Abstract
Le riforme che, in tempi recenti, hanno interessato l’Università, quale «sede primaria di libera ricerca e di libera formazione», e le trasformazioni del contesto entro il quale essa è chiamata a declinare il proprio ruolo, rendono necessario ricostruirne lo statuto giuridico, per verificare a che punto siano le autonomie universitarie, in esito all’incontro con politiche che non sempre hanno espresso facili raccordi con le condizioni necessarie a qualificarle nella loro effettività. I nuovi vincoli che circondano l’assolvimento dei suoi compiti istituzionali, oggetto di «nuove» valutazioni che si sono fatte strumento «di governo» di ciò che il legislatore sceglie di definire come «sistema universitario» raccontano, d’altro canto, le torsioni alle quali è sottoposto lo stesso «dover essere» dell’Università, quando si confronta con i limiti delle uniformità imposte dalle tante regole di un centro statale che rinuncia a farsi governo delle differenze.
L’Università, quando ci si accosti ad essa con gli strumenti dell’analisi giuridica, si lascia descrivere più che definire. Lo stesso Costituente ha scelto di non definire l’Università ma di riconoscerla, anche nel tratto connotante dell’autonomia che, per l’art. 33, co. 6 Cost., condivide con le Istituzioni di alta cultura e con le Accademie, a corollario di quanto enunciato nel co. 1, per il quale «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».
L’autonomia dunque, come condizione che qualifica costituzionalmente l’Università, impegnando i legislatori ad assoggettarla a limiti comunque atti ad assicurarle gli spazi necessari alla sua effettività (in quanto autonomia ad essa spettante, «nei limiti delle leggi dello Stato», non è «piena ed assoluta», ma può essere accordata dallo Stato «in termini più o meno larghi, sulla base di un suo apprezzamento discrezionale, che, tuttavia, non sia irrazionale», C. cost., 3.5.1985, n. 145). La prima dichiarazione legislativa degli ambiti assegnati alla sua espressione giunge con la l. 9.5.1989, n. 168, il cui art. 6 si apre enunciando che «Le Università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’art. 33 della Costituzione, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile» oltre al diritto di darsi «ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti».
È l’annuncio dei «principi» di un’autonomia i cui termini sono, in parte, rinviati a una futura legge volta a darvi attuazione; in parte garantiti, come avviene laddove si precisa che le Università «sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento», essendo in particolare «esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare» (art. 6, co. 2, l. n. 168/1989). Anche l’autonomia finanziaria e contabile trovano, nell’art. 7 della l. n. 168/1989, una prima identificazione dei loro contenuti.
L’autonomia didattica, scientifica e organizzativa ricevono, invece, un riconoscimento generico se non ambiguo che si risolve nell’indicare quali siano i compiti istituzionali delle Università e quali le modalità e finalità del loro esercizio. In questo senso, l’art. 6, co. 3-4, l. n. 168/1989 ove si stabilisce che esse «svolgono attività didattica e organizzano le relative strutture nel rispetto della libertà di insegnamento dei docenti e dei principi generali fissati nella disciplina relativa agli ordinamenti didattici universitari» e che, quali «sedi primarie della ricerca scientifica», operano «per la realizzazione delle loro finalità istituzionali nel rispetto della libertà di ricerca dei docenti e dei ricercatori nonché dell’autonomia di ricerca delle strutture scientifiche».
Rappresentazioni di prerogative che occupano anche i successivi legislatori, nelle tante occasioni in cui intervengono nel settore sino alla più recente legge di riforma. L’art. 1, l. 30.12.2010, n. 240 ritorna infatti a descrivere le Università, dichiarando nel suo incipit che esse «sono sede primaria di libera ricerca e di libera formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e sono luogo di apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze; operano combinando in modo organico ricerca e didattica, per il progresso sociale, culturale ed economico della Repubblica».
Come sovente accade per le disposizioni di apertura, specie dei testi legislativi che si prefiggono di introdurre nuove discipline, mentre dichiarano il loro oggetto e il loro scopo, non hanno la capacità di determinare lo statuto giuridico degli istituti sui quali agiscono. A questo fine, molto più possono le norme volte a darvi svolgimento e attuazione. Ed è al cospetto di esse che enunciazioni come quelle della l. n. 168/1989 e della l. n. 240/2010 palesano la loro valenza di proposizioni essenzialmente descrittive dell’Università nel suo «dover essere».
Da qui l’opportunità, quando s‘intenda documentare l’«essere» delle Università, di rinunciare a offrirne in via preliminare un’identificazione tratta dai caratteri che disposizioni generali e di principio le assegnano, per affidarsi semmai alle tante norme, stratificate nel tempo, che ne hanno conformato le modalità di organizzazione e di funzionamento e perciò la stessa autonomia, quale concetto essenzialmente relazionale, dipendente dagli spazi lasciati alla sua affermazione. Uno statuto perciò da ricostruire oltre che da verificare, anche nel confronto con politiche che non sempre hanno espresso facili raccordi con le condizioni necessarie al suo «dover essere».
Percorso da compiersi con la consapevolezza delle differenze che distinguono le Università nel loro regime giuridico, oltre le eterogeneità intrinseche a ogni realtà complessa, qual è quella che l’attuale legislatore sceglie di definire «sistema universitario» e che meglio dovrebbe denominarsi «sistema delle autonomie universitarie».
Ogni analisi non può infatti prescindere dal ricordare che il nostro ordinamento, al pari di altri, conosce diverse tipologie di Istituzioni universitarie per le quali può ancora valere la riconduzione alle due categorie principali (già riconosciute dal T.U. delle leggi sull’istruzione superiore approvato con r.d. 21.8.1933, n. 1592) delle Università istituite su iniziativa dello Stato e così definite oggi «statali», quasi a sottolineare la primazia delle norme statali sugli spazi della loro autonomia, e delle Università «non statali legalmente riconosciute», ovvero delle università che si definivano «libere» (art. 198 ss r.d. n. 1592/1933), costituite su iniziativa di soggetti privati o pubblici diversi dallo Stato (sulle loro differenze in termini di natura e soprattutto di regime giuridico, si rinvia a Merloni, F., Università, in Diz. dir. pubbl. Cassese, VI, Milano, 2006, 6103 ss. e a Barbati, C., La natura e il regime giuridico delle Università e degli Enti Pubblici di Ricerca, in Catalano, G., a cura di, L’inquadramento fiscale delle università e degli enti di ricerca: vincoli e opportunità, Bologna, 2013, 15 ss.).
Figure alle quali si sono aggiunte le Università telematiche, anch’esse istituite da soggetti pubblici o privati, in base a quanto previsto nell’art. 26, co. 5, l. 27.12.2002, n. 289 e nel regolamento attuativo adottato con D.M. 17.4.2003, a loro volta assoggettate a una disciplina dedicata, alimentando così un quadro composito del quale sono parte anche altre istituzioni (fra queste, è opportuno ricordare anche le filiazioni in Italia di Università aventi sede nel territorio di Stati esteri, oggetto di un diritto «speciale», ex art. 2, l. 14.1.1999, n. 4, che, negli intenti del legislatore, espressi nel d.d.l. S 1847 della XVII Leg. dovrebbe ancor più affermarsi come tale)
Differenze che reagiscono sul potere di autodeterminazione nel quale si risolve la loro autonomia, conducendo ad altrettante differenti declinazioni del nesso tra organizzazione e funzioni che connota lo statuto sostanziale di ogni soggetto.
Per ricostruire lo statuto delle Università è necessario innanzi tutto considerarne il ruolo, al di là della raffigurazione che ne offre la stessa idea di Università come sede primaria dell’istruzione superiore, deputata ad assolvere i compiti di formazione in connessione con la ricerca scientifica e anche perciò provvista di autonomia organizzativa, affermatasi con Wilhelm von Humboldt, nella Prussia di inizio XIX secolo.
Senza voler qui riflettere sulla perdurante rispondenza di questo modello alle esigenze di ambiti sociali, economici e culturali le cui trasformazioni investono la funzione stessa dell’Università, anche il riconoscimento del loro ruolo non può essere consegnato alle sole proposizioni normative con le quali se ne dichiarano i compiti istituzionali, ma necessita di essere verificato nel rapporto con le condizioni che ne accompagnano l’assolvimento.
Condizioni che sono anche quelle di un contesto che racconta come le Università, se possono ancora proporsi all’analisi come sedi primarie di libera ricerca e di libera formazione, non ne sono perciò stesso le sedi esclusive. L’Università è infatti parte di un sistema di istruzione superiore e ricerca al quale concorrono altri soggetti e la cui configurazione dipende pertanto da altre norme, espressioni di disegni differenti.
La ricerca pubblica, da sempre diffusa tra una pluralità di centri, alcuni dei quali ancorati a differenti apparati ministeriali e sin territoriali, è oggetto di politiche separate che attendono soluzioni, organizzative e istituzionali, atte ad assicurarne un governo coordinato. Analoghe disarticolazioni stanno interessando l’attività di formazione. Il nostro ordinamento, infatti, non solo prevede che l’istruzione superiore possa essere erogata presso strutture non universitarie, ma riconosce ampie equipollenze dei titoli di studio rilasciati da altre istituzioni formative a quelli universitari, con ciò erodendo sempre più l’esclusività sostanziale delle Università come sedi abilitate a rilasciare i titoli di laurea, di laurea magistrale, il diploma di specializzazione e il dottorato di ricerca al termine dei rispettivi corsi di studio.
Basti ricordare le equipollenze stabilite per legge, e in particolare dall’art. 1, co. 102-107, l. 24.12.2012, n. 228, tra talune lauree universitarie di primo e di secondo livello e taluni diplomi rilasciati dalle Istituzioni del Sistema dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM). Strutture formative equiparate alle Università, anche nella valutazione del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. VI, 23.1.2013, n. 389), il quale ebbe a ricordare che già l’art. 2, co. 4, l. 21.12.1999, n. 508 le qualifica, in termini corrispondenti alle Università, «sedi primarie di alta formazione, di specializzazione e di ricerca nel settore artistico e musicale», dotate della medesima autonomia. Valga altresì l’esempio delle Scuole superiori per mediatori linguistici, egualmente abilitate a rilasciare titoli equipollenti a quelli universitari (D.M. 10.1.2002, n.38) per i rispettivi corsi, benché distanti dallo statuto di autonomia delle Università. (Altre equipollenze si annunciano per i titoli di studio rilasciati dalle scuole e istituzioni formative di rilevanza nazionale operanti nei settori audiovisivo e cinema, teatro, musica, danza e letteratura di competenza del Ministero dei beni e delle Attività culturali e del turismo, che ottengano apposito riconoscimento in esito a un procedimento e in presenza di requisiti normativamente stabiliti).
L’Università, sempre meno «sola» sulla scena della formazione superiore, è perciò chiamata, per effetto di processi esterni e nondimeno su di essa influenti, a confrontare il proprio ruolo con una pluralità di soggetti, spesso al di fuori di coordinamenti se non di consapevolezze di sistema.
Ancor più incidenti sono tuttavia le condizioni che ne circondano l’assolvimento dei compiti istituzionali, in esito alle tante «regole» con le quali il centro statale ne ha disciplinato l’esercizio. Un carico regolativo che si è andato accrescendo e a definirsi nella capacità di sottoporre a torsioni le dimensioni più sensibili dell’autonomia didattica e della ricerca, quando è diventato veicolo della principale innovazione che ha interessato il ruolo delle Università, ossia della valutazione per l’incentivazione della qualità e dell’efficienza del sistema universitario.
Annunciata dalla l. 24.11.2006, n. 286, la nuova valutazione inizia a palesare la sua incidenza con il regolamento (d.P.R. 1.2.2010, n. 76) che disciplina struttura e funzionamento dell’organismo al quale è affidata, ossia l’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR). Saranno tuttavia i provvedimenti di attuazione delle deleghe «per la qualità e l’efficienza», conferite dall’art. 5 della l. n. 240/2010, e sarà soprattutto l’esperienza a fare della valutazione esterna qualche cosa di diverso da quanto previsto dalla legge di riforma, ove assegna al Ministero la funzione di indicare, «nel rispetto della libertà di insegnamento e dell’autonomia delle università» obiettivi e indirizzi strategici per il sistema e le sue componenti, e tramite l’ANVUR, «per quanto di sua competenza», verificarne e valutarne i risultati. (art. 1, co. 4, l. n. 240/2010).
Nello sviluppo di un disegno che sembra smarrire il collegamento con questi presupposti, allontanandosi anche dai modelli europei per assicurare la qualità dell’Istruzione superiore (come accolti, da ultimo, nel Documento «Standard e Linee Guida per l’Assicurazione della Qualità nello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore» approvato dalla Conferenza ministeriale di Yerevan del 14 e 15 maggio 2015, con cui è stato aggiornato il documento ESG del maggio 2005) la nuova valutazione, anziché affermarsi come strumento per il governo del sistema, da parte delle sedi di indirizzo politico-amministrativo, acquista progressivamente la capacità conformativa degli strumenti di governo, facendosi fonte di regole che investono tutti i profili organizzativi e funzionali delle Università.
L’ingresso in scena della valutazione, creata dal legislatore della riforma, sottopone a nuove condizioni l’autonomia didattica delle Università, già oggetto dell’incerto riconoscimento offerto dall’art. 6 della l. n. 168/1989, ove se ne subordina l’esercizio «all’osservanza dei principi generali fissati nella disciplina relativa agli ordinamenti didattici universitari», poi definiti dalla l. 19.11.1990, n. 341 e ulteriormente specificati dal D.M. 22.10.2004, n. 270, a norma del quale i corsi di studio devono essere altresì istituiti nel rispetto delle «disposizioni vigenti sulla programmazione del sistema universitario» (art. 9, co.1).
Da queste leggi derivano i primi limiti, che circondano l’organizzazione e l’esercizio da parte degli Atenei dei compiti di formazione, ai quali la nuova valutazione aggiunge un complesso sistema di regole che, per gli effetti ad esse ricondotti, assumono la consistenza di altri vincoli. Documentarne l’estensione e l’intreccio, spesso fatto di duplicazioni e sovrapposizioni, eccederebbe gli obiettivi di un’analisi d’insieme.
Basti ricordare che molti di questi discendono dalla scelta, dichiarata nell’art. 11, co. 1, della l. n. 341/1990, di prevedere che gli ordinamenti dei corsi di studio erogati dalle Università siano approvati dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, sentito il Consiglio Universitario Nazionale, quale organo consultivo cui spetta esprimere il parere in merito al rispetto delle regole stabilite nel D.M. n. 270/2004 e dei requisiti fissati, per le diverse classi di laurea, da appositi decreti ministeriali. (art. 17, co. 95, l. 15.5.1997, n. 127).
La progettazione dei diversi corsi di studio deve, pertanto, conformarsi a disposizioni che per ognuna delle classi, in cui sono raggruppati, determinano gli obiettivi formativi, le attività formative indispensabili a conseguirli, identificate tramite i settori scientifico-disciplinari nei quali altre disposizioni normative generali articolano i saperi accademici. A ciascuna attività formativa e a ciascuno degli ambiti, cui sono ricondotte, deve essere altresì assicurato un numero minimo di crediti formativi universitari. (Limiti dei quali si annunciano peraltro possibili, quanto allo stato confuse, attenuazioni nello schema di decreto recante le linee generali d’indirizzo per la programmazione delle Università per il triennio 2016-2018).
Ed è a questi limiti che la valutazione ne aggiunge altri, gravando l’autonomia didattica degli Atenei di «nuove» regole e di «nuovi» interventi ad opera di «nuovi» soggetti. In attuazione della delega conferita al Governo dall’art. 5, co. 1 e 3 della l. n. 240/2010, il d.lgs. 27.1.2012, n. 19 introduce, per tutte le Università, un «sistema nazionale di valutazione, assicurazione della qualità e accreditamento». Nasce il sistema AVA («Autovalutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio e valutazione periodica», cui è intitolato il D.M. 30.1.2013, n. 47), articolato in un sistema di valutazione interna a ogni Università, in una valutazione esterna e in un sistema di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio (art. 4, co. 1, d.lgs. n. 29/2012), che trova nel D.M. n. 47/2013, (integrato e parzialmente modificato con D.M. 23.12.2013, n.1059) e nei suoi sei Allegati, l’indicazione dei termini e delle modalità di applicazione degli indicatori e dei criteri posti a base della sua prima configurazione.
I corsi di studio e le sedi universitarie diventano così oggetto di procedimenti per il loro accreditamento iniziale e periodico fondati sul rispetto di requisiti e di condizioni minime di docenza, declinati in termini essenzialmente numerici e ancorati, fra l’altro, al settore scientifico-disciplinare di afferenza del docente, al numero massimo di ore di didattica erogabili in relazione alla sua fascia di appartenenza e al suo regime di impegno, all’appartenenza dell’insegnamento alle attività formative di base, caratterizzanti o affini. L’efficienza, la sostenibilità economico-finanziaria delle attività e dei risultati conseguiti dalle Università nell’ambito dell’attività e della ricerca sono del pari oggetto di una valutazione periodica, da effettuarsi sulla base di indicatori proposti dall’ANVUR e adottati dal Ministro con proprio decreto.
Un sistema, dunque, complesso per la pluralità dei momenti e delle sedi valutative, interne ed esterne, la cui capacità di incidere sullo statuto di autonomia delle Università si esprime soprattutto nelle previsioni che riconducono alla «valutazione» del mancato rispetto dei parametri stabiliti la soppressione dei corsi e delle sedi. Scelte di un legislatore che, facendo della valutazione un’attività-funzione che comprende sia la fissazione delle regole sia la verifica del loro rispetto sia la definizione della misura cui dà titolo, le conferisce i tratti che, per lungo tempo, hanno connotato l’istituto del controllo esterno di legittimità, anche in quella finalità tutoria che fu giudicata difficilmente compatibile con le ragioni delle «altre» autonomie.
La valutazione per l’incentivazione della qualità e dell’efficienza investe anche la ricerca scientifica, come «luogo» di scambio di saperi e di esperienze al quale è immanente il valutare e il farsi valutare. E la investe, staccandosi da essa, quasi a sovrapporsi. Il processo interessa sia la ricerca scientifica individuale sia la ricerca scientifica collettiva, svolta presso le strutture non solo universitarie, accomunando le diverse procedure e sedi, interne ed esterne agli Atenei, coinvolte nelle tante valutazioni condotte per finalità differenti e governate da regole differenti, etero determinate. È l’avvio di un percorso di progressiva contrazione degli spazi che i principi epistemologici vorrebbero rimessi all’autonomia anche valutativa di chi produce ricerca.
La valutazione dell’attività scientifica individuale, come nell’esempio offerto dalle procedure funzionali al conferimento dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, è così sottoposta a regole procedurali e soprattutto sostanziali calate in provvedimenti normativi e amministrativi capaci, per gli effetti da essi prodotti, di conformare l’espressione e la diffusione della ricerca, che diventa in tal modo oggetto anche di nuove sistemazioni, in relazione alla sua supposta idoneità a dialogare con indicatori valutativi di natura cosiddetta «bibliometrica» o «non bibliometrica». All’autonomia delle comunità scientifiche è d’altro canto sottratta la stessa selezione dei componenti le Commissioni, consegnata agli automatismi delle regole che ne valutano l’attività scientifica e del successivo sorteggio (art.16, l. n. 240/2010 e s.m.).
Analoghe compressioni interessano lo spazio riconosciuto al giudizio che i «pari» rendono dei «pari» nell’ambito delle valutazioni della ricerca effettuate presso gli Atenei, sulla base di regole sostanziali, a rilevanza esterna, che le sedi sono autorizzate a definire senza garanzie di raccordi con le comunità che quelle ricerche esprimono. Valutazioni che, nel disegno ancora inattuato dell’art. 6, l. n. 240/2010, condizionano la possibilità dei docenti di far parte delle Commissioni per il conferimento delle Abilitazioni oltre che degli organi di valutazione dei progetti di ricerca, e dalle quali dipende altresì la loro possibilità di fruire degli scatti stipendiali triennali.
Anche la valutazione della ricerca scientifica svolta presso le strutture riceve nuove configurazioni funzionali. Menzionata dalla l. 24.12.1993, n. 537, poi assegnata al Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca istituito, nell’esercizio della delega conferita dall’art. 11, co. 1, lett. d) della l. 15.3.1997, n. 59, con l’art. 5 del d.lgs. 5.6.1998, e affermatosi come coordinatore del primo esercizio di valutazione nazionale della produzione scientifica di eccellenza, oggetto successivamente anche delle attribuzioni del Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario, (art. 2, l. 19.11.199, n.370), quale organo deputato a fissare, fra l’altro, i criteri generali per la valutazione delle attività delle Università nonché a procurare i parametri per il riparto dei fondi relativi alla programmazione universitaria e per l’attribuzione degli incentivi previsti dal Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), con la nascita di ANVUR è assoggettata, nell’ambito degli Esercizi di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR), a regole procedurali e sostanziali che ne accrescono l’impatto, facendone il parametro per l’assegnazione delle risorse finanziarie e umane agli Atenei. Una valutazione, fonte di effetti che ne consolidano perciò la capacità di condizionare le modalità di espressione e diffusione della ricerca, investendo lo stesso ambiente necessario al suo espletamento.
Le regole che presiedono all’acquisizione e alla gestione delle risorse necessarie al funzionamento delle Università interrompono la descrizione unificante offerta dallo sguardo rivolto ai compiti istituzionali che ne connotano il ruolo. L’attenzione a queste altre regole apre, infatti, la scena alle differenze che l’autonomia delle Università trae dalla loro natura «statale» o «non statale». Sono, d’altro canto, queste altre regole, più di altre, a palesare la centralità della nuova valutazione esterna, anche nell’idoneità a farsi strumento di governo del sistema universitario e soprattutto delle Istituzioni universitarie statali.
Alle tante valutazioni, siano esse condotte nell’ambito del sistema AVA (sul punto, può ricordarsi il disegno tracciato dal d.lgs. n. 19/2012, il cui art. 15 prevede che la quota destinata a incentivo del FFO sia ripartita in ordine decrescente tra gli Atenei statali, in base ai risultati da essi conseguiti nella didattica e nella ricerca, come evidenziati dall’ ANVUR in apposita relazione nonché su suo parere) o degli esercizi VQR, il legislatore della riforma e, più ancora, i provvedimenti volti ad attuarne il disegno assegnano infatti il potere di procurare i parametri per la distribuzione di una parte crescente delle risorse erogate tramite l’FFO (istituito con l’art. 5 della l. n. 537/1993 come quota del bilancio statale destinato alle spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle Università, comprese fra le altre quelle per il personale docente, ricercatore e non docente, per l’ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica).
Ad essere allocata, sulla base degli esiti delle valutazioni, è in particolare la «quota premiale» (introdotta con l’art. 2 del d.l. 10.11.2008, n. 180, convertito con modificazioni dalla l. 9.1.2009, n.1), oggi destinata «alla promozione e al sostegno dell’incremento qualitativo delle attività delle Università statali e al miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse». Di entità determinata in percentuali annue crescenti, le ultime discipline la vogliono assegnata per almeno tre quinti sulla base dei risultati conseguiti nella VQR e per un quinto sulla base della valutazione delle politiche di reclutamento, effettuata ogni cinque anni dall’ANVUR (art. 60, d.l. 21.6.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla l. 9.8.2013, n. 98).
Il sistema di finanziamento delle Università statali concorre in tal modo a completare il disegno per incentivare la «qualità e l’efficienza del sistema universitario» delineato dalla l. n. 240/2010, definendo la capacità della valutazione di condizionare l’acquisizione delle risorse finanziarie nonché, congiuntamente ad altri limiti, delle risorse umane (in proposito, art.1, co. 2, D.M. 18 febbraio 2016, n. 78, «Piano straordinario 2016 per il reclutamento dei ricercatori di cui all’articolo 24, co. 3, lett. b) della l. 240/2010», ove si vincola il riparto tra le Università statali dei fondi stanziati a questo fine, ai valori degli indicatori relativi alla VQR.). La disponibilità del personale, per le Università statali, è infatti sottoposta all’ulteriore vincolo del «punto organico», ossia del peso monetario delle diverse figure di personale docente e non docente, in base al quale si definiscono, annualmente, le loro «facoltà assunzionali». (in proposito si rinvia a Rossi, P., Il punto organico: una storia italiana, in RT. A Journal on Research Policy & Evaluation, 2015, 1 ss.)
Differenze altrettanto rilevanti interessano gli assetti organizzativi. É solo per le Università statali che la l. n. 240/2010 fissa le «regole» che presiedono alla loro organizzazione e al loro governo interno, salve le sperimentazioni possibili agli Atenei che si trovino nelle condizioni indicate dall’art. 1, co. 2 della medesima legge e in base ai criteri stabiliti in un decreto ministeriale, la cui mancata adozione non ha ancora consentito di aprire uno scenario atto a riconoscere le eterogeneità presenti all’interno dello stesso sistema universitario statale.
Agli Atenei si chiede perciò di adeguarsi a un modello caratterizzato da un’elevata uniformità oltre che connotato da una verticalizzazione dei processi decisionali, perseguita attraverso il rafforzamento dell’organo monocratico di vertice (sul punto, sia consentito rinviare a Barbati, C., Il governo del sistema universitario: soggetti in cerca di un ruolo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, 351 ss. e, per un’analisi più estesa, a Battini, S., La nuova governance delle Università, ibidem, 2011, 359 ss).
Il Rettore diventa, in tal modo, il «centro» dei nuovi «spazi» riconosciuti all’autonomia istituzionale delle Università: al potere di iniziativa dei Rettori è ricondotta la competenza disciplinare nei confronti del personale docente e ricercatore (art.10, l.n.240/2010); all’autonomia valutativa e procedurale degli organi di governo degli Atenei è assegnato il reclutamento del personale ricercatore e docente, sulla base di procedure che il legislatore rinuncia a disciplinare con proprie regole nonché la gestione di talune fattispecie di «chiamata diretta», quasi a contrappeso se non a garanzia di una riforma che comprime le altre declinazioni dell’autonomia universitaria.
Questioni complesse come quelle che concernono gli spazi necessari a qualificare l’autonomia, nella sua effettività, non autorizzano facili considerazioni di sintesi. Tuttavia, è agevole riconoscere le profonde torsioni alle quali è sottoposto lo stesso «dover essere» delle Università quando incontra i limiti delle uniformità imposte dalle tante regole di un disegno, fatto di vuoti e di pieni di autonomia, che espone a tensioni il nesso di reciproca funzionalità tra i diversi contenuti dell’autonomia universitaria.
Nel confronto con questi limiti, anche il rapporto tra organizzazione e funzioni che qualifica lo statuto sostanziale di ogni soggetto istituzionale conosce dunque ridefinizioni che investono lo stesso ruolo dell’Università e pertanto la sua possibilità di operare come sede «di libera ricerca e di libera formazione», funzionale allo stesso sviluppo sociale e culturale dei Paesi. Un ruolo per assolvere il quale occorrono quelle flessibilità, necessarie alle interazioni con i contesti e alle loro esigenze, consentite solo da autonomie forti e da un centro statale, a sua volta forte, capace di farsi governo delle differenze e non dell’uniformità.
L. 30.12.2010, n. 240; d.lgs. 29.3.2012, n. 49; d.lgs. 27.1.2012, n. 19; d.lgs. 27.1.2012, n. 18; d.lgs. 27.10.2011, n. 199; d.P.R. 14.7.2011, n. 222; d.P.R. 1.2.2010, n. 78; D.M. 7.6.2012. n. 76.
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