universale
Dal lat. universalis (der. di universus «tutto intero»). Ciò che è comune a più realtà individue, per es., la (o le) proprietà che definiscono una classe particolare di individui, un genere o una specie. Corrisponde al gr. καϑόλου, termine che nel pensiero antico assume rilievo soprattutto nella filosofia platonica e aristotelica. Sulla scia dell’insegnamento socratico, incentrato nella ricerca dei concetti u. (il bene in sé, in quanto distinto dai molti beni particolari), Platone elabora la propria dottrina delle idee (➔) quali essenze immutabili, eterne, che si riferiscono alle realtà come u. a particolari, secondo la struttura logica del giudizio (rapporto soggetto-predicato), relazionandosi reciprocamente secondo la gerarchia dei generi e delle specie, ossia secondo il criterio della universalità decrescente delle idee stesse (al culmine delle quali è l’idea di bene, u. massimo). Pur criticando la spiegazione platonica del rapporto tra idee e realtà sensibili, Aristotele riprende e sviluppa il motivo dell’u. quale oggetto privilegiato della conoscenza; per lo Stagirita, inoltre, l’u. è, sul piano logico, «ciò che per natura si predica di più cose» (e che si contrappone al nome proprio, che ha per contenuto il singolo, per es., ‘Socrate’), ossia in primo luogo le categorie, quindi i generi e le specie, e la cui espressione peculiare si ha nel giudizio universale, che si distingue da quello particolare (e da quello indeterminato) poiché in esso il contenuto del predicato viene affermato (o negato) di tutti gli elementi contenuti nel soggetto. Attraverso Porfirio e Boezio la terminologia aristotelica è quindi passata, con tutte le sue problematiche gnoseologiche e non senza ambiguità semantiche, nella filosofia medievale, dando luogo alla famosa questione degli u. (➔ universali, questione degli). In età moderna, a partire da F. Bacone, il tema degli u. torna in primo piano soprattutto in relazione al problema epistemologico dell’induzione, ossia del passaggio dall’osservazione all’enunciazione della legge, e a quello gnoseologico della genesi delle idee (concetti), a partire dalle sensazioni (impressioni), per mezzo dell’attività riflessiva dell’intelletto. Particolare rilievo hanno avuto, in questo senso, le critiche mosse da Hume alla pretesa di ricavare conoscenze di carattere universale partendo dall’empiria («materie di fatto»); da tali critiche ha preso le mosse Kant, nel suo tentativo di giustificare l’attitudine universalizzante della conoscenza sulla base delle forme a priori della conoscenza (in questo senso, sono u. tanto il tempo e lo spazio, quanto le categorie, nelle quali l’universalità rientra come una delle tre forme della quantità). Nella riflessione epistemologica dei secc. 19° e 20°, invece, e specialmente negli orientamenti positivistici e neopositivistici, ha prevalso la tendenza a risolvere in termini logico-probabilistici, attraverso la teoria dell’induzione (➔), i problemi connessi alla giustificazione del carattere u. delle leggi scientifiche e delle affermazioni generali del tipo «tutti i corvi sono neri». Radicalizzando la soluzione kantiana, Hegel ha invece teorizzato l’u. concreto, quale «vero» u., o u. della ragione, essenzialmente distinto dall’u. «astratto» dell’intelletto in quanto esso non è contrapposto al particolare, ma lo contiene in sé, assieme all’individuale; frutto della dialettica dell’essenza, tale u. trova la sua specifica collocazione logica al livello del «concetto», costituendo il primo momento della logica soggettiva. La concezione hegeliana dell’u. concreto è stata parzialmente ripresa da Croce, il quale ha reinterpretato l’u. quale grado specifico dell’attività dello spirito, che trova attuazione nel pensiero, per quanto concerne la sfera conoscitiva, e nella morale, per quanto attiene alla dimensione pratica, rimanendo tuttavia distinto dal particolare (in quanto esso costituisce l’oggetto dell’estetica, nell’ambito teoretico, e dell’economia in quello pratico). La problematica dell’u. è tornata di attualità, nella seconda metà del Novecento, nell’ambito dello strutturalismo, in connessione con le indagini della linguistica strutturale sugli u. linguistici, e della filosofia analitica, in partic. nella metafisica descrittiva di Strawson, il quale ha riproposto l’esigenza di distinguere in senso ontologico tra enti particolari ed enti universali (o generali).