Ospedali, università e medicina
Il medico e anatomista danese Thomas Bartholin (1616-1680) negli anni Quaranta del Seicento aveva visitato l’Italia in un grand tour medico che lo aveva portato, tra l’altro, a Padova, Roma e Napoli, dove aveva stabilito duraturi rapporti di amicizia e collaborazione con medici e chirurghi. Circa trent’anni dopo, nel 1674, sottolineava che viaggiare era divenuto ormai indispensabile per il medico, ancor più che nell’antichità, quando pure l’abitudine allo spostamento aveva costituito parte integrante del mestiere della cura. Osservare di persona monti e fiumi e luoghi stranieri, discutere con i colleghi, entrare nelle officine e nei laboratori di chimici e farmacisti e, in particolare, visitare nosocomi, gli ospedali, era un passaggio indispensabile per apprendere la medicina pratica e, soprattutto, l’anatomia pratica, rivolta cioè a indagare le sedi e le cause delle malattie direttamente sui cadaveri.
Bartholin lodava gli ospedali italiani dove si praticavano una chirurgia e un’anatomia che gli apparivano all’avanguardia in Europa, insieme a quelle francesi; ma ricordava anche altri luoghi di interesse, come i musei e le raccolte scientifiche, in cui era dato osservare scheletri, strumenti chirurgici, animali e frutti, pietre e metalli esotici di vario tipo, ma tutti utili al medico; e raccomandava anche la visita a laboratori, officine e giardini, indispensabili per osservare piante e sostanze minerali e per informarsi sulla loro lavorazione.
La medicina pratica italiana di età moderna non è facile da ‘fissare’ in una descrizione sintetica, soprattutto se, oltre a percorrere la via della storia dei ‘grandi protagonisti’, si vuole tentare di valorizzare la vera e propria folla di praticanti la medicina, attivi in una realtà scientificamente avanzata, e ricca, come appunto sottolinea Bartholin, di istituzioni diverse e ben funzionanti. Questo consente di riflettere sul rapporto che intercorre tra l’arte o la scienza medica come complesso dottrinale e testuale, più o meno aggiornato o in mutamento, e l’attività concreta di cura – includendo quindi aspetti relativamente meno noti o percorsi, come il lento mutare dei quadri patologici generali, o di quelli della terapeutica e, in particolare, della farmacologia, tradizionale o chimica. Per superare questa difficoltà si è scelto di partire da un punto di vista specifico, quello appunto raccomandato da Bartholin e segnalato, a partire dal tardo Medioevo, come un’eccellenza italiana: l’istituzione ospedaliera. La scelta si giustifica per diverse ragioni: innanzi tutto perché in età moderna l’ospedale perde, ovunque in Europa, il suo carattere di luogo di assistenza ‘generalista’, per assumere quello di centro dell’attività medica; ma soprattutto perché in Italia questo processo è precoce, profondo, e conduce alla creazione di veri e propri ‘cantieri’ aperti di attività scientifica nel campo della medicina.
In generale, l’ospedale è stato un’istituzione tipica dei Paesi della Controriforma; ma la tradizione italiana risale assai indietro nel tempo, come dimostrano le radici medioevali di molte istituzioni mediche e assistenziali di età moderna. L’ospedale italiano è stato al centro dell’attività di curanti illustri e meno illustri, educati all’università, come i medici physici; ma è stato anche, e forse soprattutto, il luogo privilegiato di formazione e di attività dei praticanti la medicina considerati di livello inferiore, in quanto dediti ad attività ‘manuali’, come i chirurghi nelle loro diverse gerarchie e specializzazioni, i barbieri-chirurghi, le ostetriche, gli speziali, i membri degli ordini religiosi o delle associazioni devozionali laiche che si dedicavano in maniera privilegiata o esclusiva all’assistenza agli infermi.
A contatto con questi ‘altri’ curanti, i medici universitari hanno dovuto affinare la pratica e riapprenderla, anche al di là dell’istruzione formale ricevuta, e hanno così avuto preziose occasioni di incontro con punti di vista e saperi terapeutici, e perfino anatomici, fisiologici e patologici, parzialmente o totalmente diversi dalla medicina di scuola.
L’ospedale moderno non è solo un’istituzione di tipo medico, ma risponde a una pluralità di funzioni e bisogni, alcuni dei quali di carattere simbolico, ed è stato anche un centro di attività artistiche e finanziarie. Se gli ospedali erano di solito governati da comitati composti da laici eletti o nominati dal potere politico o municipale, pervasiva è stata la presenza al loro interno di ordini religiosi e di confraternite laiche dedite all’assistenza; il riferimento alla virtù cristiana della caritas è un passaggio obbligato di qualsiasi descrizione di questo tipo di istituzione. Se la stretta relazione tra cura dell’anima e cura del corpo è indubbiamente un aspetto particolarmente significativo per i Paesi della Controriforma, e soprattutto per l’Italia, è vero che le istituzioni ospedaliere che punteggiano l’intero territorio della penisola finiscono per diventare, in questo periodo, uno dei principali snodi di produzione, verifica, mutamento del sapere medico. Per esprimersi in termini prudenti, l’ospedale può essere considerato, oltre che una vetrina di prestigio politico e di dispiegamento della religiosità, soprattutto di quella controriformistica, anche come un luogo di pratica scientifica. Ma è invece possibile spingersi oltre, e affermare che l’ospedale diventa di fatto, nel corso dell’età moderna, uno dei luoghi più connotati in senso scientifico tra quelli presenti nel paesaggio urbano italiano.
L’ospedale è dotato di un’intrinseca strutturazione e stabilità, anche finanziaria, che ne garantiscono spesso la vitalità su un periodo assai lungo, mettendolo così al riparo dai capricci e dalle instabilità del patronage che affliggono molte istituzioni scientifiche, pur prestigiose; e ne fanno un centro dinamico di produzione e trasmissione di sapere, di scambio di casi, di nozioni, di teorie, di esperienze nel campo della chimica e della terapeutica farmacologica, dell’anatomia e dell’anatomia patologica, della medicina in senso lato e dei saperi a essa connessi.
Ciò non significa, naturalmente, presentare un’immagine apologetica di questa istituzione. Vanno scontati i conflitti e le negoziazioni interne (fra medici e chirurghi e anatomisti, fra ‘giovani’ e ‘vecchi’ in servizio, fra deputati, cittadini o religiosi, al governo dell’ospedale, e corpo dei curanti), i ritardi e le resistenze nell’accoglimento di pratiche scientifico-mediche innovative, la differenza fra centri più o meno avanzati, lo scambio, più o meno funzionante, con gli altri luoghi della pratica e dell’attività medica: le botteghe (di chirurghi e speziali), le case private, le corti, le università, i Collegi e i protomedicati, e le altre magistrature deputate al controllo e al governo della medicina e della salute. Tuttavia, ricercare e leggere con maggiore attenzione le tracce e le testimonianze dell’attività ospedaliera, riconoscere le potenzialità scientifiche insite in istituzioni deputate alla cura degli infermi può rappresentare un decisivo passo in avanti per offrire un’immagine meno semplicistica della medicina e, in genere, della scienza italiane, in molti casi ancora appiattite su generiche immagini di ‘decadenza’ e improduttività, con l’eccezione di poche figure di alto profilo. Non solo: restituire all’ospedale la sua posizione centrale nella vita scientifica italiana di età moderna può contribuire a una ridefinizione della vexata quaestio dei rapporti fra scienza e religione che, come si sa, non furono mai facili, ma che possono essere situati, come meritano, in una prospettiva più articolata e complessa di quella della semplice contrapposizione.
Per quanto diffusi anche nelle aree rurali e nei centri più piccoli, gli ospedali italiani sono caratteristici delle città maggiori, risalgono in gran parte al Medioevo e hanno quasi sempre subito una profonda ristrutturazione nel corso del Settecento, in corrispondenza con le riforme sociali del periodo. Sarebbe interessante delinearne una mappa approfondita, in grado di metterne in luce non solo la stratificazione e lo sviluppo nella vita dei singoli centri, ma anche una geografia più ampia, che renda conto della loro diffusione nelle diverse aree della penisola e dei loro rapporti con istituzioni ospedaliere minori, situate talvolta, come accade nella Firenze medicea o nella Napoli spagnola, in altri centri urbani più o meno vicini, come Pisa o Pistoia, o in luoghi di cura alternativi, come i bagni termali dell’area flegrea.
Qui ci si limiterà a descrivere alcune istituzioni rappresentative, nell’intento di offrire una casistica tutt’altro che esaustiva, e di dare una prima idea della varietà del modello e della sua evoluzione nel tempo. Un aspetto importante, oltre a quello geografico-spaziale, è però anche quello cronologico: una gran quantità di queste istituzioni, risalenti spesso, come si è detto, al Medioevo, è rimasta attiva nel campo dell’assistenza medica fino al passato recentissimo, se non fino a oggi. Le ragioni di questa persistenza sono molte e diverse, e non è il caso di affrontarle qui, ma non si può trascurare l’impatto che le ‘opere pie’ hanno avuto nell’organizzazione sanitaria italiana, ben oltre l’Unità.
L’ospedale Maggiore di Milano, detto la Ca’ Granda, è stato uno dei maggiori nosocomi del Nord Italia. Fondato nel 1456 dal duca Francesco I Sforza e da sua moglie Bianca Maria Visconti, nelle vicinanze di un corso d’acqua – il Naviglio – e di una darsena cittadina, oggi interrata – il Laghetto –, la sua prima costruzione fu affidata al Filarete, architetto fiorentino di fama. Sia il tipo di pianta, incentrata su vaste corti aperte, su logge e su lunghe e ampie corsie, con al centro l’edificio della chiesa, sia la vicinanza a un corso d’acqua restarono una caratteristica costante di questo tipo di edificio. Nuovi cortili e corpi furono via via aggiunti all’ospedale Maggiore nel corso dei secoli, fino al Settecento e oltre, rispettando però l’ispirazione e, in qualche caso, gli stessi progetti quattrocenteschi.
Una delle caratteristiche più significative degli ospedali italiani, come si è detto, è appunto la loro ‘lunga durata’ istituzionale e fisica, che ha consentito non soltanto di percepirli come emergenze essenziali del tessuto urbano, ma anche di educarvi generazioni e generazioni di curanti, favorendo in tal modo la trasmissione del sapere medico, delle tradizioni operatorie e terapeutiche, dell’esperienza al letto del malato e del sapere anatomico sviluppato attraverso un gran numero di dissezioni.
L’ospedale Maggiore fu progettato come centro di un ‘sistema’ di istituzioni precedenti, di cui era la più moderna e la più caratterizzata in senso medico. Nel primo Cinquecento, secondo il consigliere ducale Gian Giacomo Gilino, vi erano tre ‘bracci’, o corsie, per gli uomini, e uno solo per le donne, che erano quindi in proporzione in numero maggiore in una sola corsia; a ciascun braccio erano addetti un medico e un chirurgo; ma vi operavano anche un litotomista, che curava i pazienti affetti dal ‘mal della pietra’ (i calcoli uretrali), uno specialista in ernie, e uno specialista nella tigna, malattia che si attribuiva ai bambini ma non colpiva solo loro. I pazienti accolti dall’ospedale Maggiore al principio del 16° sec. erano circa duemila l’anno, e fra loro non si trovavano solo i poveri, come dimostra l’esistenza di stanze particolari, destinate ad accogliere persone ‘di riguardo’, stanze che si ritrovano peraltro in quasi tutte le istituzioni del periodo in Italia. I più ricchi, o gli abbienti senza legami familiari, potevano anche concludere contratti che prevedevano una cessione di beni in cambio di assistenza vita natural durante. L’ospedale era dunque un’istituzione in cui un certo numero di persone – medici, assistenti, serventi, pazienti che potevano anche svolgere funzioni di curanti – viveva in maniera stabile, in un’organizzazione sociale entro certi limiti autoregolata e autonoma.
L’ospedale Maggiore, creato quindi con la specifica funzione di provvedere all’assistenza medico-sanitaria, serviva anche da centro di smistamento per i pazienti verso altre istituzioni cittadine specializzate, previo esame da parte di un medico o di un chirurgo: i lebbrosi o i sofferenti di cancrena erano indirizzati al S. Lazzaro; i sifilitici, che soffrivano di una malattia appena emersa, ma già rapidamente diffusa, e molto temuta perché ritenuta impossibile da curare, venivano inviati all’ospedale del Brolo, dove era a loro disposizione un ‘fisico’; i malati di mente venivano ricoverati all’ospedale di S. Vincenzo; una serie di istituzioni erano destinate al ricovero di donne, anziani o bambini abbandonati.
Come si può vedere da questo esempio milanese, l’istituzione ospedaliera non può in nessun caso – anche in centri più piccoli di Milano – essere descritta e studiata isolatamente. Gli ospedali hanno da sempre costituito il centro di reti: di altre istituzioni analoghe, di curanti attivi su diversi piani, di impiegati in diversi tipi di mestieri. A Milano si ricordano, oltre ai deputati incaricati del governo della Ca’ Granda, il governatore dei granari, il farinaro e fornaro, il panettiere, il custode della cantina e quello della dispensa (si ricordi che il controllo del regime alimentare era parte essenziale della terapeutica), i cuochi e le lavandaie, il tesoriere, l’ingegnere, il maestro di casa, il gruppo dei ‘ministri’ o serventi; per le donne, svolgevano questa funzione altre donne. C’era poi uno speziale: la spezieria, per cui era prevista una voce importante del bilancio, provvedeva di medicine anche i poveri delle parrocchie circostanti. Particolarmente interessante è il fatto che l’ospedale Maggiore avesse attivato già dalla fine del 15° sec., su legato di Tommaso Piatti, una speciale scuola di arti liberali, provvista di una sua libraria, dove si insegnavano lettere greche, dialettica, aritmetica e geometria, astrologia. Gli ospedali si accreditavano così, molto precocemente, anche come luoghi di educazione e formazione scientifica.
La diffusione della sifilide al principio del 16° sec. pose una serie di questioni di tipo teorico: si trattava di una malattia ‘nuova’, del tutto sconosciuta agli autori antichi, e di cui dunque era inutile tentare di rintracciare una descrizione nei testi precedenti i viaggi di scoperta nelle ‘Indie occidentali’, o era possibile ricondurla a patologie se non del tutto uguali almeno simili, già note agli antichi? Oggi – a meno di rivoluzionarie scoperte paleopatologiche – sappiamo che la sifilide è una patologia importata dal continente americano, diffusasi in Europa con estrema rapidità a causa della totale assenza di un’immunità acquisita nella popolazione. Ma la rapida diffusione della malattia, così come il meccanismo della sua trasmissione per via sessuale, divennero quasi immediatamente chiari ai primi del Cinquecento, anche se l’eziopatogenesi del male era incomprensibile nei termini della medicina umorale, che riteneva che le malattie fossero essenzialmente sbilanciamenti individuali degli umori dovuti solo in parte a cause esterne all’organismo (per es., cause ambientali: ‘miasmi’, venti, mal’arie).
Il meccanismo generale del contagio, nonostante le resistenze alla sua concettualizzazione da parte della medicina dotta, era però da tempo noto ai medici e a molti non medici, fra i quali veterinari e magistrati di pubblica sanità, anche a causa delle ricorrenti poussées di ‘peste’ che avevano seguito la grande, distruttiva epidemia del 1347-48. Fu un autore italiano, il medico veronese Girolamo Fracastoro, a proporre per la prima volta una teoria diversa da quella umorale, proprio per tentare di spiegare come ci si ammalasse di sifilide. Nel Syphilis, sive De morbo gallico libri tres, del 1530, e nel De contagione et contagiosis morbis del 1546, Fracastoro propose di identificare il veicolo dell’infezione in seminaria, ‘germi’ della malattia che potevano essere trasmessi da un ammalato a un sano. Si tratta di una delle prime formulazioni di una nozione di eziopatogenesi che prevede l’intervento di un agente patologico esterno all’organismo e che vi si insedia, procurandogli danni devastanti. La teoria di Fracastoro suscitò non poche discussioni, ma nel frattempo l’aspetto esterno delle lesioni sifilitiche e il decorso della malattia, nonché il suo impatto sociale, dovuto anche al suo carattere ereditario, erano divenuti tristemente noti.
Oltre che a una riformulazione innovativa di un importante segmento della patologia tradizionale, la sifilide dette luogo anche a nuove forme di assistenza – di origine devozionale – a questo particolare gruppo di infermi, circondati da un disgusto e da una riprovazione sociale che li rendeva simili ai lebbrosi medievali; e condusse infine anche alla creazione di un gruppo di ospedali di nuova concezione, diffusi in quasi tutte le maggiori città italiane e detti ‘degli Incurabili’ dal carattere senza speranza della malattia, ma forse anche dal tentativo di occultare con una perifrasi la realtà di un male dal nome ancora incerto (lue, morbo gallico, mal franzese) e che si era soliti nascondere.
La Fraternità del Divino Amore mosse i suoi primi passi a Genova nel Cinquecento, nell’ambito dei seguaci della mistica Caterina Fieschi Adorno, e la sua creazione fu dovuta all’iniziativa del notaio Ettore Vernazza, che la fondò nel 1497. Con una forte impronta di devozione laica (tranne che nel caso di Roma), la fondazione degli Oratori del Divino Amore è uno dei tentativi di riforma ‘umanistica’ interna alla Chiesa che, come molti di quelli che prevedevano una partecipazione attiva e ‘dal basso’ di non religiosi, furono travolti dalla Controriforma. La confraternita prese, già dai suoi primi anni, l’iniziativa della fondazione di un ospedale per gli Incurabili a Genova: rivolgendosi nel 1499 al Senato della Repubblica genovese, il gruppo animato da Vernazza faceva presente che i malati affetti da sifilide non potevano essere ricoverati nell’ospedale Grande già esistente a Genova, quello detto di Pammatone, che non ammetteva se non pazienti affetti da malattie di scarsa gravità e curabili.
Il modello genovese fu poi esportato – così come la Fraternità – in molte altre città italiane, da Venezia a Napoli, da Bologna a Roma. Le fondazioni degli ospedali italiani degli Incurabili risalgono tutte più o meno allo stesso periodo, intorno agli anni Venti del Cinquecento, e sono connotate sin dall’inizio dalla presenza di medici e chirurghi (questi ultimi erano tradizionalmente addetti a curare i mali apparenti alla superficie del corpo, come le piaghe sifilitiche), nonostante il sostanziale scetticismo nei confronti delle terapie proposte dalla medicina tradizionale. Ne furono però rapidamente elaborate di nuove: il trattamento mediante mercurio, di cui oggi comprendiamo l’altissima tossicità, fu usato al principio da curanti non physici, cioè non addottorati all’università, e provenienti dalla pratica della medicina chimica, che era ancora in parte percepita come pericolosa ed estranea alla compagine della medicina dotta, di impianto galenico-umorale. O almeno, così si narra nelle tradizionali storie della medicina; in realtà, il quadro che sta emergendo dalla nuova storiografia è quello di una permeabilità tra medicina ‘universitaria’ e pratiche empiriche, e quindi anche chimiche, molto maggiore di quanto alcuni rappresentanti estremi dei due schieramenti abbiano voluto far credere. In ogni caso, il mercurio – assunto attraverso fumigagioni e massaggi – rimase, accanto alla bevanda di estratto di lignum vitae, legno santo o guaiaco, un farmaco ricavato da un albero già noto dalla farmacopea dei nativi americani, il principale rimedio per la cura della sifilide almeno fino al primo Ottocento, e fu somministrato, come il guaiaco, negli ospedali degli Incurabili.
Gli ospedali non furono solo il luogo di uso e distribuzione di farmaci innovativi o almeno dotati di una certa efficacia – si pensi, per es., alla corteccia di china, il principale se non l’unico antifebbrifugo conosciuto, proveniente anch’esso dalle Americhe, dal Perù, che era distribuito gratuitamente dal romano arcispedale di S. Spirito in Sassia, dove si curavano i malati di ‘febbri’, tra cui la malaria, endemica a Roma e nella campagna che la circondava.
Gli ospedali divennero presto anche luoghi di sperimentazione e indagine anatomica e fisiologica: sui cadaveri, ma anche sui pazienti vivi, che erano seguiti quotidianamente fino alla guarigione (meno infrequente di quanto si sarebbe portati a credere) o alla morte. La storia della ricerca anatomica italiana sarebbe probabilmente molto meno ricca senza le possibilità di osservazione offerte dagli ospedali, ma qui intendiamo riferirci appunto a una sperimentazione più ampia e articolata della semplice autopsia, che prevedeva l’interazione tra l’informazione ricavata al letto del malato e le nozioni anatomofisiologiche che era possibile rilevare sul cadavere.
Per rendere più chiaro questo punto, si può utilizzare come centro di osservazione l’ospedale romano della Consolazione, al Campidoglio, una struttura più piccola di quelle già nominate, ma non certo minore nel panorama cittadino, che nel corso dei secoli ne aveva annesse altre due, l’ospedale delle Grazie e quello di S. Maria in Portico. Quest’ultimo faceva risalire la sua fondazione addirittura alla tarda antichità romana, alla matrona Galla, figlia di Simmaco. In età moderna l’ospedale accoglieva diversi tipi di pazienti, con una particolare attenzione per i feriti, uomini e donne: «in violenta corporis iactura civium valetudini restituendae», diceva un’iscrizione che ne chiariva la missione di guarigione di coloro che erano stati vittime di lesioni violente. Incidenti, duelli, violenze e altre cause di traumi erano infatti all’ordine del giorno negli agglomerati urbani del periodo. Le ferite, secondo la divisione professionale tradizionale, erano di competenza dei chirurghi; la Consolazione divenne così un luogo di eccellenza della ricerca chirurgica, e quindi anatomica, in città: vi lavorarono, tra gli altri, Mariano Santo (1488-1577), litotomo che operava il ‘mal della pietra’; il suo allievo Ottaviano Villa (metà 16° sec.); l’anatomista Bartolomeo Eustachi (1500/1510-1574); Cesare Magati (1579-1647), tra i più noti chirurghi italiani di primo Seicento; Guglielmo Riva (1627-1677), anatomista e chirurgo innovatore, attivo a metà secolo, che possedeva anche una ricca collezione privata, un ‘museo’ medico. L’ospedale attraeva anche numerosi stranieri, come gli olandesi Gisbert Horst (1492-1556) e Pieter van Foreest (1521-1597).
L’attività di due medici di fine Seicento, entrambi attivi alla Consolazione, è utile per illustrare con un esempio concreto la questione della sperimentazione. Nel 1701 Antonio Pacchioni (1665-1726) pubblicava a Roma il De durae meningis fabrica, & usu disquisitio anatomica, uno dei primi studi accurati sulla struttura anatomica delle membrane cerebrali e sulle loro funzioni. Medico ospedaliero, originario di Reggio Emilia, Pacchioni aveva lavorato in diverse istituzioni romane; prima al S. Spirito, in seguito, dal 1690 al 1693, alla Consolazione come medico secondario, o assistente; dopo una parentesi a Tivoli come medico condotto, era tornato alla Consolazione come medico primario. Il suo lavoro scientifico è radicato nell’attività svolta in ospedale, dove la presenza di un gran numero di feriti gli aveva consentito di osservare sia pazienti vivi, con gravi lesioni al capo, sia morti e sottoposti a dissezione.
Nel suo testo, Pacchioni compara i risultati delle osservazioni ospedaliere con esperimenti condotti su animali, cani e gatti, svoltisi con ogni probabilità all’interno dell’ospedale stesso; fa riferimento alla rete delle proprie relazioni scientifiche, riferendo di scambi avuti con Giovanni Maria Lancisi, medico al S. Spirito, con Bartolomeo Santinelli, primario alla Consolazione, con Mario Cecchini, appartenente a una celebre dinastia di chirurghi, al S. Salvatore, con Francesco Scusonio, del quale cui poco sappiamo, tranne che fu medico assistente di Pacchioni stesso. L’historia morborum, la raccolta di casi, è ricca e vivace, ed è evidente che Pacchioni la considerava essenziale; molti casi sono riferiti da, o discussi con, colleghi medici e chirurghi, chiamati anche a testimoniare sulla veridicità delle sue affermazioni e sulla correttezza delle sue osservazioni.
Pacchioni aveva lavorato anche a stretto contatto con un medico molto più celebre di lui, il dalmata – educato a Napoli e a Roma negli ultimi anni della sua breve vita – Giorgio Baglivi (1668-1707), la cui fama è oggi affidata soprattutto allo Specimen quatuor librorum de fibra motrice et morbosa, pubblicato a Roma nel 1702, dove si afferma che la fibra è un’unità minimale costitutiva del corpo animale, capace di irritazione e dunque di sensibilità e di ‘moto’. Baglivi e Pacchioni furono coinvolti in un’aspra disputa, che non è possibile ricostruire qui, sulla priorità della teoria della fibra; ma anche Baglivi, nel ripercorrere le tappe della propria inventio, era stato costretto a riconoscere il ruolo essenziale svolto dagli anni di lavoro alla Consolazione (dove peraltro egli non aveva, a differenza di Pacchioni, alcun ruolo ufficiale).
La disputa fra Baglivi e Pacchioni aveva come suo centro privilegiato l’ospedale, ma coinvolgeva anche altri luoghi, e ulteriori questioni di status. Pacchioni aveva tentato la carriera universitaria, senza successo; Baglivi era invece un celebre lettore allo Studio romano, legato alla corte pontificia, in contatto epistolare con i protagonisti della respublica medica. Questo non impediva il suo forte impegno in direzione di una riforma della pratica medica. Nel maggio 1702, scrivendo al botanico William Sherard, suo corrispondente inglese, Baglivi dice di avere ancora molto da fare e di aver consegnato alla stampa molti scritti, «acciò prima di morire vada ristabilita la prattica di medicina» (Royal Society, Sherald Letters 574), che a suo parere aveva raggiunto i suoi massimi risultati con la medicina greca, e in particolare con Ippocrate, per poi decadere.
Se oggi consideriamo Baglivi soprattutto come un teorico del ‘moto animale’, nella linea di Giovanni Alfonso Borelli e dell’inglese Francis Glisson, la sua attitudine e la sua preoccupazione principale erano però quelle del clinico, anche se di un clinico di eccezionale valore e aggiornato sul dibattito scientifico europeo. Per Baglivi non era possibile separare questi due aspetti della medicina, e l’anatomia – che era l’argomento della sua lettura alla Sapienza – sarebbe rimasta inutile senza uno stretto rapporto con l’attività concreta di cura: «Figmentum est anatome nisi reducatur ad usum curationemque morborum & utilitatem publicam» (G. Baglivi, Praefatio, nella forma di epistola ad amicum, a Opera omnia, 1703, p. XXIV). Fino a tutto il Settecento, Baglivi era peraltro noto essenzialmente come l’autore di un’opera di medicina pratica, il De praxi medica, pubblicata nel 1696 e, in un’edizione rivista, nel 1703. Il lavoro valorizza il ruolo degli ospedali italiani: è stato infatti elaborato, come si dice nella seconda edizione, «in Xenodochiis Italiae», e getta una luce interessante sul rapporto tra insegnamento universitario impartito ai futuri physici, sperimentazione scientifica e pratica clinica ospedaliera.
Le università italiane del Sei-Settecento sono state considerate, a lungo e in parte a torto, luoghi di stagnazione del sapere scientifico, di trasmissione di cognizioni e teorie libresche, obsolete e uniformemente tradizionaliste. Questo approccio teneva conto del dato reale di una restrizione imposta alla libera circolazione dei lettori, e alla concorrenza tra di essi, che era stata una delle caratteristiche delle facoltà – non solo mediche – italiane nel Cinquecento, e anche un fattore decisivo del loro successo a livello europeo.
Nel Quattro e Cinquecento le università – insieme ad accademie, musei, botteghe e corti – sono state il luogo di elezione di una riappropriazione, discussione e trasformazione dei testi antichi che ha segnato in profondità la successiva cultura medica. A contatto con le nuove esigenze pratiche e professionali della civiltà urbana del tardo Medioevo e del Rinascimento, e con le acquisizioni provenienti dai ‘nuovi mondi’ offerti alla consapevolezza europea dai viaggi di esplorazione e commercio, la cultura medica si trasforma fino a divenire quasi irriconoscibile.
Uno dei punti cruciali della ricezione della medicina antica è la discussione aperta sullo statuto stesso del complesso dottrinale di riferimento, caratterizzato dall’inscindibilità di teoria e prassi – ossia di scientia e di ars. La medicina, nonostante la sua imperfetta rispondenza all’ideale aristotelico di scientia, si impone come disciplina universitaria nel tardo Medioevo, adottando i metodi della scolastica, incentrati su lectio e disputatio, expositio, dubia, quaestio, e su un corpus testuale proveniente dall’antichità e stabilizzato intorno a due autori di riferimento, Galeno e Aristotele, che rappresentano l’alleanza tra filosofia naturale e medicina in Italia concretizzatasi nello stretto rapporto tra facoltà delle Arti e facoltà medica.
Già dal 12° sec. si conoscono, in traduzioni dall’arabo, l’Ars parva, il Commento ai Prognostici di Ippocrate e quello agli Aforismi di Ippocrate, tutte opere di Galeno, ma anche lavori pratici di tradizione araba, l’Isagoge ad Tegni Galeni di Ioannizio e il liber Pantegni, adattamento della Regalis dispositio di Alī ibn al Abbās. Alcuni di questi testi confluiscono in quello che diventa il canone di autorità per la didattica nelle università medioevali, e che si afferma con il nome di Articella: ne fanno parte l’Isagoge di Ioannizio, gli Aforismi e Prognostici di Ippocrate, il De urinis di Teofilo Protospatario, il De pulsibus di Filarete e, verso la fine del secolo, l’Ars parva di Galeno. A questo nucleo si sovrappone il testo che segnerà più profondamente l’insegnamento e la sistematizzazione della medicina a livello universitario nel Quattro e Cinquecento, il Canon di Avicenna. Come si vede, la tradizione medica antica è filtrata e arricchita con l’apporto essenziale della cultura medica araba, erede a sua volta, oltre che della medicina galenica, della tradizione tardoantica e bizantina. Successivamente, nuove traduzioni, effettuate direttamente dal greco, consentono di arricchire l’offerta dei testi medici disponibili. Si inizia a differenziare tra le posizioni di Aristotele e quelle di Galeno, come dimostrato, indirettamente, da opere come il Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum di Pietro d’Abano (1250 ca.-1316).
Nel corso del Trecento nelle università italiane si iniziano però anche a differenziare la medicina teorica e quella pratica, con una decisa preminenza delle cattedre universitarie di teorica, anche se a partire dal Quattrocento si afferma il genere testuale delle Practicae, che raccolgono descrizioni di malattie attraverso i loro sintomi, con il corredo delle terapie relative ordinate a capite ad calcem, dalla testa ai piedi. A partire dal Quattrocento l’irruzione dell’Umanesimo sulla scena della formazione e della cultura medica segna una novità significativa. A Ferrara insegna Niccolò Leoniceno (1428-1524), uno dei capofila di un recupero critico dei testi antichi, volto a leggerli con attenzione per ristabilire la correttezza della nomenclatura e del suo riferimento a oggetti precisi (oltre che in campo anatomico e patologico, anche in campo farmacologico e botanico). Le opere di Galeno, Ippocrate, Teofrasto, Dioscoride, degli enciclopedisti tardoantichi e bizantini, ma anche quelle dell’Aristotele greco e dei suoi commentatori greci, si possono finalmente leggere in edizioni accurate e libere dalle incrostazioni che vi si erano accumulate. La stampa produce capolavori come l’edizione Aldina del testo greco di Galeno (1525) e di Ippocrate (1526).
Gli studenti europei che confluiscono in Italia attraverso i percorsi della peregrinatio studiorum contribuiscono a diffondere le acquisizioni della medicina umanistica. Alcune opere importanti, come il De anatomicis administrationibus e il De usu partium di Galeno, erano ignote al Medioevo medico e si diffondono in questo periodo. In Italia il curriculum universitario di base si stabilizza così intorno ad Avicenna (primo fen del Canon), Galeno (Ars medica), Ippocrate (Aforismi) e si mantiene in questa forma per un periodo assai lungo. Nonostante questo, il rapporto tra corpus dottrinale e didattico e pratica medica non è scontato. Un caso particolarmente interessante è quello della ricezione della galenica Methodus medendi, la cui lezione viene elaborata da una serie di lettori universitari che, nella prima metà del Cinquecento, contribuiscono a problematizzare la terapeutica.
Nei primi anni Quaranta Giovanni Battista Da Monte, che insegna a Padova, si pone il problema generale del metodo di cura ed è contrario alla divisione tra theoria e practica; il suo collega Gerolamo Capivaccio dice espressamente che l’essenza della malattia può solo essere appresa al letto del malato, non in aula. Il napoletano Donato Antonio Altomare fa uno sforzo per applicare alle singole malattie i principi generali di metodo di Galeno, ma propone curationes innovative nel De medendis humani corporis malis, un’opera del 1559.
La stretta connessione tra studi di filosofia naturale e quelli medici, cioè tra il curriculum ‘artista’ e quello medico, accanto all’assenza o al ruolo minoritario delle facoltà di Teologia, è una caratteristica tipica delle università italiane, che se da un lato conduce all’accentuazione degli aspetti logici e metodologici della medicina, con lo sviluppo di una semeiotica matura e sofisticata, accentua dall’altro la competenza e l’impegno del medico sul terreno della filosofia naturale e lo predispone, più di altre figure professionali, alla conoscenza, se non all’accettazione, delle novità introdotte nelle discipline scientifiche in generale.
Le università italiane, sia centri importanti come Bologna o Padova, sia studi minori, furono nel Cinquecento all’avanguardia dell’insegnamento medico e anatomico, impartito a studenti provenienti dall’Inghilterra e dalla Germania, dall’impero asburgico e da zone ancor più periferiche. Il numero degli studenti stranieri si contrasse significativamente nel corso del Seicento, anche in seguito alle norme restrittive in materia religiosa imposte dopo il Concilio di Trento. Nonostante il rilievo di questi fenomeni, la storiografia tradizionale non ha però messo sufficientemente in luce la funzione che le università continuarono a svolgere fino al Settecento di luoghi di scambio di informazioni e di pratiche, nonché di terreno di conflitto tra visioni anatomiche, fisiologiche e patologiche divergenti e talora incompatibili.
Le note prese a lezione dagli studenti, per es., un tipo di documento ‘umile’ e quindi trascurato, mostrano come nel corso del Seicento il riferimento ad autori classici e tradizionalmente considerati necessari alla formazione di un buon medico, da Galeno ad Avicenna, fosse integrato con riferimenti ad autori e ricerche recenti e recentissimi. Nelle lezioni spesso i professori si limitavano a indicare l’esistenza di spiegazioni e sistemi scientifici incompatibili fra loro su punti essenziali, come la circolazione del sangue o la sanguificatio svolta dal fegato, uno dei punti di più aspro conflitto tra il modello anatomo-fisiologico galenico e quello ‘moderno’, di derivazione harveyana. Ma nel caso di riferimenti a strutture anatomiche specifiche e scoperte di recente (sistema chilifero, organi della riproduzione, alveoli polmonari, dettagli strutturali degli organi di senso, costituzione dei fluidi corporei come il sangue, struttura dei muscoli) il riferimento alle spiegazioni ‘moderne’ si rivela spesso dettagliato e approfondito; si arrivava perfino a utilizzare per le lezioni citazioni tratte dagli articoli pubblicati sul più recente genere di comunicazione della scienza, i periodici del tipo delle «Philosophical transactions» o dei diversi «Giornali de’ letterati».
Il tradizionale contenuto del percorso degli studi ne risulta scavato dall’interno e in definitiva reso quasi irriconoscibile, nonostante appaia formalmente rispettato nelle sue divisioni e propedeuticità, che restano quelle tardomedioevali. In università si può fare perfino riferimento a dottrine come l’atomismo, condannate dalla Chiesa e maneggiate con estrema prudenza dai protagonisti della vita scientifica, nonostante la grande diffusione tra i medici delle teorie e dei testi di Lucrezio e dell’interprete moderno dell’epicureismo, Pierre Gassendi. Ma sarebbe altrettanto interessante seguire l’utilizzazione per l’insegnamento di alcuni autori classici non del tutto ortodossi, tenuti ai margini dalla cultura medica tradizionale, come i chirurghi bizantini Aezio di Amida e Paolo di Egina, campioni di una chirurgia ‘interventista’ che non riscuoteva sempre i consensi dei medici.
Il curriculum degli studi rimase però in gran parte formalmente immutato, anche se emergono importanti elementi di novità. Il primo è l’espansione del ruolo di cattedre ‘minori’ come quelle, variamente articolate, di anatomia e chirurgia, o di botanica e materia medica – la chimica entra solo assai tardi a far parte della formazione ufficiale del medico, e resta una materia abbastanza controversa. C’è poi una progressiva maggiore importanza attribuita all’insegnamento della medicina practica (una disciplina peraltro abbastanza lontana da quella che noi oggi consideriamo la pratica medica), a scapito della theorica.
È significativo un esempio concreto, ricavato in gran parte dalle note degli studenti alle lezioni: ancora negli anni Ottanta del Seicento, a Napoli, l’insegnamento era articolato in una parte theorica, o speculativa (divisa in Physiologia, che «hominis constitutionem inquirit», Aethiologia, che «tractat de rebus non naturalibus: aer, cibus, potus, somnus, vigilia, motus, quies», Semeiotices, che «scrutat universa signa […] morbi», Pathologia, che «agit de affectionibus in genere et in specie nec non de morborum symptomati[bu]s», Therapeutices, che «medendi methodus docet»), e in una practica, seu operativa, divisa in Diaethetica, Pharmaceutica, Chirurgica In Lycaeo D.ni Lucae Tozza (sic) viri doctissimi, et publici lectoris in Alma Parthenope (London, Wellcome Library, Western Manuscripts, 4829-4830). A questa divisione tradizionale si era venuta però lentamente affiancando una partizione dove la pratica aveva più importanza, e che prevedeva un insegnamento diviso in tre sezioni, la Theoria, l’Antepraxis, sulle malattie in generale, e la Praxis con i morbi divisi secondo le diverse parti del corpo e descritti secondo il metodo tradizionale «a capite ad calcem», dalla testa ai piedi.
Nel corso del Settecento questo schema, più duttile e maneggevole del primo, e più gradito ai discenti per la sua chiarezza, si afferma definitivamente: è quasi inutile sottolineare che si tratta di uno schema nel quale la parte della medicina tradizionale può essere compressa fino a diventare poco più di una propedeutica, un omaggio ai grandi maestri dell’arte, in particolare a Ippocrate, e le novità – per es., la chimica e la sua applicazione estensiva alla farmaceutica, come avviene nelle lezioni napoletane di Francesco Serao (1702-1783) negli anni Venti e Trenta del Settecento – possono via via assumere un posto di maggior rilievo. Si tratta comunque sempre, come è chiaro dato il loro carattere, di lezioni di carattere teorico, in cui il riferimento testuale è preponderante; ma se le si vede in continuità con i primi tentativi di insegnamento al letto del malato, e con il contatto dei giovani medici con professioni varie e diverse presenti sul mercato della cura, assumono un valore speciale e diverso.
Le diverse discipline mediche, come la chirurgia, la farmacologia, le varie ‘arti’ tecniche, da quella del barbiere a quella della levatrice, vengono infatti insegnate e apprese in molti luoghi diversi, e specialmente a bottega; tra questi luoghi emerge ancora una volta, per importanza e ricchezza di esperienze offerte ai giovani medici e curanti, l’ospedale. L’università non può essere considerata isolata rispetto a questo mondo esterno, ricco di stimoli e intellettualmente vivace, anche perché spesso è l’università stessa ad aprirsi a lezioni o attività svolte fuori dagli spazi tradizionali. La costruzione cinquecentesca degli orti botanici e dei teatri anatomici rappresenta già una significativa articolazione degli spazi. Ma un’altra novità significativa si registra a Padova nel Cinquecento: negli anni Quaranta Da Monte utilizza, per l’educazione degli studenti in medicina, i pazienti dell’ospedale di S. Francesco, arricchendo le osservazioni che vi svolge al letto del malato con i casi della propria pratica privata (Bylebyl 1979).
L’uso dell’ospedale per l’insegnamento continua per tutto il secolo e oltre: nell’anno accademico 1577-78, Marco degli Oddi, medico primario all’ospedale di S. Francesco, e Albertino Bottoni, che tiene la prima cattedra di medicina practica straordinaria, sono incaricati di discutere in giorni prestabiliti i casi clinici in compagnia degli studenti, esemplificando la complessa logica della semeiotica, della prognostica e della terapeutica con casi concreti. L’interazione fra ospedale e didattica universitaria non è però esclusiva di Padova, ma si trova realizzata anche in altri centri, tra cui Roma, Bologna e Napoli.
Ma il rapporto dell’insegnamento con l’ospedale si rafforza nel corso del Seicento, e tra la fine del Seicento e, soprattutto, nel corso del secolo seguente l’esperienza offerta dal tirocinio in ospedale viene, se non imposta, almeno caldamente raccomandata, per un medico ‘moderno’, che sia quindi istruito nel metodo sperimentale matematico-geometrico, nella chimica e nell’anatomia, nella zootomia e nella botanica, ma che non otterrà la necessaria esperienza e forza d’animo nell’affrontare i mali dei pazienti se non attraverso una prolungata, diuturna frequentazione al letto dei pazienti riuniti in ospedale: «nisi multos annos publica adierit Nosocomia, in quibus infirmi omnis generis fere semper occurrunt, atque eorum lectis crebro, diuque assederit» (G.M. Lancisi, Dissertatio de recta medicorum studiorum ratione instituenda, 1715, p. 36). Sono parole di Lancisi, medico romano e archiatra pontificio, lettore alla Sapienza e impegnato nella vivace vita culturale e scientifica della Roma di Clemente XI. Nel 1715 Lancisi pubblica una prolusione sull’educazione dei medici che è anche un manifesto per una nuova dislocazione degli spazi dell’insegnamento e della pratica, la Dissertatio de recta medicorum studiorum ratione instituenda.
La distanza tra il medico physicus e il suo paziente poteva infatti essere davvero notevole, come si evince da uno dei generi medici più diffusi, quello del consulto: la pratica della cura ‘per lettera’ prevedeva che il medico curante descrivesse in dettaglio i sintomi del paziente, perché un collega più esperto, o più illustre, gli rispondesse proponendo a sua volta una diagnosi e una terapia. Esistono numerose raccolte di consulti: tra gli altri, di Francesco Redi e di Marcello Malpighi, di Lancisi e di Nicola Cirillo, di Antonio Vallisneri e di Giuseppe Del Papa. Dato il livello intellettuale dei loro estensori, la lettura dei consulti consente di avere un’immagine realistica della relazione di cura, ma anche di affrontare la questione del rapporto fra pratica medica e ricerca scientifica d’avanguardia. L’accumulazione a livello europeo di casi, relativi a diagnosi, terapie, esperienze di cura di diverso tipo, riuniti tra Cinque e Seicento in raccolte di observationes mediche, che sono state al centro di ricerche recenti (Pomata 2010), aveva modellato già dal secolo precedente un nuovo tipo di esperienza medica, incentrata sulla descrizione del caso individuale e sulla sua circolazione fra esperti.
In modo analogo, le raccolte di consulti – tipiche del panorama medico italiano – consentono di ricostruire l’iter seguito dai pazienti nell’accesso alle cure, e il posizionarsi dei curanti all’interno di un mercato della cura assai affollato e concorrenziale, così come il ricorrere dei pazienti a rimedi ‘empirici’ o chirurgici prima che, o accanto alle, cure del medico. La demarcazione tra medici ed empirici poteva essere difficile, ed era certo cruciale in un mondo stratificato e gerarchico come quello di ancien régime. Resta però che in ospedale il medico, come rileva lo stesso Lancisi, che pure rispondeva alle richieste di consulti che gli venivano rivolte da località anche molto lontane da Roma, apprendeva la necessaria prossimità al paziente, e anche quella ai suoi colleghi curanti.
Gli ospedali erano il luogo di elezione per l’educazione dei curanti non medici: per comprendere l’importanza delle scuole dei chirurghi si può ricordare quella, tra le più celebri in Italia, dell’arcispedale romano di S. Spirito. Ne conosciamo gli statuti del 1628 (Grégoire 1979), ma doveva essere attiva anche in precedenza, come dimostrano documenti e testi che fanno riferimento alle lezioni, svolte da medici e chirurghi celebri. Tra i suoi insegnanti più importanti vi fu il chirurgo Bernardino Genga (1620-1690), che collaborò con Lancisi, e che in tal modo introduceva un suo ciclo di lezioni:
Noi dunque essendo destinati ad instruir cauti studiosi di Chirurgia, a render amirabile al mondo questa academia famosissima, con insegnare le dotrine Chirurgiche, et Anatomiche, et havendo stabilito di descrivere li Cinque trattati di Chirurgia, ad indicazione di Zeusi andavamo rivolgendo le dottrine più ben fondate, delli Autori, tanto antichi quanto moderni, per restringer in uno la più nobile, e render tale instruzione, che aparisca più vagha, e più piena d’erudizioni (Delli tumori preternaturali, f. 1r).
Zeusi era il pittore classico che secondo la leggenda aveva creato un ritratto ideale di Elena raffigurando le parti più belle di cinque donne diverse; Genga diceva di voler procedere nello stesso modo, riferendosi implicitamente a una ‘biblioteca ideale’ del chirurgo che comprendeva autori antichi, in particolare Ippocrate, ma anche Galeno; e moderni, come Girolamo Fabrici d’Acquapendente, Cesare Magati, Gabriele Falloppio, Ambroise Paré, nell’intento di offrire agli allievi un’informazione il più possibile completa e aggiornata. Del resto, per gli stessi allievi, pochi anni prima, Genga aveva pubblicato una traduzione italiana dell’opera del medico inglese William Harvey sulla circolazione del sangue.
Il 21 luglio 1714, scrivendo a Giovan Battista Morgagni, Lancisi gli annunciava la decisione di collocare, proprio nell’ospedale di S. Spirito, una ricca biblioteca – in parte costituita dalla propria raccolta personale – al servizio di medici e chirurghi: «provavo un’estrema pena nella penuria de’ libri, ove tanta era l’abbondanza degl’infermi; e sì frequenti le occasioni di attentamente osservarli, e di esperimentare in essi ogni rimedio» (Lettere di Lancisi a Morgagni e parecchie altre dello stesso Morgagni ora per la prima volta pubblicate, ed. A. Corradi, 1876, lettera XXVI). La Biblioteca Lancisiana fu aperta in quell’anno, ma era stata concepita nei decenni precedenti, ed è un caso significativo, e in Italia quasi unico prima della fondazione della biblioteca dell’Istituto delle scienze di Bologna, di raccolta libraria specializzata nei campi della medicina e nelle discipline connesse. La raccolta dimostra quanto l’archiatra pontificio, intellettuale inquieto e medico in corrispondenza con i maggiori del suo tempo, fosse consapevole della necessità di rivolgersi sia a un pubblico di medici sia – caso eccezionale – a quello dei chirurghi.
La biblioteca, cui era annesso un corredo di strumenti, aveva l’ambizione di fare dell’ospedale uno dei centri di vita scientifica più vivaci della città, e si fondava sull’ottima reputazione che l’istituzione già possedeva in proprio. Il carattere assistenziale del S. Spirito, infatti, a parere di Lancisi, non impediva, e anzi favoriva, la necessità di offrire una formazione aggiornata a coloro che vi lavoravano, e potenzialmente a un pubblico molto più ampio. La stessa presenza della spezieria, nella quale non ci si limitava a distribuire gratuitamente la corteccia di china, ma si svolgevano esperimenti chimici, spingeva in direzione di una visione integrata della malattia e del trattamento del paziente – in direzione cioè di una medicina che andasse al di là delle divisioni professionali tradizionali e che utilizzasse con intelligenza le novità apportate da saperi e pratiche tenute ai margini della formazione tradizionale del medico.
La formazione universitaria viene così investita dal mutamento e dal dibattito nei campi dell’anatomia, della fisiologia e della chimica medica e accoglie risultati e metodi provenienti dall’esperienza dei chirurghi. La formazione dei chirurghi e degli speziali, a sua volta, risente positivamente del contatto con medici formati alle esperienze più avanzate nel campo della filosofia naturale, della botanica e della chimica, della geometria e matematica. Le esigenze di assistenza di poveri e infermi hanno fatto nascere istituzioni in grado di fornire alla ricerca medico-scientifica – teorica ma soprattutto pratica – copertura finanziaria, patronage e soprattutto un gran numero di ‘casi’ da studiare.
Nell’autunno del 1661, nel corso di un’epidemia di febbri che aveva colpito Pisa, Giovanni Alfonso Borelli, che insegnava presso lo Studio della città, fece eseguire nel locale ospedale, sottoposto da circa un secolo all’autorità di quello fiorentino di S. Maria Nuova, autopsie sui cadaveri di cinque pazienti che erano morti nella struttura. Scrivendone a Malpighi il 25 novembre di quell’anno, Borelli descriveva i danni rilevabili che i cinque corpi presentavano in comune: i polmoni erano di un aspetto e di un colore anomali, la cistifellea era ingrandita e il peritoneo tanto assottigliato da essere appena visibile. Borelli ottenne anche di analizzare il sangue e la bile di due pazienti, provando a sottoporli al fuoco e all’estrazione di sali. La procedura, anche se costituì oggetto di discussione tra due protagonisti della scienza, della medicina e dell’anatomia dell’epoca, era tutt’altro che straordinaria, e serviva a individuare lesioni comuni, e osservabili sul cadavere, che potessero essere attribuite a un’unica entità patologica specifica, che aveva colpito più individui.
Lo stesso aveva fatto, appena cinque anni prima, in condizioni ben più drammatiche – l’epidemia di peste del 1656 – il chirurgo romano Giuseppe Balestra, di cui non conosciamo neppure la data di nascita e di morte, ma soltanto una parte della carriera: primario del Lazzaretto all’Isola (Tiberina), durante l’epidemia, poi chirurgo al S. Spirito. L’uso di anatomizzare i cadaveri dei morti di peste era diffuso, e tradizionalmente rivolto più a individuare la presenza della malattia, e a lanciare l’allarme per le misure di quarantena e isolamento in previsione della diffusione di un’epidemia, che a fare avanzare le conoscenze sulle lesioni anatomiche ricollegabili alla peste.
Da questo come da altri numerosi casi, è evidente che l’ospedale cominciava a fornire la possibilità concreta di lavorare isolando le patologie, osservate attraverso sintomi specifici, dalle caratteristiche individuali, o ‘costituzioni’, dei singoli individui – da quei dati, cioè, da cui partivano la semeiotica e la patologia tradizionali, di impronta umoralista, che ne avevano codificato la raccolta, con risultati di grande virtuosismo, nel corso del Cinquecento (MacLean 2002). Certo non è l’ospedale l’unica sede di questa lenta trasformazione, che sposta l’attenzione dalle caratteristiche dell’individuo a quella delle entità nosologiche, autonome nella loro classificazione, con uno specifico quadro sintomatico e anatomopatologico. Tuttavia, specialmente in Italia, è l’ospedale a offrire un quadro istituzionale e un impulso decisivo a questo spostamento, che avviene proprio attraverso la grande ‘abbondanza di infermi’ che Lancisi contrappone alla penuria dei libri.
Negli anni Venti del Settecento un medico del S. Spirito, Domenico Gagliardi, estende su diversi anni, e su un gruppo assai numeroso di pazienti, le sue osservazioni sui sintomi e sulle lesioni osservabili sui cadaveri dei malati di ‘mali di petto’, una patologia polmonare che ha tradizionalmente afflitto la città di Roma. Gagliardi ne ricava un quadro patologico molto complesso, basato sull’esperienza e sulle osservazioni personali, sull’apertura di cadaveri, sulle testimonianze e i testi di altri medici che hanno scritto su casi analoghi (Relazione de’ mali di petto che corrono presentemente nell’archiospedale di Santo Spirito in Sassia, 1720). L’opera è dedicata a Sinibaldo Doria, commendatore dell’arcispedale: non un’autorità medica, ma un protagonista istituzionale, anch’egli legato a Lancisi. L’ospedale si conferma così come la sede di ricerche di punta, corroborate e incoraggiate da una struttura istituzionale forte, che consente di passare dal paziente individuale a una visione più ampia, in cui i casi sono numerosi e registrati, in cui la generalizzazione sulla malattia comincia ad affiancarsi a una visione del corpo ‘solidista’ più che umoralista, tipica della cultura del chirurgo; e in cui un’anatomia che si concentra di preferenza sul patologico piuttosto che sul normale apre la strada a quella che è stata considerata la ‘rivoluzione’ di Morgagni, e che forse è stata in verità soprattutto la sistematizzazione di una lenta, faticosa ricerca delle generazioni di curanti – medici e chirurghi – che l’hanno preceduta.
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G. Balestra, Gli accidenti più gravi del mal contagioso osservati nel Lazzaretto all’Isola con la specialità de’ medicamenti profittevoli, esperimentati per lo spatio di sette mesi, Roma 1657.
B. Genga, Anatomia chirurgica cioè Istoria anatomica dell’ossa, e muscoli del corpo humano, con la descrittione de vasi piu riguardeuoli che scorrono per le parti esterne, & un breue trattato del moto, che chiamano circolatione del sangue, Roma 1672.
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V. Magnati, Teatro della carità istorico, legale, mistico, politico in cui si dimostrano le opre tutte della Real Casa Santa degl’Incurabili, Venezia 1729.
Delli tumori preternaturali dettati dal Ecc.mo Sig.r Bernardino Genga chirurgo celeberrimo in Roma scritti da me Agostino Cencelli l’An. MDCXCII, London, Wellcome Library, ms. 2494-2495.
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