). Quanto agli effetti in malam partem, da segnalare, con la Relazione, è l’ampliamento dell’area di applicabilità dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), che interesserà anche la condotta di omessa astensione in presenza di un conflitto di interesse con la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri prevede poi l’introduzione di un nuovo art. 574 ter c.p. («Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale»), a chiusura del titolo XI («Dei delitti contro la famiglia»), con il quale si stabilisce che:
a) agli effetti della legge penale» (non pertanto con riguardo ai soli delitti contro la famiglia), «il termine matrimonio si intende riferito alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso»;
b) quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso».
La nuova disposizione amplia dunque, anzitutto, la nozione penalmente rilevante di “matrimonio”, con l’effetto di rendere configurabile in relazione alle “unioni civili” i delitti di bigamia (art. 556 c.p.) e di induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558 c.p.). Quanto in particolare alla bigamia, il delitto sarà configurabile:
a) nella forma della bigamia propria, quando: 1) una persona legata da un matrimonio costituisce un’unione civile tra persone dello stesso; 2) una persona legata da un’unione civile tra persone dello stesso sesso contrae un matrimonio;
3) una persona legata da un’unione civile tra persone dello stesso sesso costituisce un’altra unione civile tra persone dello stesso sesso;
b) nella forma della bigamia impropria, quando una persona non vincolata da un matrimonio o da un’unione civile costituisce un’unione civile tra persone dello stesso sesso con una persona che ha in precedenza costituito a sua volta un’altra unione civile.La nuova disciplina troverà applicazione – si noti – anche in relazione ai rapporti costituiti all’estero. Come riconosce la giurisprudenza, infatti, il delitto di bigamia è configurabile in relazione ai matrimoni celebrati all’estero e produttivi di effetti in Italia9. La nuova e più ampia figura della bigamia, risultante dall’introduzione dell’art. 574 ter c.p., troverà pertanto applicazione in relazione a unioni tra persone dello stesso sesso realizzate all’estero e produttive di effetti in Italia (si pensi ad es. al caso di chi abbia contratto un matrimonio in Italia e una Lebenspartnerschaft in Germania). La necessità/opportunità di modificare l’incriminazione della bigamia – una volta che si introducono nell’ordinamento istituti analoghi all’unione civile tra persone dello stesso sesso – trova d’altra parte conferma nel panorama internazionale. Va infatti considerato come alcuni ordinamenti stranieri vicini, dopo aver introdotto vincoli analoghi alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, abbiano esteso ad esse le tradizionali norme incriminatrici della bigamia. È il caso, in Germania, del § 172 StGB, modificato nel 2015 (Doppelehe; doppelte Lebenspartnerschaft –«Doppio matrimonio; doppia unione civile») e, in Svizzera, dell’art. 215 del codice penale («Matrimonio o unione civile registrata plurimi»).
Quanto poi alla nozione di “coniuge” lo schema di decreto legislativo, come si è detto, ne prevede l’estensione alla parte di una “unione civile” solo qualora la qualità di coniuge venga in rilievo come elemento costitutivo (è il caso del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ex art. 570 c.p.) ovvero come circostanza aggravante (non anche, incomprensibilmente, come circostanza attenuante). È il caso delle aggravanti dei seguenti delitti: omicidio (art. 577, co. 2, c.p., richiamato, per le lesioni personali, le mutilazioni genitali femminili e l’omicidio preterintenzionale dall’art. 585 c.p.); abbandono di persone minori o incapaci (art. 591, co. 4, c.p.); violenza sessuale e stalking (art. 609 ter, co. 5 quater e 612, co. 2, c.p.)10; prostituzione minorile, pornografia minorile, riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 ter, co. 6, c.p.); sequestro di persona (art. 605, co. 2, c.p.)11.
Lo schema di decreto legislativo interviene poi espressamente sull’art. 649, co. 1, c.p., ampliando l’ambito applicativo della causa di esclusione della punibilità ivi prevista, che viene estesa a favore di chi commette un delitto contro il patrimonio ai danni della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in costanza di coabitazione12. La Relazione governativa dà conto di come la modifica sia volta a evitare disparità di trattamento rispetto ai coniugi, in rapporto a una disposizione che, per quanto ritenuta dalla Corte costituzionale anacronistica13, non può evidentemente essere soppressa in assenza di un intervento legislativo e di una delega in tal senso. Va peraltro segnalato che nello schema di decreto legislativo non viene modificato il secondo comma dell’art. 649 c.p., nella parte in cui prevede la procedibilità a querela dei delitti contro il patrimonio commessi a danno del “coniuge legalmente separato”. Un ostacolo all’estensione analogica della disposizione, nei confronti di chi sia stato parte di un’unione civile disciolta, è rappresentato dal suo carattere eccezionale; d’altra parte, la mancata estensione sembra comportare un’irragionevole disparità di trattamento.
In materia processuale, lo schema di decreto legislativo si limita a intervenire sull’art. 199, co. 3, c.p.p., estendendo la facoltà di astensione dalla deposizione testimoniale, relativamente ai fatti appresi in costanza dell’ “unione civile”, nei confronti di chi non sia più legato dall’unione, che sia stata disciolta. A fortiori la facoltà di astensione, riconosciuta dall’art. 199, co. 1, c.p.p. nei confronti dei “prossimi congiunti”, si estende alle parti dell’unione civile (non disciolta).
Per il resto, la Relazione sottolinea come, nella materia processuale, il necessario coordinamento con l’istituzione delle “unioni civili” sia assicurato:
a) dalla modifica della nozione di “prossimo congiunto” di cui all’art. 307, co. 4, c.p., che avrebbe effetti non solo sostanziali ma anche processuali, incidendo sulle disposizioni del codice di rito che si riferiscono ai prossimi congiunti (artt. 90, co. 3, 96, co. 3, 199, co. 1, 597, co. 3, 632, 681, c.p.p.);
b) dalla clausola di adeguamento automatico di cui all’art. 1, co. 20, l. n. 76/2016, che opererebbe indubbiamente nel settore del diritto processuale penale, svincolato dal divieto di analogia, a partire dalla materia delle incompatibilità conseguenti al rapporto di coniugio, che devono ritenersi così estese al vincolo costituito con un’unione civile tra persone dello stesso sesso (v. gli artt. 35 e 36 c.p.p., quanto alle incompatibilità relative al giudice)14.
Consapevole delle esigenze di tassatività e precisione della legge penale, il Governo, nell’esercizio di una generica delega legislativa, si è fatto carico del coordinamento delle disposizioni penalistiche con il nuovo istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Nondimeno vanno segnalati due fondamentali profili problematici.
Da un lato, come già sottolineato, lo schema di decreto delegato appare eccedere i limiti della delega legislativa nella parte in cui l’equiparazione delle parti dell’unione civile ai coniugi non risponde al vincolo teleologico di cui all’art. 1, co. 20, l. n. 76/2016 (cioè al fine di tutelare i diritti e rafforzare gli obblighi nascenti dall’unione stessa. Emblematici i casi dell’abuso d’ufficio e dell’aggravante dell’omicidio).
Dall’altro lato, la l. n. 76/2016 non si è preoccupata – come sarebbe stato opportuno – del coordinamento del diritto penale con le convivenze di fatto. Si è persa a riguardo un’occasione per un intervento sistematico volto a eliminare disparità di trattamento nei confronti dei conviventi, oggi anzi forsanche accentuate dopo l’introduzione delle “unioni civili”. Emblematici, in tal senso, sono i casi della scusante di cui all’art. 384 c.p. e della causa di non punibilità di cui all’art. 649, co. 1, c.p., che continuano a non essere riferibili ai fatti commessi dai conviventi more uxorio.
Note
1 Così l’art. 1, co. 1, l. n. 76/2016.
2 Cfr. art. 1, co. 1013, l. n. 76/2016.
3 Cfr. l’art. 1, co. 3665, l. 76/2016.
4 Così l’art. 1, co. 36, l. n. 76/2016.
5 Per alcune osservazioni a caldo, ancora prima dell’approvazione definitiva della legge, sia consentito rinviare a Gatta, G.L., Unioni civili tra persone dello stesso sesso e convivenze di fatto: i profili penalistici della Legge Cirinnà, in www.penalecontemporaneo.it, 11.5.2016.
6 Ibidem.
7 Cfr., per una rassegna delle disposizioni rispetto alle quali sembrerebbe riferibile la clausola di adeguamento teleologicamente orientata, di cui all’art. 1, co. 20, l. n. 76/2016, Gatta, G.L., Unioni civili tra persone dello stesso sesso, cit.
8 Mentre scriviamo questo contributo, lo schema di d.lgs. è all’esame del Parlamento per l’espressione dei pareri delle competenti commissioni parlamentari (atto n. 346, trasmesso alla Presidenza del Senato il 5 ottobre 2016).
9 Cfr. Cass. pen., sez. VI, 13.12.2006, n. 9743, in CED rv. n. 235912, Ullo.
10 L’efficacia innovativa della riforma è peraltro limitata: le citate disposizioni infatti già contemplano quale possibile vittima del reato aggravato, accanto al coniuge, la persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
11 Quanto al sequestro di persona a scopo di estorsione, sembrerebbe che il nuovo art. 574 bis c.p. comporti l’estensione alla parte dell’unione civile della disposizione che prevede, per il coniuge, il sequestro dei beni utilizzabili per pagare il riscatto (art. 1, co. 1, d.l. 15.1.1991).
12 La Commissione giustizia della Camera, con parere dell’8 novembre 2016, ha espresso parere favorevole allo schema di decreto legislativo, condizionato peraltro proprio alla modifica della disposizione in esame: il riferimento alla coabitazione andrebbe soppresso e sostituito con quello alla «manifestata volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile», non ancora seguita dallo scioglimento della stessa.
13 C. cost., 5.11.2015, n. 223.
14 Cfr., per una rassegna delle disposizioni processuali che pongono problemi di coordinamento con le “unioni civili”, Gatta, G.L., op. cit.