Università
L'università rappresenta una delle istituzioni più importanti che la società moderna ha ereditato dal Medioevo europeo. Sacerdotium, imperium e studium erano considerati in epoca medievale come i tre poteri dalla cui armoniosa cooperazione derivava lo sviluppo e la stessa esistenza della cristianità (v. Rashdall, 1936).
L'istituzione universitaria deve la sua origine ad una serie di circostanze concomitanti e in parte accidentali. Il termine universitas, innanzitutto, stava ad indicare l'aggregazione di una pluralità di persone ed era applicato a corporazioni di docenti o di studenti ma anche di altre categorie professionali, specie se organizzate con fini di mutua assistenza (gilde); progressivamente si restrinse al campo degli studi, ma sempre indicando l'insieme dei soggetti e non il luogo di aggregazione (cui era attribuito il nome di studium). Studium generale era chiamato infatti, all'inizio del XIII secolo, il luogo ove si riunivano studenti provenienti da diverse parti d'Europa (mentre studium particulare era un tipo di scuola che rispondeva alle necessità conoscitive di un territorio circoscritto), dove veniva insegnata a livello superiore almeno una delle tre discipline di base: teologia, legge o medicina, e dove insegnava una pluralità di docenti. Tale riconoscimento avveniva per consuetudine piuttosto che per legge, e all'inizio del XIII secolo tre studia venivano unanimemente riconosciuti degni di tale titolo: quelli di Parigi per la teologia e le arti, di Bologna per legge, di Salerno per medicina.
Non casualmente in tali luoghi si svilupparono - col nome di universitas - le aggregazioni (gilde) più consistenti di studenti o docenti. Aggregazioni spontanee che si erano diffuse, del resto, in numerosi centri urbani d'Europa nel corso dell'XI e del XII secolo, senza l'impulso di alcun potere (religioso o laico) e con l'intento di costituire degli studia generalia miranti a fornire un'educazione superiore sul modello di Bologna o Parigi. Nel corso del XIII secolo il titolo di studium generale ex consuetudine fu attribuito a posteriori non solo alle università di Parigi e Bologna, ma anche a quelle di Montpellier, Padova, Orléans, Oxford e Cambridge. Tali sedi universitarie acquisirono altresì il diritto di autorizzare all'insegnamento in qualunque sede i propri docenti (ius ubique docendi).
Dalla seconda metà del XIII secolo, tuttavia, la libertà di fondare gli studia generalia si ridusse progressivamente. I due maggiori poteri dell'Europa del tempo si attribuirono infatti il diritto di costituire le nuove scuole superiori e gli studia generalia divennero prerogativa del papato e dell'impero: così nel 1224 l'imperatore Federico II fondava lo studium generale a Napoli, nel 1229 papa Gregorio IX faceva lo stesso a Tolosa, mentre papa Innocenzo IV stabiliva nel 1244 uno studium generale presso la corte pontificia a Roma. Il potere papale si esercitava anche sulle sedi già esistenti attraverso le bolle pontificie che riconoscevano privilegi come quello dello ius ubique docendi o autorizzavano equiparazioni dei laureati a quelli di Parigi o Bologna (a Tolosa nel 1233, a Piacenza nel 1248) (v. Rashdall, 1936, p. 8).
L'interesse per il controllo del sapere da parte dei due poteri maggiori dell'Europa medievale appare dunque evidente. Tuttavia esso non basta a spiegare il salto di qualità che fa diventare studium generale un cenacolo di studiosi e lo fa durare nel tempo sino a renderlo un modello consolidato e generalizzato. Alla base di questa evoluzione vi è piuttosto un insieme di elementi che convergono in un'unica direzione. Sviluppi sia culturali che sociali contribuirono negli ultimi trent'anni del XII secolo a un vero e proprio rilancio degli studi del diritto romano in Italia e della riflessione teologica e filosofica in Francia.
Peraltro, sul piano culturale non vanno trascurati alcuni elementi di continuità che garantirono un legame con il passato più vitale anche nei periodi di maggior decadenza. Occorre innanzitutto risalire al ruolo di conservazione della cultura romana svolto dai monasteri benedettini nel periodo tra l'epoca di Carlo Magno e il XII secolo. Dal modello della 'scuola di palazzo' alle scuole per l'educazione di ecclesiastici e di laici nei conventi e nelle cattedrali (particolarmente dell'Europa settentrionale) la linfa culturale non si inaridisce durante i secoli delle dominazioni barbariche e riprende vigore con l'anno 1000. La passione per la conoscenza e la ricerca si diffonde e si salda con le fasi di illuminata gestione laica (gli Ottoni nei territori germanici) e con il rilancio del papato. L'epoca delle crociate mette in contatto l'Europa con le culture orientali, mentre le città fortificate italiane riacquistano le condizioni di tranquillità e benessere necessarie per lo sviluppo delle attività intellettuali (v. Rashdall, 1936, p. 32).
Sono le nuove condizioni di scambio tra culture e di sviluppo urbano che contribuiscono ad accelerare i processi di evoluzione delle forme di vita associata e che favoriscono il salto di qualità dalle scuole delle cattedrali e di palazzo alle università. Sorge infatti l'esigenza, da parte delle diverse forme di potere, di controllare in maniera stabile lo sviluppo della conoscenza, in funzione della gestione della società. In questo senso le nuove università sono viste dal potere come agenzie al servizio di una serie di bisogni sociali, dunque con finalità utilitaristiche (v. Cobban, 1992, p. 1246).
Numerose sono le interpretazioni storiche che attribuiscono alle esigenze di controllo sociale delle classi dominanti lo sviluppo e il consolidamento delle università. Altrettanto consistenti sono quelle che - per contro - mettono l'accento sull'autonomo interesse per la scienza, la scoperta, il sapere. È stato altresì segnalato che l'amore per il sapere si mescolava con l'interesse per il successo e il raggiungimento di posizioni di prestigio (ambitio dignitatis et inanis gloriae appetitus). Alcuni studiosi ricordano le nuove necessità della società urbanizzata e l'emergere delle burocrazie amministrative, ecclesiastiche e laiche; altri il desiderio di autonomia dai controlli sociali delle nuove aggregazioni di intellettuali riunite negli studia generalia.
Sembra che, ancora una volta, la verità stia nel mezzo e che università e società si siano reciprocamente influenzate. Le università sono infatti sorte in quanto nuove istituzioni in presenza di particolari condizioni sociali, economiche e politiche rinvenibili in alcune città del primo Medioevo (v. Ruegg, 1992, p. 11). In particolare, nella condizione maggiormente studiata delle città italiane si possono distinguere due periodi nelle relazioni fra studenti e cittadinanza. In un primo tempo gli studenti costituivano il seguito di noti docenti ed erano privi di ogni forma di organizzazione; spesso rappresentavano agli occhi dei cittadini elementi di disordine e - specie se provenienti da altre regioni - erano mal visti e soggetti a penalizzazioni varie (tassazioni, difficoltà nel trovare alloggio e simili). In un secondo tempo gli studenti si organizzarono in quelle forme di società di mutuo soccorso che erano le gilde, sia per dare una maggior regolarità ai propri studi, sia per difendersi dalle esosità degli amministratori e dei cittadini; l'avvento delle gilde, sovente promosse da gruppi di studenti della stessa provenienza geografica, viene segnalato come uno dei primi esempi di formazione di gruppi organizzati di consumatori (gli altri gruppi organizzati erano costituiti dagli appartenenti alle diverse arti e mestieri); ne derivò un nuovo modo di porsi della categoria nei confronti della città, e apparve chiara la convenienza della loro presenza per gli effetti indotti sull'economia urbana. Le gilde ottennero via via una serie di privilegi, esenzioni e servizi che contribuirono a rendere stabile la presenza di docenti e studenti e quindi al radicamento dell'università nella città (v. Hyde, 1988).
Le origini delle prime vere università rappresentano, del resto, dei convincenti esempi di una simile combinazione di elementi e circostanze. Bologna era un punto nodale di commerci e pellegrinaggi a nord di Roma in un periodo in cui era interesse dell'imperatore rafforzare gli studi di diritto romano a sostegno delle proprie rivendicazioni (da cui la protezione accordata a quella università da Federico I Barbarossa nel 1155). Diversi docenti di diritto altamente reputati vi insegnavano, e la loro fama attraeva studenti di diverse regioni europee. Questi ultimi si organizzarono in subcorporazioni per origine territoriale a difesa da ingerenze esterne (ad opera dell'amministrazione comunale), costituendo per un certo periodo un originale modello di università controllata dagli studenti.
A Parigi la monarchia capetingia favorì gli studi superiori e le condizioni di vita degli studenti (lo stesso Luigi VII era stato uno studente) al punto da creare, nel 1180 e nel 1186, speciali collegi per studenti poveri. La molteplicità di scuole, specialmente di logica e teologia, accrebbe la presenza di studenti e docenti di fama internazionale (Abelardo è solo il più citato tra i tanti). Questi ultimi si organizzarono in gilde che, già a partire dal 1215, furono riconosciute ufficialmente dall'autorità ecclesiastica, dal canto suo non eccessivamente invadente nei controlli degli ambiti accademici. Oxford aveva acquisito, a partire dal 1180, una certa rilevanza politica quale sede di amministrazione reale e sede ecclesiastica. Alcuni avvocati furono da ciò incoraggiati a trasferirvisi e ad aprire degli studi di legge. Il modello fu la Scuola di Parigi, e ben presto crebbe il numero di studiosi di formazione parigina e di studenti anche non inglesi che preferivano non trasferirsi nella città francese. Nel 1209 scoppiò una controversia tra studiosi e comunità locale in nome di una maggiore indipendenza dai controlli locali, che si concluse con l'attribuzione dei privilegi e delle libertà di cui godevano gli studiosi a Parigi. In ognuna delle tre città la combinazione di vantaggi politici ed economici, oltre alle condizioni di favore e le diverse autonomie di cui godevano gli studiosi (docenti e studenti), favorirono il concentrarsi di docenti di fama e l'aggregarsi di studenti provenienti da ogni parte d'Europa (v. Cobban, 1975). Là dove erano assenti alcuni di questi fattori, come la presenza di insegnanti di fama o il sostegno papale o imperiale, le università sorsero più tardi e sovente come conseguenza di migrazioni di studiosi e studenti provenienti da sedi preesistenti: sono famosi i casi di Cambridge quale 'filiazione' di Oxford e di Padova, in parte originata da Bologna.
Nelle università del Medioevo si venne sviluppando una struttura collaterale di notevole importanza rappresentata dai 'collegi'. Sorti per ospitare gli studenti meno abbienti a Parigi sul finire del XII secolo e quindi, nel secolo successivo, in Inghilterra, i collegi si ispirarono inizialmente alle forme di ospitalità organizzate presso le università dagli ordini mendicanti per i propri studenti, e rapidamente si rivolsero agli studenti laici provenienti dalla stessa area geografica. Nel XIII secolo se ne contavano 19 a Parigi, 6 a Oxford e uno a Cambridge. Nel XIV secolo ne sorsero 36 a Parigi, 5 ad Oxford e 6 a Cambridge. Nello stesso periodo i collegi si diffusero nelle università dell'Europa meridionale, anche se non raggiunsero mai il rilievo e l'importanza acquisita negli atenei del Nord. Undici collegi vennero creati comunque in Italia (ben noto quello spagnolo fondato a Bologna nel 1367) e due in Spagna. Negli anni seguenti i collegi assunsero tuttavia la caratteristica di istituzioni privilegiate, utili a favorire l'ottenimento di un titolo di studio per i propri membri e a fornire comunque le migliori condizioni per le attività di studio a quella che finiva per diventare di fatto un'élite studentesca, piuttosto che a garantire un tetto agli studenti più poveri (l'ospitalità nei collegi riguardava una minoranza tra il 10 e il 20% degli iscritti nelle università dell'Europa settentrionale). In più di un'occasione i collegi assunsero il ruolo di vere e proprie istituzioni formative che sperimentavano forme avanzate d'insegnamento, in concorrenza con le stesse facoltà. In questo senso si ricorda il ruolo svolto da collegi come quello di Navarra a Parigi o come il Magdalen College a Oxford. Viceversa nei territori del Sacro Romano Impero i collegi continuarono a svolgere un ruolo prevalentemente di aiuto agli studenti disagiati.
In genere, tuttavia, le condizioni economiche degli studenti non erano poi così critiche, e sembra che alcune valutazioni particolarmente negative siano derivate dall'eccessivo credito dato alle tradizionali lamentele della categoria. L'origine sociale degli studenti era, a quello che si sa, prevalentemente medio-alta, anche se la presenza delle classi nobiliari era limitata e per lo più circoscritta alle università dell'Europa meridionale. Gli studenti per essere ammessi alle università dovevano dimostrare di potersi mantenere agli studi, oltre che di conoscere il latino e naturalmente essere maschi; non erano previsti esami di ammissione, mentre le prove durante l'anno erano piuttosto severe e il tasso di abbandono risultava ovunque assai alto. La vera difficoltà derivava dalla scarsissima disponibilità dei testi, dovuta ai problemi di riproduzione ed ai conseguenti costi proibitivi; la situazione migliorò in parte con l'introduzione del metodo di produzione dei manoscritti detto exemplar-pecia, adottato in diverse università attorno al XV secolo.
I problemi maggiori per la popolazione studentesca riguardavano i rapporti con la cittadinanza, spesso caratterizzati - come si è visto - da tensioni (i conflitti fra towns and gowns: cittadini e togati) originate dalla eterogeneità degli studenti e dalla loro visibilità di gruppo non sottoposto ai regolari ritmi propri delle città commerciali (come si arguisce dalle attività attribuite al mondo accademico, che ancor oggi in Inghilterra si ricordano come thinking and drinking: v. Cobban, 1992).
Ad un certo punto i poteri esterni decisero di investire, come si è visto, nello sviluppo delle università. Il papato prese a conferire riconoscimenti, privilegi e autorizzazioni alle università sostanzialmente per tre ragioni. Innanzitutto, esso era interessato a rafforzare una base dottrinale coerente e comprensibile tra la molteplicità di interpretazioni di fede contraddittorie ad opera di diversi ordini religiosi (quando non si trattava di combattere vere e proprie eresie); in secondo luogo, il papato mirava a rafforzare il proprio potere centrale nei confronti dei potentati feudali, e infine, necessitava sempre più di personale di considerevole cultura per la propria amministrazione (si ricorderà che alcuni studiosi divennero cardinali). Per rafforzare le università il papato ne creò di nuove (Tolosa e Roma), ma soprattutto attuò una politica di sostegno attraverso la concessione di 'prebende' agli studenti di origine religiosa (preti e monaci) e di attribuzione ai docenti del diritto di insegnamento in ogni istituto di studi superiori - licentia ubique docendi - (concessione, quest'ultima, fortemente contrastata dalle università e dalla corporazione degli insegnanti in nome di autonomie locali e corporative fin d'allora rivendicate).
Imperatori, re e signori dei diversi territori vennero interessandosi alle università sia al fine di consolidare le proprie istituzioni amministrative, sia per contrastare le spinte centrifughe provenienti dalle aristocrazie terriere e cittadine. Il caso più vistoso del tentativo di utilizzare in questo senso le istituzioni di istruzione superiore fu rappresentato dalla creazione - sopra ricordata - dell'Università di Napoli ad opera di Federico II, nel 1224.
Come si è detto in precedenza, le amministrazioni dei principali centri urbani, non rinvenendo nelle università una speciale utilità, furono inizialmente in contrasto con esse per quanto riguardava la concessione di privilegi, l'esenzione dalle tasse, la fissazione dei livelli massimi per gli affitti degli alloggi a studenti e docenti. In seguito si resero conto, a cominciare dalle principali città commerciali, che la presenza di insegnanti di prestigio attirava di riflesso una notevole popolarità sul centro urbano, mentre sempre più si rendevano necessari sia gli esperti di diritto sia gli amministratori pubblici di buon livello culturale. Ne derivava l'utilità di stabilire forme di collaborazione e di controllo delle università, che nelle città-Stato finirono sovente per concretarsi nella corresponsione di uno stipendio ai docenti.
Sul piano strettamente culturale, il carattere originariamente religioso del sapere, legato all'interpretazione delle Sacre Scritture, si evolve e si allarga al sapere laico di origine greca e greco-romana. Dal trivium (grammatica, che comprendeva lo studio dei classici, retorica e dialettica) si passa alle arti del quadrivium (musica, aritmetica, geometria e astronomia).
Ma ben presto il sistema filosofico e scientifico si fonda sulla riscoperta di Aristotele. La logica aristotelica e gli studi giuridici, che hanno acquisito nuova importanza, si affiancano alla teologia (v. Cobban, 1992; v. Rashdall, 1936). Le quattro tipiche facoltà delle università medievali divengono ben presto quelle dedicate alle arti del quadrivium, alla medicina, alla giurisprudenza e alla teologia.
Ancorché dipendenti in varia misura dai poteri esterni, le università non si organizzano per rispondere a bisogni sociali, sono piuttosto alcune discipline che si dimostrano utili a risolvere una serie di problemi collettivi. Una prima distinzione fra le scienze separa le 'arti liberali' dalle 'arti meccaniche' (identificanti conoscenze atte alla costruzione di oggetti e alle attività manuali in genere). Di queste ultime solo la medicina venne accolta nell'università, e non senza resistenze, in quanto arte che riguardava la parte non libera dell'essere umano (il corpo) e dunque arte essa stessa non libera ma 'servile'. Meno chiara appare la ragione dell'esclusione dall'università dell'architettura. In realtà, simili classificazioni del sapere imposte dalla Scolastica non coincisero mai del tutto con l'organizzazione delle attività intellettuali nelle università. Va comunque segnalato come il sapere organizzato nelle università derivasse profondamente dallo scopo costitutivo principale, l'amor sciendi: la trasmissione del sapere quale bene pubblico a chiunque fosse in grado di raggiungere determinati standard intellettuali. Da ciò derivava anche il maggior grado di uguaglianza interna all'università rispetto alle regole vigenti nella società e la propensione a considerare lo studio come indipendente dalle necessità pratiche della vita di tutti i giorni. Al contrario, l'insegnamento delle 'arti meccaniche' era fornito dalle corporazioni professionali secondo regole di ammissione basate sullo status sociale e sovente sulla parentela, e mirava alla formazione di competenze pratiche (v. Verger, 1973, p. 30).
La prima fase di sviluppo dell'università si concluse con il XIV secolo, o meglio con lo scisma del 1378. Negli ultimi due secoli molte nuove università o studia universalia erano sorte, ma molte non erano divenute vere università; non avevano saputo cioè fare il salto di qualità e consolidarsi nel tempo, ottenendo i necessari riconoscimenti dei poteri esterni, fossero il papato, l'impero o la municipalità. Tra le 15 e le 20 università erano comunque in attività alla fine del XIV secolo; la maggioranza di esse era dislocata nell'Europa meridionale e seguiva il modello bolognese, grazie alla rilevanza della legge scritta nelle città e nei principati, e allo sviluppo della società civile. Nell'Europa centrale e settentrionale le università prendono a svilupparsi nella seconda metà del secolo, a partire dalla fondazione dell'Ateneo di Praga ad opera di Carlo IV (1347), grazie allo svilupparsi dell'economia e dello spirito nazionalistico.
L'inizio dello scisma rappresenta una vera rottura anche nella storia dell'università in Europa. L'unità della cristianità medievale si perde e appaiono i prodromi dello Stato moderno e dei sentimenti nazionali. Ne deriva la proliferazione delle sedi accademiche: nel 1400 le università erano 34, diventano 66 nel 1500 con una distribuzione assai diffusa nelle diverse aree d'Europa, ad eccezione dell'Inghilterra, dove resta incontrastato il monopolio di Oxford e Cambridge (v. Rashdall, 1936, p. XXIV).
Assai più che in passato le nuove università sorgono per iniziativa dei principi e dei poteri cittadini, che forniscono le autorizzazioni e i sostegni finanziari iniziali. La bolla papale, tuttavia, segue con funzioni di convalida e in parte di distinzione tra università 'autorizzate' e non. Gli atenei esistenti cominciano infatti a temere la concorrenza dei nuovi e cercano di conservare la condizione di monopolio: così Pavia si adopera per restare l'unica sede accademica nel Ducato di Milano.
A partire dal XVI secolo il processo di diversificazione dell'istruzione superiore si viene accentuando attraverso percorsi in parte diversi a seconda delle aree europee e - in seguito - con una specificità maggiore negli Stati Uniti.
Tale processo si caratterizza per lo sviluppo di competenze e ruoli diversi all'interno dell'offerta formativa. L'università si considera e viene considerata soprattutto come l'istituzione autorizzata a conferire titoli e riconoscimenti formali di acquisita competenza ai propri studenti, sia del proprio paese sia stranieri. Il potere principale che identifica l'università è quello di certificazione, prima e più che quello di insegnare o fare ricerca. Questa attribuzione tende a mantenere basso il numero delle università: per lungo tempo in Inghilterra si conferma il monopolio di Oxford e Cambridge, solo nel 1858 si aggiunge l'Università di Londra, Cracovia opera in questo senso in Polonia, Bologna e Padova in Italia, e così via. Nel 1800 le università in tutta l'Europa erano circa 190, e una trentina nelle due Americhe. Le attività d'insegnamento erano considerate separatamente, e comunque in vari casi attribuite ad istituzioni diverse. L'attività di certificazione viene riconosciuta come primaria funzione universitaria dai poteri laici locali. Questi acquistano sempre più quel ruolo di autorità cui spetta il riconoscimento delle funzioni dell'università, inizialmente svolto dal potere papale e da quello imperiale.
Più in generale, i rapporti tra Stato e università si vengono precisando grazie alla graduale secolarizzazione delle pubbliche amministrazioni nel XVIII secolo, alle politiche educative dei dispotismi illuminati, alla definizione dei sistemi universitari nazionali dopo la Rivoluzione del 1789 e la loro centralizzazione nel periodo napoleonico. Mentre da una parte cresceva il controllo statale nel settore pubblico, dall'altra il liberalismo consentiva in vari paesi il sorgere di università cittadine o private, a volte riconosciute dallo stesso Stato. Il fenomeno si manifesta in particolare nel XIX secolo con gli esempi della Libera università di Bruxelles, della rinata Università cattolica di Lovanio (1834), della Università cattolica Newman di Dublino (1854), della Libera (neocalvinista) università di Amsterdam, delle cinque università cattoliche in Francia e delle civic universities delle città industriali in Gran Bretagna.
Sotto il profilo dei contenuti e dei modi di operare, le università nei quattro secoli che portano al Novecento appaiono un intreccio di elementi di continuità e di innovazione.
Da un lato, gli aspetti strutturali delle più note sedi universitarie restano immutati e sembrano significare la permanenza dei modelli tradizionali di trasmissione del sapere in piccoli cenacoli di studiosi e studenti. La concezione dell'università quale comunità autonoma con il solo scopo del perseguimento della conoscenza, propugnata da Wilhelm von Humboldt, interpreta bene questo modello sostanzialmente tradizionalista. Dall'altro lato, la realtà accademica si trasforma e la comunità scientifica si viene progressivamente definendo attorno a tre poli: le istituzioni dell'istruzione superiore, l'informale 'repubblica delle lettere' rappresentata dalle riviste letterarie e dagli scambi epistolari tra scienziati e 'sapienti', e le accademie delle scienze come la Royal Society di Londra (sorta nel 1662), l'Académie Royale des Sciences di Parigi (1666) o la Akademie der Wissenschaften di Berlino (1700).
L'intreccio con le trasformazioni sociali e politiche non poteva non incidere, del resto, sulla struttura e il funzionamento dell'università: dalla Riforma e dalla Controriforma allo sviluppo delle burocrazie statuali, dall'assolutismo e dal dispotismo, al liberalismo all'illuminismo e alla Rivoluzione francese. Ad un tempo, il prodotto dell'università ha certamente contribuito allo sviluppo dei processi di industrializzazione e di secolarizzazione e questi, a loro volta, hanno inciso sulla ridefinizione delle funzioni dell'università, tal che le trasformazioni che interverranno nell'istruzione superiore nel XX secolo non saranno in gran parte che il logico sviluppo di quanto elaborato e sperimentato nei secoli precedenti. L'aspetto che forse più di ogni altro rappresenta la continuità storica è quello dell'enfasi sull'autonomia quale prerequisito della scienza, che si traduce nell'indipendenza rivendicata per l'insegnamento, l'apprendimento e la ricerca (v. Frijhoff, 1992).
I modelli di università che si vengono delineando muovono dalla dicotomia tra quello bolognese e quello parigino. Nel periodo successivo alla Riforma, tuttavia, gli studenti perdono gran parte del loro potere (del resto favorito, nel caso bolognese, dalla loro età adulta e dall'essere assai spesso chierici protetti dalla Chiesa) e viene accentuato il controllo e l'autorità del corpo docente. Si impone dunque il modello parigino secondo tre versioni: il modello basato sul tutorato, l'insegnamento decentrato e gli elementi comunitari, ben rappresentato dall'Università di Oxford e favorevole ad un tipo di conoscenza generalista; il modello di università fondata sui docenti e l'insegnamento centralizzato secondo discipline raggruppate in facoltà, tesa a formare specialisti: gli esempi più precisi sono quelli di Leiden (fondata nel 1575) e di Göttingen (1733); il modello intermedio, che mira a combinare i vantaggi dell'organizzazione centralizzata e del sistema collegiale procurando di mantenere una dimensione limitata per poter esercitare un reale controllo sugli studenti e limitare i costi: si tratta di un modello di università raccolta in un campus (o college) che si segnala per il reclutamento regionale degli studenti e la struttura gerarchica interna. Sottolineando ad un tempo sia l'unità della scienza sia la tendenza alla professionalizzazione dell'insegnamento, questo tipo di università, unificata e centralizzata in una struttura gerarchica, divenne in numerosi paesi europei il modello di successo nel periodo influenzato dall'illuminismo, ma influenzò anche i colleges universitari americani del XVIII secolo e le 'università dai mattoni rossi' (red-bricks universities) del secolo seguente in Inghilterra. Ma, soprattutto, rappresentò il modello di successo dell'università fondata sulla classe accademica, sviluppatasi specialmente in Germania nel XIX secolo.
A livello istituzionale, i sistemi d'istruzione registrano alcuni mutamenti di rilievo: viene sanzionata la separazione tra le tradizionali strutture accademiche e un nuovo livello d'istruzione secondaria; sorgono nuove istituzioni per l'insegnamento superiore accanto alle università e si sviluppa un settore per la ricerca scientifica all'esterno di queste.
Le scuole intermedie o preuniversitarie dell'ultima parte del Medioevo riguardavano giovani tra gli 8 e i 18 anni d'età; vi si insegnavano le discipline del trivium, ma le stesse materie (grammatica, dialettica e retorica) venivano insegnate anche in molte università, specie dell'Europa settentrionale, e costituivano quel settore che si sarebbe chiamato in tempi recenti il primo livello (in inglese undergraduate). Gli studenti del livello universitario superiore studiavano le arti del quadrivium (musica, aritmetica, geometria e astronomia: l'embrione cioè di quelle che sarebbero diventate le scienze esatte), oppure medicina, legge o teologia. Si trattava di una minoranza, salvo in alcune università dell'Europa meridionale dove erano particolarmente seguiti gli studi di giurisprudenza. Le scuole secondarie ebbero un successo assai rilevante in diverse delle regioni maggiormente urbanizzate d'Europa, con classi di centinaia di allievi. Si arrivò di conseguenza a suddividere per la prima volta gli studenti secondo le età e in accordo con una logica di progressione didattica distinta in 8 livelli. Tale sistema - che fu denominato 'sistema parigino' (modus parisiensis) - influenzò rapidamente sia i collegi dei gesuiti sia le università di origine protestante: sorse così a Strasburgo un gymnasium che era la combinazione della scuola secondaria e del primo livello di corsi universitari. Il sistema si diffuse nelle istituzioni scolastiche luterane dei territori tedeschi e del Baltico, oltre che nei Paesi Scandinavi.
L'altra innovazione introdotta nelle medesime istituzioni fu il sistema delle cattedre. In contrapposizione alla struttura classica delle facoltà, tale sistema rendeva ciascun professore responsabile di una specifica disciplina, collegando meglio insegnamento e competenze scientifiche. Introdotto assieme ai gymnasia academica che fungevano da sovrastruttura semiuniversitaria, il sistema della cattedra svolse un ruolo decisivo nello sviluppo delle scienze e nella diffusione dell'insegnamento universitario. Esso si diffuse con grande successo in Scozia, le cui università divennero l'avanguardia dell'illuminismo, e da lì negli Stati Uniti.
Il successo delle nuove scuole secondarie superiori contribuì alla riduzione del numero degli studenti universitari e spinse le università a concentrarsi sulla qualità degli studi superiori e sulla ricerca scientifica, cui i docenti potevano ora dedicarsi maggiormente perché alleviati dall'onere del compito didattico: accadde così che di frequente le università di dimensioni modeste divenissero centri di eccellenza, mentre il livello delle università più grandi declinasse vistosamente.
Il numero delle istituzioni che si affiancavano alle università nel compito dell'insegnamento superiore crebbe anche per ragioni di diversa natura, come le differenze religiose (le accademie per gli studenti non anglicani in Inghilterra) o le differenze di classe sociale (le scuole per la nobiltà in Francia, académies d'équitation ed écoles militaires, o in Italia seminaria nobilium). La formazione professionale di alcuni settori, come quelli dell'avvocatura e della medicina, venne ripresa in mano dalle organizzazioni corporative attraverso apposite scuole. La professionalizzazione di alcuni settori restò fuori dalle università e fu il prodotto della crescita della domanda di competenze e della nuova scala di prestigio professionale, ma dipese anche dalla peculiare concezione della scienza sviluppatasi negli ambienti universitari. La distinzione aristotelica tra competenze intellettuali e competenze manuali - come si è ricordato in precedenza - sta alla base della decisione di non includere la tecnologia, le scienze applicate o la formazione di competenze pratiche (quali quelle dei chirurghi, degli architetti, dei bibliotecari) nei curricula universitari, mentre di ingegneria venivano insegnate le sole competenze teoriche quali la matematica (compresa nel vecchio quadrivium). Queste discipline 'pratiche' vennero quindi confinate in scuole specializzate non di livello universitario, all'interno di un sistema binario che si sviluppò sul finire del Seicento e soprattutto nel Settecento.
In seguito, tuttavia, l'influenza combinata della rivoluzione scientifica e della rivalutazione delle competenze tecniche e manuali operata dall'illuminismo mise in moto un processo di riconsiderazione di alcuni settori disciplinari e l'ingegneria venne incorporata nei sistemi universitari. Va sottolineato come nel 1870 il settore non universitario riguardasse il 30% dell'istruzione superiore in Inghilterra, il 23% in Germania e il 48% negli Stati Uniti. Il caso della Francia si segnala per la costituzione in questa prospettiva delle grandes écoles, mentre in numerosi altri paesi, allo scopo di ridurre il vuoto dell'istruzione tecnica a livello superiore, furono creati i politecnici (tra gli altri a Praga nel 1806, a Vienna nel 1815, a Zurigo nel 1855, a Budapest nel 1856).
Si viene definendo quindi una ristrutturazione delle istituzioni formative, e dalle università che fornivano ogni tipo di insegnamento si tende a passare ad istituzioni più piccole e dedicate a settori disciplinari specifici. Agli inizi dell'epoca moderna i sistemi così configurati reclutano ancora una percentuale limitata (mai superiore al 3%) di studenti tra i 16 e i 25 anni di età; un timido aumento si registra all'inizio del XIX secolo con l'ammissione all'università delle donne. Gli studenti dal XVI secolo erano sempre più laici e non chierici; i fini formativi dell'università si spostano dalla conoscenza della fede e della cultura cristiana alla formazione per scopi sociali: l'amministrazione dello Stato, la difesa della legge e della salute.
L'interesse per il mantenimento dell'autonomia delle istituzioni universitarie rese non sempre facili i loro rapporti con i poteri laici e religiosi. In una prima fase - nel XVI secolo - Chiesa e Stato spinsero per l'istruzione universitaria dei propri funzionari; in una seconda fase, tuttavia, la sola formazione universitaria parve inadeguata e la Chiesa inaugurò con il Concilio di Trento una politica di diffusione dei seminari, in alternativa o in aggiunta alla formazione universitaria. Le autorità statali, dal canto loro, cercarono di acquisire un maggior controllo sulla formazione dei propri funzionari, chiedendo che fossero istruiti nelle università del proprio territorio e in istituzioni direttamente controllate dal potere pubblico. Misure di questo tipo vennero introdotte in Polonia nel 1534, in Portogallo nel 1538, in Spagna nel 1559, in Francia nel 1603, in Prussia nel 1723, in Piemonte nel 1729, infine in Russia nel 1798. Ben presto, tuttavia, si giunse alla definizione di dettagliati prerequisiti per l'ammissione ai pubblici impieghi, all'istituzione di vari tipi di formazione aggiuntiva postuniversitaria e alla richiesta di un esame di fine gymnasium, che la Prussia rese obbligatorio (l'Abitur) per l'accesso all'università a partire dal 1788.
Tali mutamenti introdussero alcune fondamentali trasformazioni nella concezione di 'pubblico servizio' e nelle funzioni dell'istruzione universitaria. Né l'origine sociale né le protezioni bastavano più per l'ammissione alle funzioni pubbliche, bensì contavano il tipo di formazione, le doti di intelligenza e i risultati raggiunti. Le funzioni socioculturali dell'università si modificano in parallelo: da istituzione dedicata alla conservazione del sapere e alla sua trasmissione alle nuove generazioni (rappresentate costantemente dalle stesse classi sociali) si viene a trasformare, sia pure progressivamente e non senza contraddizioni e resistenze, in una struttura per l'apprendimento, aperta al riconoscimento delle performances individuali indipendentemente dalle origini sociali e familiari. L'idea della Bildung che si ritrova in Humboldt rappresenta l'idealizzazione di questo principio di meritocrazia. Nella stessa concezione humboldtiana non entra il compito, per l'università, di preparare alla professione, e dunque quest'ultima resterà separata e controllata dallo Stato o dalle corporazioni sino al XX secolo.
La considerazione del merito individuale si somma - nel XIX secolo - alla crescente carenza della spesa pubblica. Queste due componenti introducono l'idea dei concorsi per l'ingresso nelle professioni pubbliche (si ricorda un concorso per l'assunzione di 60 insegnanti delle scuole superiori a Parigi già nel 1766). In particolare nei paesi dell'Europa meridionale, Spagna, Francia e Italia, i concorsi vennero usati largamente per regolare e frenare il mercato del lavoro dei laureati. Anche se i problemi del mercato del lavoro erano reali e nel XIX secolo si cominciò a parlare di 'proletariato accademico', tuttavia le restrizioni attraverso i concorsi nascondevano l'intento di mantenere le gerarchie sociali e di proteggere le élites dagli arrampicatori sociali. Nelle società preindustriali, infatti, più che nell'ambito di un vero mercato del lavoro l'istruzione superiore si collocava all'interno di una gerarchia sociale, dove un eccesso di intellettuali era visto più che altro come un pericolo per l'equilibrio sociale (v. Frijhoff, 1992).
Il vero mutamento nelle funzioni dell'università si verifica intorno alla metà del XVII secolo. In precedenza (specialmente nel XVI secolo) la diffusione dell'università era stata influenzata dagli ideali dell'umanesimo, dalle crescenti aspettative della Chiesa e dalla sempre più rilevante presenza delle burocrazie statali. Dopo la metà del Seicento emerge una visione più secolare e razionalista della scienza, che crea la figura del ricercatore. In alcuni paesi questa concezione si sviluppa all'interno delle università (Germania, Scozia, Olanda), in altri la ricerca scientifica costituisce un percorso parallelo all'università (Francia, Inghilterra). Nella seconda metà del XVIII secolo le scuole specializzate per la formazione tecnica ad alto livello danno vita ad un sistema d'istruzione superiore binario.
Se da un lato le trasformazioni politiche tra il 1780 e il 1848 coinvolgono studenti e docenti e contribuiscono alla definizione di un ruolo sociale per gli intellettuali, dall'altro l'idea humboldtiana dell'università come luogo dell'unità di tutte le scienze consente un recupero di identità alla collettività degli studiosi. Insegnare e fare ricerca non sono più scopi in sé, ma strumenti per raggiungere il traguardo della scienza: nel XIX secolo le università divengono centri privilegiati di elaborazione scientifica con riferimenti universalistici e, ad un tempo, si avviano a diventare una delle maggiori industrie del mondo occidentale (v. Frijhoff, 1992, p. 1258).
L'università nel periodo antecedente la prima guerra mondiale. - All'inizio del XX secolo l'università fa registrare un rapido sviluppo, sia nei paesi dove si era da tempo consolidata (in Inghilterra riprendono vigore Oxford e Cambridge, in Francia il sistema si rafforza, ma soprattutto in Germania vengono raggiunti livelli considerevoli di produzione intellettuale e scientifica), sia nei paesi extraeuropei influenzati in varia misura dalla cultura occidentale come l'India, la Cina (l'Università di Pechino viene creata nel 1898) e il Giappone.
Negli Stati Uniti le università si estendono dalla costa atlantica verso Ovest grazie a forti sostegni politici ed economici pubblici, mentre ad un tempo si moltiplicano anche le iniziative private, tra le quali si segnalano in particolare la fondazione dell'Università di Chicago e della Johns Hopkins a Baltimora.
Nei confronti del mondo esterno l'università rafforza inizialmente la propria autonomia, divenendo sempre più una comunità di studenti, studiosi e ricercatori uniti dalla dedizione all'apprendimento e alla ricerca originale, condotta senza alcuna preoccupazione circa i possibili usi e riflessi sulla società. Le dimensioni contenute delle università aiutano lo sviluppo delle valenze comunitarie, che si caratterizzano per l'universalismo degli approcci teorici e delle finalità istituzionali. Il tipo di ricerche condotte nelle università ha costi contenuti e ciò consente di non risentire troppo degli scarsi contributi provenienti dalle istituzioni pubbliche. La tendenza prevalente all'interno del mondo universitario è, del resto, quella tesa al rafforzamento della propria autonomia dalle ingerenze esterne.
All'interno delle università la distribuzione dell'autorità si veniva articolando in modi in parte diversi: mentre in Europa il potere maggiore si concentrava nelle mani dei docenti più anziani (la 'democrazia aristocratica' di Oxford e Cambridge e delle università tedesche), negli Stati Uniti il controllo esterno, rappresentato dai 'garanti' laici (il board of trustees), veniva mediato dalla figura del presidente dell'università, che nominava i presidi di facoltà e i direttori di dipartimento e garantiva l'ordinato sviluppo della vita universitaria. Sul piano organizzativo interno diventava peraltro sempre più difficile conservare l'unità del sapere; alla fine del XIX secolo l'esigenza di riconoscere la diversità dei fenomeni naturali e delle attività umane spinse le università all'istituzione di dipartimenti, cattedre, istituti. Le divisioni disciplinari si accentuarono, ma non eliminarono numerosi fenomeni di sovrapposizione tra campi nominalmente resi diversi. La creazione delle cattedre sanzionò il rapporto tra singolo studioso e area disciplinare, mentre sul piano organizzativo le distinzioni si rivelarono essenziali per il buon funzionamento delle università.
Grande rilievo acquistava frattanto il tema del fine etico delle attività di ricerca all'interno dell'università. La formazione del carattere e dei valori dello studente attraverso l'esperienza della ricerca acquistava un posto centrale: l'importanza della verità e dell'obiettività nell'uso di strumenti e nell'interpretazione dei risultati divenne parte dell'etica universitaria. Si venne rafforzando in questo modo l'idea che la vita accademica fosse fondamentalmente diversa da quella dominata dalle logiche del mercato o della competizione politica.
Nello stesso tempo, in un periodo nel quale si rafforzavano le identità nazionali, le università incrementavano i legami interaccademici sulla base di interessi comuni e di scambi di produzioni e conoscenze scientifiche a livello internazionale. Il tedesco era la lingua scientifica predominante, in virtù del prestigio raggiunto in diversi campi dalle università della Germania, e ciò contribuì a rafforzare l'autonomia nei confronti del mondo esterno.
Solo molto lentamente il divario tra università e società cominciò qua e là a ridursi. Mentre in Germania e Francia le università si mantenevano lontane da ogni contatto con il mondo industriale e degli scambi, negli Stati Uniti le relazioni fra i due ambiti erano migliori, come dimostra l'introduzione nelle università delle scuole di gestione aziendale. Alcuni settori disciplinari, come chimica e ingegneria, stabilirono solidi rapporti con il mondo economico, altri se ne astennero, seguendo il modello europeo. In tutto il mondo occidentale la nascita e lo sviluppo delle ricerche empiriche sui principali problemi sociali aprirono un canale di collegamento tra università e società, mentre un primo nucleo di docenti prese a interessarsi direttamente degli affari politici e a candidarsi alle attività parlamentari. All'inizio del XX secolo le università non erano vere e proprie 'torri d'avorio', come è stato detto, ma non erano nemmeno istituzioni di servizio che fornivano conoscenza e competenze su richiesta (v. Shils, 1992, p. 1264).
L'università fra le due guerre mondiali. - Nel primo dopoguerra i diversi sistemi nazionali d'istruzione superiore riuscirono a recuperare la condizione prebellica nel giro di pochi anni, ripristinando le tradizionali caratteristiche di autonomia, anche se in alcuni casi - segnatamente in Germania - la decimazione delle generazioni più giovani di studiosi e ricercatori ridusse o impedì il normale ricambio nell'accademia. Le novità più significative furono rappresentate dai paesi dell'Unione Sovietica da una parte, dalla Germania, l'Italia e i paesi coinvolti nel regime nazionalsocialista dall'altra: in entrambi i casi venne impedita la ricostituzione completa della comunità accademica internazionale (v. Charle e Verger, 1994).
Nei paesi dove vennero mantenute le condizioni di vita politico-sociali in varia misura espressione dei sistemi liberal-democratici i mutamenti di maggior rilievo interessarono i modelli di sostegno finanziario delle università.
In Germania, Francia e Inghilterra sorsero speciali istituti destinati a contribuire alla canalizzazione di parte delle risorse pubbliche verso i sistemi universitari (Notgemeinschaft der deutschen Wissenschaft in Germania, Conseil National de la Recherche Scientifique in Francia, University Grant Committee in Inghilterra). Il risultato fu che gli scienziati furono spinti a guardare al di fuori dell'università nel reperimento dei fondi per le ricerche, in qualche modo mettendo in pericolo il necessario "isolamento dalle distrazioni esterne" raccomandato da Humboldt. Ancora più accentuato apparve il problema negli Stati Uniti, dove crebbe il ruolo delle fondazioni private (Carnegie e Rockefeller in primo luogo) nell'attribuzione di risorse finanziarie alle università. In realtà, queste innovazioni cominciarono a modificare anche l'organizzazione del potere interno alle università: nel caso americano il presidente vedeva ridursi il proprio potere in ragione delle possibilità dei singoli docenti di acquisire risorse esterne sulla base di proprie relazioni professionali con le fondazioni o con parti del mondo economico interessate alla ricerca e all'uso di competenze tecniche individuali.
Le università dopo la seconda guerra mondiale. - Il coinvolgimento del mondo accademico nel secondo conflitto mondiale acquistò un rilievo senza precedenti, specialmente in alcuni paesi come gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Germania, dove la ricerca scientifica venne applicata alla realizzazione di tecnologie avanzate (l'energia nucleare e la bomba atomica, l'elettronica e il radar, la crittografia e la creazione/decodifica dei linguaggi).
In tempo di pace questo coinvolgimento (e i relativi risultati) fu alla base di una rinnovata considerazione per il mondo universitario che si tradusse ben presto in notevoli aspettative circa i contributi che sarebbero potuti derivare all'umanità dalle ricerche e dalle attività formative universitarie. Ne derivò altresì un considerevole incremento dei sostegni finanziari governativi al mondo accademico.
Contemporaneamente, i percorsi universitari presero a essere considerati canali privilegiati per la riduzione delle differenze sociali e per la realizzazione degli ideali di uguaglianza. Per le classi sociali più basse - tradizionalmente escluse dagli studi superiori - le porte dell'università si aprirono in forza di questi ideali che la guerra aveva posto in primo piano, e l'istruzione superiore apparve il tramite per una mobilità sociale ascendente, mai prima d'allora neppure pensata. Generazioni cui la guerra aveva impedito la frequenza si ritrovarono all'università accanto a categorie sociali non tradizionali, spesso rappresentate da soldati smobilitati il cui accesso veniva favorito da norme speciali (la più nota fu l'americano G.I. bill of rights). Ne derivò un affollamento mai visto prima delle università e un mutamento nei tradizionali rapporti tra docenti e studenti, resi più rarefatti dalla numerosità dei secondi.
Il sostegno finanziario dei governi andò aumentando, ma non risultò quasi mai sufficiente rispetto alle esigenze sempre crescenti: diversi edifici universitari erano stati danneggiati o distrutti nel conflitto e andavano ricostruiti, mentre il costo della ricerca cresceva costantemente. La presenza dei governi centrali nell'università - sotto forma di controlli ed esercizio di poteri decisionali ai diversi livelli - crebbe in parallelo, anche se con ritmi e modalità diversi nei vari paesi.
I compiti dei docenti e dei ricercatori si moltiplicarono sia per la crescente componente burocratica (legata - tra l'altro - alle procedure organizzative destinate alle attività di ricerca), sia per il carico didattico aumentato, sia per la diffusione di modalità decisionali condivise che comportavano incontri e riunioni frequenti, sia - infine - per l'incremento delle attività di ricerca, la diffusione della letteratura scientifica e la pressione a pubblicare i risultati dell'attività professionale. Ci si allontanava sempre più dal modello con 'assenza di distrazioni' auspicato da Humboldt.
I rapporti dell'università con il mondo esterno si sono trasformati in ragione delle numerose e rapide modifiche che intervengono nelle società occidentali, e delle quali l'impetuoso accrescersi della domanda d'istruzione superiore, appena citato, è un esempio vistoso.
L'economia acquista una rilevanza del tutto centrale nelle diverse componenti della società: lo si percepisce dalla frequenza con la quale gli accademici-economisti sono al centro del panorama politico come consulenti del potere o come attori principali (componenti delle compagini ministeriali in diversi paesi). La collaborazione degli stessi economisti con le imprese private, anche a scopo di ricavarne integrazioni finanziarie, cresce in modo considerevole. Ma soprattutto, le relazioni tra scienza e tecnologia si modificano e si intrecciano al punto da rendere del tutto conveniente, quando non indispensabile, stabilire strette collaborazioni tra le scoperte scientifiche e le loro applicazioni, dunque tra università e imprese industriali. I casi americani universalmente noti dei rapporti tra l'Università di Stanford e la Silicon Valley o tra il MIT e Harvard e l'area intorno alla Route 128 nel Massachusetts sono solo esempi paradigmatici di tali sinergie, che trovano riscontro nella nascita di 'parchi scientifici', nelle vicinanze e su terreni che università inglesi e americane affittano ad industrie interessate alla prossimità con le università stesse. Questi stretti rapporti hanno spinto, tra l'altro, numerosi studiosi e ricercatori ad entrare nel mondo universitario mentre, per converso, hanno suscitato considerevoli preoccupazioni e opposizioni in diversi settori del mondo accademico, soprattutto negli Stati Uniti, timoroso di veder messe in pericolo dalle logiche aziendali l'autonomia e le libertà accademiche (con riferimento, in particolare, alla libertà di pubblicazione dei risultati scientifici delle attività di ricerca).
Nei confronti della società si vengono ponendo per l'università problemi in parte simili a quelli legati all'economia, dal momento che le scienze sociali (ma anche le scienze naturali) sono spinte ad interessarsi dei problemi sociali più rilevanti e a dipendere da finanziamenti esterni (in genere pubblici) per lo svolgimento delle loro ricerche. Ne deriva il rischio di dover far dipendere ciò che deve essere studiato da interessi e decisioni esterne.
Nei rapporti con la politica il mondo accademico è riuscito, inizialmente, a mantenere una separazione tra interessi di parte e interessi scientifici che ha preservato largamente l'università da conflitti di fazione esterni. Negli anni sessanta i movimenti studenteschi portarono a conflitti interni all'università, con commistioni tra problematiche accademiche e sociopolitiche esterne, che resero sovente precaria l'attività scientifica e il mantenimento dell'autonomia del mondo universitario rispetto alle divisioni proprie al mondo esterno. Una nuova concezione dell'università come luogo dello scontro tra interessi divergenti e dunque come istituzione politica - elaborata in Germania - ha rappresentato il culmine del periodo di conflitti interni, che peraltro, nel corso degli anni settanta, sono progressivamente scomparsi ovunque. Tuttavia, resta il nodo non risolto delle funzioni e del conseguente modo di operare dell'università, che Jürgen Habermas poneva molto chiaramente identificando tre compiti da aggiungere a quello oggi prevalente della connessione con il processo economico. Si tratta dunque per l'università: 1) di fornire ai propri laureati un minimo di capacità 'extra-funzionali' in forma di attitudini e qualità per svolgere una professione secondo norme etiche non scritte (per un medico, dice Habermas, il sapere intervenire rapidamente e autonomamente in situazioni di emergenza); 2) di trasmettere, interpretare e incrementare alcune tradizioni culturali della società; 3) di formare la coscienza politica dei suoi studenti sapendo di farlo (posto che comunque ciò avviene). Il nodo non risolto, nelle parole del filosofo tedesco, si presenta come una semplice alternativa: "o l'incremento della produttività è l'unico criterio di una riforma che integri senza residui un'università spoliticizzata nel sistema del lavoro sociale e che si sciolga senza parere dai suoi addentellati con la vita politica; oppure l'università afferma la sua posizione nella democrazia" riconoscendo "un'intima relazione tra l'esercizio della scienza negli atenei e la forma democratica del processo di formazione della volontà" (v. Habermas, 1967; tr. it., p. 118).
Va detto che le nuove concezioni dell'università, fortemente contrastanti con l'idea di Wilhelm von Humboldt, non hanno trovato realizzazioni pratiche particolarmente significative. Si può notare piuttosto come siano all'opera nel mondo universitario, a partire dal secondo dopoguerra, numerose forze centrifughe. Innanzitutto, ai processi di burocratizzazione interna si sono sommati quelli dei settori esterni maggiormente interessati all'operare delle università; le richieste di assunzione di responsabilità provenienti dall'esterno comportano poi un'accentuazione delle pressioni in senso lato 'politiche' sulle università. Il complesso di elementi di attrazione e pressione esterni hanno messo in moto un processo di disgregazione delle comunità di studio che rappresentavano una caratteristica centrale dell'università. Sul piano epistemologico, l'accentuazione delle specializzazioni ha operato nella medesima direzione, dividendo per aree disciplinari le relazioni funzionali degli studiosi, a detrimento dei rapporti interni ai singoli atenei e delle relazioni tra studioso e istituzione di appartenenza.
La caratteristica centrale che viene messa in questione è una particolare atmosfera intellettuale, propria delle istituzioni universitarie dove hanno operato tradizionalmente gli scienziati e i ricercatori. Questi, dal canto loro, con le loro attività e scoperte hanno contribuito al successo delle istituzioni stesse. Ci si domanda se tanti importanti progressi della conoscenza sarebbero stati possibili senza un contesto che - in particolare nel XIX secolo e agli inizi del XX - comprendeva una comunità di insegnanti, una di studenti e una di insegnanti e studenti. Anche se non tutti i componenti delle singole università partecipavano in ugual maniera alle diverse aggregazioni comunitarie, resta indubbia la loro rilevanza, e ci si può chiedere cosa sia rimasto nell'università di queste caratteristiche contestuali a seguito delle trasformazioni prodotte dal successo stesso dell'università nel mondo contemporaneo.
Gli effetti delle pressioni centrifughe sembrano essersi dispiegati in modi diversi a seconda delle aree scientifiche. I settori umanistici appaiono esserne stati largamente influenzati, come in qualche modo anche quelli delle scienze sociali (con la parziale eccezione di Economia). Le scienze naturali hanno subito i danni minori, e in questi contesti l'interesse per gli studenti e per la ricerca pura restano nel complesso molto vivi; tuttavia anche i rappresentanti di queste discipline non dimostrano una particolare attenzione per i destini delle istituzioni universitarie nel loro complesso. In certa misura analogo appare essere il caso di Medicina. In realtà, i settori scientifici hanno accumulato tanti e tali successi da farli apparire senza problemi, ma a causa delle esasperate specializzazioni e delle ricadute economiche delle loro performances, anche i componenti di questi settori tendono a dimenticare la dimensione complessiva delle università di appartenenza e a trascurare i percorsi formativi dei loro studenti e dei loro giovani ricercatori.
Nel complesso, dunque, l'università appare navigare in acque poco tranquille, forse perché si è trovata ad occupare troppi ruoli e ha voluto/dovuto rispondere a molteplici esigenze del mondo esterno. Secondo alcuni l'università sarebbe diventata in sostanza una 'stazione di servizio' per ogni genere di richiesta altrui, finendo per trascurare il ruolo di istituzione dedita al miglioramento del bagaglio conoscitivo di fondo e della capacità di analisi razionale. Il punto cruciale sembrerebbe allora essere legato alla consapevolezza che queste funzioni di base sono le precondizioni per la possibilità di rispondere alle diverse richieste provenienti dal mondo esterno (v. Shils, 1992, p. 1275). I sostenitori delle funzioni tradizionali dell'università ritengono quindi che per realizzare ancora il suo ruolo nella società essa debba comunque, oggi più che mai, ripensare se stessa e concentrarsi sulla realizzazione dei propri compiti specifici: il rischio non sarebbe quello di essere una torre d'avorio ma, al contrario, di non essere una torre del tutto. Occorrerebbe allora che si rimettessero in moto delle forze centripete che consentissero all'università di recuperare i compiti di conservazione, arricchimento e revisione del proprio capitale scientifico e culturale, al fine di svolgere le funzioni di elaborazione e trasmissione della conoscenza che le sono peculiari.
Il problema appare comunque legato alla possibilità di combinare le nuove funzioni attribuite all'università nel mondo moderno con quelle tradizionali, elaborate in un contesto sociale certamente diverso, dove la scienza aveva poche applicazioni pratiche. Il timore di non riuscire a combinare il moltiplicarsi di funzioni con la qualità della produzione scientifica contrappone i tradizionali modelli di università sviluppatisi nei principali paesi europei a quello statunitense, assai più flessibile e articolato in diversi livelli e istituzioni con compiti distinti. Il modello americano sembra influenzare progressivamente quelli europei sotto il profilo della diversificazione delle istituzioni e dell'apertura al mondo esterno. Resta il rischio, paventato da diverse parti, di un abbassamento generale dei livelli culturali e scientifici; altri tuttavia considerano infondato tale timore, paragonandolo a quello che "ai tempi della rivoluzione industriale aveva spinto a credere nella superiorità del vecchio sistema artigianale sulle industrie moderne per il fatto che queste ultime producevano a volte merci piuttosto scadenti" (v. Ben-David e Zloczower, 1964, p. 69). L'espansione delle attività scientifiche non sembra aver abbassato gli standard di qualità, e l'élite degli scienziati puri non è scomparsa nelle università degli Stati Uniti, anche se resta il problema dell'equilibrio tra fini diversi: problema che dipende dalle capacità di gestione delle relazioni tra università e società sia da parte dei responsabili accademici che da parte di quanti sono chiamati a gestire i rapporti con l'università (v. Bok, 1982).
Il nodo non risolto (e forse il punto debole) di molte posizioni riguardo i compiti dell'università, che pure pongono un problema centrale per l'esistenza dell'istituzione, è costituito dalla predilezione per una istituzione indipendente e autonoma da qualunque potere esterno (economico o politico-sociale). Ora, è ben noto come quello dei legami o della libertà dai legami e dai controlli esterni sia un problema che ha storicamente caratterizzato l'università: come si è visto, a cominciare dai primi esempi di Bologna e Parigi, e via via con le 'protezioni' delle autorità religiose e civili nelle diverse epoche storiche.
In particolare dopo la Riforma, in tutta l'Europa si rafforzano i poteri territoriali (mentre si indeboliscono i poteri sovranazionali come quelli del papato e dell'impero). Il periodo dell'assolutismo vede un'accentuazione delle funzioni di controllo e di regolazione da parte del potere centrale sull'università, secondo un modello che precede di mezzo secolo la Rivoluzione francese e che in seguito si esprimerà in un sistema centralistico napoleonico e in uno prussiano. Nel processo che vede l'unificarsi dei concetti di Stato e nazione, l'università diviene simbolo e strumento della conservazione della cultura nazionale, e dunque l'amministrazione centrale si attribuisce il diritto/dovere di supervisionarne le attività. Nasce una dialettica assai vivace tra il coordinamento/controllo 'dall'alto' dello Stato nei confronti dell'università e le logiche 'dal basso' delle autorità accademiche nell'organizzare autonomamente la vita degli atenei, all'interno della quale il controllo dello Stato si esercita, in particolare, attraverso la certificazione (il valore legale dei titoli di studio). I rapporti tra autorità pubbliche e università si sviluppano secondo almeno tre modelli in parte diversi che si riscontrano rispettivamente nei paesi dell'Europa continentale, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (v. Neave, 1997).
Il modello europeo continentale si caratterizza, fra l'altro, per il principio dell'omogeneità legale, da cui deriva lo status di dipendenti pubblici attribuito anche al personale universitario al fine di proteggerlo dalle possibili pressioni e dagli interessi settoriali e locali, temuti a priori come parziali, arbitrari ed egoistici. Per contro, il potere centrale si suppone per definizione garanzia di uniformità, imparzialità, razionalità. Ma lo Stato ha anche bisogno dell'università per ragioni diverse, che vanno dal consolidamento dei valori nazionali e dello spirito unitario alla formazione di varie categorie professionali e soprattutto dei quadri e dei dirigenti pubblici.
Un caso esemplare è fornito dalla Germania. Fin dai primi anni del XIX secolo, con la fine delle guerre napoleoniche, nuove università (Bonn nel 1818, Monaco nel 1826) si aggiungono a quella di Berlino e si dimostrano particolarmente attive, mettendo in moto una dinamica competitiva che impedisce al sistema tedesco di centrarsi (secondo il modello francese) su un'unica università, quella di Berlino. Il ceto politico concede ampie libertà corporative alle università, sia perché ritiene di poter usare le teorie filosofiche, lì elaborate, per il proprio rafforzamento, sia perché con il ripristino dei diritti corporativi delle università si veniva a sostenere il principio del legittimismo contro il modello della Rivoluzione francese. Tuttavia, l'interesse delle classi dirigenti appare rivolto soprattutto alla formazione di alcune categorie professionali. Da qui il controllo della formazione sia attraverso gli esami di Stato per l'esercizio di varie professioni, sia attraverso le autorizzazioni alla creazione di nuove cattedre. Formalmente ciò non viola la libertà dell'università di fissare i contenuti dei corsi di studio e di conferire le lauree, ma i programmi vengono certamente influenzati dai voleri delle classi dirigenti che intendono l'università come una scuola professionale. Le università reagiscono accentuando nei curricula le materie fondamentali di base a forte contenuto teorico e trascurando le componenti pratico-professionali anche in settori disciplinari quali Medicina e Legge. Allo stesso modo viene utilizzato il principio della inscindibilità tra funzione di docente e funzione di ricercatore, al fine di evitare ogni possibile strumentalizzazione a scopi puramente pratici e di perdere la libertà di dedicarsi alla ricerca pura. E nella stessa direzione va letta, in buona sostanza, l'opposizione all'introduzione nell'università delle discipline con risvolti tecnologici e finalità pratiche.
In sintesi si può dire che "l'università tedesca sembrò voler salvaguardare il suo prestigio e la sua libertà attraverso un completo isolamento dalle diverse classi e attività pratiche della società; seguì, pertanto, una linea di condotta tutta volta al mantenimento di una immagine sacra e esoterica di se stessa" (v. Ben-David e Zloczower, 1964, p. 31).
Le università tedesche nell'Ottocento vivevano dunque in una situazione di precarietà e di costante compromesso nei confronti del mondo esterno: i governanti infatti consideravano le università come luoghi di addestramento di alcune figure professionali, ma al tempo stesso concedevano loro la libertà di scegliere i metodi formativi da adottare e la libertà di condurre la ricerca pura. Si trattava tuttavia di una libertà condizionata dal raggiungimento dei fini dello Stato e fondata in sostanza su di un equivoco, in forza del quale gli "intellettuali, liberi pensatori, insegnavano a studenti che generalmente condividevano i punti di vista autocratici dei governanti e che si preparavano a carriere governative, quali funzionari di Stato, giudici, avvocati e insegnanti" (ibid., p. 33). La contraddizione era accentuata dal fatto che i docenti erano sì liberi pensatori ma, ad un tempo, funzionari pubblici che dovevano, in quanto tali, lealtà allo Stato (il che, in quel momento, significava lealtà ad un regime assolutistico). Si comprende dunque il sorgere della dottrina della Wertfreiheit (avalutatività) della ricerca scientifica, teorizzata da Max Weber (v., 1919), ma già presente nel pensiero accademico della seconda metà del XIX secolo, quando divenne chiaro il possibile conflitto tra libertà accademica e assolutismo. Affermando che i giudizi di valore erano incompatibili con la ricerca scientifica e con l'insegnamento accademico si ritenne di assicurare la libertà di dibattito nell'università e di mantenere l'equilibrio instabile caratterizzante i rapporti tra università e potere statuale.
La situazione del sistema tedesco nel XIX secolo è stata condivisa in varia misura dai paesi dell'Europa continentale per periodi non brevi. L'università è stata coinvolta nelle politiche tese a creare una coscienza nazionale e una cultura comune, ed ha cercato di difendere la propria autonomia e i propri privilegi da eccessive ingerenze di tipo sostanzialmente politico. In diversi paesi l'università è stata costretta a venire a patti col potere politico statuale che aveva bisogno della formazione ad alto livello dei suoi funzionari. In alcuni casi (Francia, Unione Sovietica) lo Stato centrale ha trattato direttamente con l'università le attività formative, riconoscendo, ad un tempo, l'importanza della ricerca scientifica e sviluppandola in strutture separate di alto livello e riservate alle élites. In altri casi (Inghilterra, Stati Uniti) le diverse categorie e i diversi interessi organizzati a livello comunitario si sono fatti portatori delle esigenze formative e di ricerca e hanno trovato un canale diretto con le università, aperte - specialmente negli Stati Uniti - alle varie richieste.
È emersa così la logica correlazione tra diversi contesti culturali, specifici valori e strutture (nel caso, accademiche), che non possono che essere filiazioni dei contesti culturali e dei valori che in tali contesti si sono sviluppati. Si spiega in tal modo la nascita negli Stati Uniti del modello di multiversity, definita dall'allora presidente dell'Università di California, Clark Kerr, come struttura aperta alle diverse necessità formative, conoscitive e di ricerca espresse dalle più differenti categorie sociali (v. Charle e Verger, 1994).
In tempi più recenti - a partire dagli anni cinquanta, ma con una vistosa accelerazione negli anni settanta - la situazione si è profondamente modificata. La componente politico-sociale che tendeva a condizionare la vita del mondo accademico è stata sostituita da quella economico-professionale. E si è riproposta, in forme nuove, la tradizionale dialettica università/mondo esterno, misurata nei gradi e nelle caratteristiche dell'autonomia universitaria (o se si vuole, per converso, nel tipo di dipendenza e di funzionalità dell'università rispetto alle esigenze della società). Negli ultimi decenni (dagli anni settanta in poi) il rapporto università/Stato si è venuto profondamente modificando in ragione di un certo numero di processi innovativi, specialmente nei rapporti tra mondo accademico, Stato ed economia internazionale.
Innanzitutto, si sono venuti sviluppando (in Europa) organismi sovranazionali sulla scorta del processo di unificazione europea; in parallelo ed autonomamente, si assiste alla globalizzazione dell'economia e all'integrazione economica, cui si somma l'evoluzione rapidissima della tecnologia, dei processi di produzione e delle competenze professionali (v. Neave, 1992).
Altri meccanismi collettivi si sono poi attivati in forma autonoma, ma nello stesso periodo. Uno dei più rilevanti ha riguardato la messa in questione delle modalità di controllo pubblico sull'economia nei sistemi statuali centralizzati, ritenendosi che un tale meccanismo limitasse eccessivamente l'iniziativa privata. Più precisamente, si è posta in discussione la funzione dello Stato quale organismo in grado di attribuire valore all'organizzazione della società attraverso iniziative come l'intervento nei confronti di categorie svantaggiate (il sistema detto del Welfare State), con particolare riferimento alla salute e all'istruzione.
Da un lato, dunque, le logiche di riorganizzazione dell'economia tendono a spostare i momenti decisionali al di sopra dello Stato nazionale; dall'altro, gli apparati pubblici centrali rivelano da tempo crescenti difficoltà nel fornire adeguati servizi alla molteplicità delle categorie di cittadini-utenti; dall'altro ancora, alcune funzioni dello Stato centrale e centralizzatore (si pensi alla necessità di rafforzare la coesione interna e l'unità nazionale) vengono meno, anche proprio per il declinare degli antagonismi politico-militari tra i principali paesi occidentali in favore di unioni sovranazionali, non solo con finalità economiche. Muta dunque lo scenario nel quale si inserisce l'università e mutano, in conseguenza, le finalità ad essa attribuite dalla società.
La difficoltà di fornire servizi pubblici generalizzati ad alto livello coinvolge anche l'istruzione superiore, e lo Stato deve rivedere i meccanismi di finanziamento delle università, sia per ridurne il peso sul proprio bilancio, incentivando la diversificazione delle fonti di entrata dei diversi atenei, sia per migliorare la produttività dell'istruzione in rapporto al costo (maggior numero di laureati in tempi ridotti). Questa tendenza provoca una riduzione, o meglio una modifica delle forme di controllo pubblico sui sistemi centralizzati d'istruzione superiore, nei quali si diffondono forme di autonomia e di parziale autogestione dei singoli atenei. Aumenta la necessità di ricorrere a fonti di finanziamento esterne legate a prestazioni che in prima battuta si riferiscono alle attività di ricerca applicata e di consulenza, ma che tendono ad allargarsi ad attività formative mirate e sempre più legate a forme di professionalità esistenti sul mercato. Da ciò i rischi di perdita della omogeneità e dell'indipendenza tradizionali, non più per ragioni di controllo politico ma di indiretta subordinazione nei confronti del mondo economico. D'altro canto, il controllo dello Stato, comunque destinato a restare il principale erogatore delle risorse finanziarie, non sparisce ma si modifica, e tende a spostarsi sui risultati e comunque più sugli aspetti sostanziali e meno su quelli formali (lasciati in misura crescente all'autonomia delle singole istituzioni). In questo i sistemi centralistici tendono a seguire il modello anglosassone del decentramento e del controllo ex post. Ad un tempo, appare di rilievo - ma non privo di coerenza - come in quest'ultimo sistema (più in Gran Bretagna che negli Stati Uniti) i controlli del centro si moltiplichino e vadano sempre più nella direzione dell'incentivazione della qualità (v. Neave, 1995).
La recente tendenza a focalizzare l'attenzione sulla qualità sembra destinata a diffondersi nei vari paesi europei e ad assumere la forma di un diverso intervento dello Stato nei confronti di determinate aree disciplinari e di specifici livelli (superiori, graduate) di formazione. Le politiche pubbliche privilegiano, in diversi paesi, aree scientifiche e disciplinari come informatica, biotecnologia, biologia, ricerca medica, ed alcuni settori di ingegneria, oltre a vari settori di confine che combinano parti di queste aree e che per lo più rappresentano trasferimenti e applicazioni del sapere scientifico ai processi produttivi.
La logica che guida queste scelte è sempre più legata alla ridefinizione e all'uso della 'conoscenza utile', finalizzata al benessere economico dei diversi paesi e al sostegno del loro livello di competitività internazionale. Ne deriva, tra l'altro, l'indipendenza sostanziale di tali politiche dai contesti territoriali cui le singole università appartengono, dal momento che le logiche delle politiche sono nazionali e internazionali e ben si sposano con le prassi epistemologiche dei settori scientifici interessati, tradizionalmente orientati a relazioni disciplinari interuniversitarie a livello internazionale che prescindono dal contesto socioeconomico (anche se molte aree scientifiche si sono sviluppate in origine nei paesi a più rapido sviluppo). Per la medesima logica della crescente competizione internazionale lo Stato tende - in particolare nei paesi dove la competizione è stata recepita con maggior prontezza, anche in ragione delle loro posizioni di punta nell'economia mondiale - ad aver bisogno di personale tecnico ad alto livello, avendo colto l'importanza dell'efficienza nel funzionamento delle macchine burocratiche e più generalmente della nuova centralità del fattore umano nel processo produttivo. Esso tende quindi a privilegiare sempre più la qualità della formazione superiore (creazione di scuole di eccellenza, crescente importanza delle specializzazioni post-laurea), trascurando, per contro, la formazione post-secondaria di primo livello. Quest'ultima tende invece ad essere legata maggiormente al territorio, con l'intento di facilitare l'accesso a larghe fasce di studenti e di sostenere l'occupazione giovanile. Accade allora che venga favorita la diffusione di strutture formative di primo livello e professionalizzanti (I.U.T. in Francia, Fachhochschulen in Germania, regional colleges in Norvegia, diplomi universitari in Italia) in relazione alle caratteristiche delle economie locali, assai più che quella della formazione universitaria di livello superiore. In questa dinamica le istituzioni pubbliche regionali svolgono un ruolo diverso a seconda della disponibilità a sostenere in modi efficaci l'istituzione di nuove strutture universitarie, mentre le stesse università non sono per loro intrinseca natura orientate ad identificarsi con le dimensioni regionali, sia per le dinamiche disciplinari del corpo docente, sia per le già ricordate tendenze a misurare la qualità e a trovare referenti e tematiche di interesse a livello nazionale e internazionale. Ne deriva che anche le istituzioni accademiche sorte con intenti e sostegni regionali sono spinte ad allargare il panorama dei loro riferimenti (si pensi all'evoluzione dei polytechnics in Gran Bretagna). Va in questa direzione, infatti, il fenomeno parallelo delle sempre più accentuate relazioni tra le università di diversi paesi europei, che stabiliscono accordi non più solo per progetti di ricerca comuni ma anche per corsi di formazione combinati che portano allo scambio di studenti e al conferimento di 'doppie lauree' (ciò riguarda anche università italiane: tra le altre il Politecnico di Torino è in rapporto con la Francia e l'Inghilterra, e l'Università di Trento con la Germania). Si sviluppa dunque una tendenza a superare i limiti territoriali nazionali che sembra riproporre, attraverso queste forme di complementarità, una dimensione di 'spazio europeo dell'istruzione superiore' già sperimentata nel Medioevo. Questo genere di scambi - prefigurato dai programmi ERASMUS, TEMPUS e SOCRATES - sembra destinato a diffondersi e, a medio termine, potrà diventare importante, ma non privo di possibili effetti perversi nel rapporto tra aree a livelli economicamente e culturalmente diversi. È infatti largamente probabile che si mettano in moto meccanismi di accentuazione delle differenze esistenti (l''effetto S. Matteo', secondo cui a chi ha già sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha: v. Merton, 1973; tr. it., p. 544) a favore delle zone centrali e a danno di quelle periferiche (un esempio può essere fornito dal non ritorno in periferia di molti giovani formati nelle sedi centrali). Qualcosa di simile, del resto, avviene già all'interno di situazioni nazionali molto differenziate in termini di domanda di ricerca applicata e di opportunità occupazionali (differenze Nord-Sud, nazionali e internazionali: v. Neave, 1997, p. 40).
c. La rivoluzione manageriale nell'istruzione superiore
L'istruzione superiore non viene più unanimemente considerata alla stregua di un servizio fornito dallo Stato e neppure (ancora) di un vero e proprio servizio pubblico, quanto piuttosto di un servizio rivolto al pubblico (v. Neave, 1997, p. 39). Questa distinzione non vuole essere solamente terminologica, ma significare processo di restituzione all'università di una serie di responsabilità gestionali conseguente ad un mutamento nelle funzioni attribuitele con la nascita dello Stato-nazione. Come si è detto, da un lato diminuisce il rilievo della formazione di funzionari pubblici e dall'altro si riduce la necessità di formare con l'istruzione superiore una cultura nazionale e una serie di valori condivisi. D'altra parte, lo Stato non è più visto come l'elemento portatore di garanzie e di valori positivi, ma anzi spesso prevale l'immagine negativa dello Stato come rastrellatore di risorse (piuttosto che come distributore di benefici). Il processo in corso in pressoché tutti i paesi occidentali - sia pure con ritmi e modalità diversi - di attribuzione di ruoli e responsabilità agli atenei (e che va sotto il nome generale di autonomia) sembra essere interpretato anche come un ritorno di quelle iniziative formative che si erano sviluppate prima della nascita dello Stato-nazione e che erano in seguito state trascurate. Riprende vigore dunque l'insieme di logiche e di relazioni proprie del settore privato (in alcuni paesi, ma non in Italia, riassume rilevanza il settore privato in quanto tale), anche in virtù della nuova concezione - come detto - del 'sapere utile'. Naturalmente tale tendenza si estrinseca particolarmente in alcuni settori disciplinari, che meglio si adattano alle nuove utilizzazioni del sapere che vanno emergendo nella società. Ma quello che appare di particolare rilievo è l'effetto di questa evoluzione sulle modalità di funzionamento dell'università.
Questa evoluzione è stata anche definita 'rivoluzione manageriale' dell'istruzione superiore (v. Neave e van Vught, 1991; v. Goedegebuure e altri, 1993). Da qui deriva tutta una serie di misure innovative nell'organizzazione delle attività accademiche: dall'attribuzione di somme forfettarie per il finanziamento degli atenei, alla conseguente larga discrezionalità nella strutturazione dei bilanci, alla rilevanza dell'acquisizione di commesse esterne, alla ricerca della produttività delle attività interne e alla loro verifica, alla cruciale identificazione di una leadership di qualità per lo sviluppo dell'ateneo, che significa poi la centralità del management strategico che guidi le politiche di relazione con le forze esterne e gestisca il 'mercato della formazione'. Tale mercato comprende sempre più chiaramente la competizione per l'acquisizione non solo delle risorse economiche dirette, ma anche degli studenti (risorse economiche indirette). Ne deriva la pressione sugli atenei da parte dei governi di diversi paesi (come l'Olanda, l'Inghilterra e la Norvegia) per l'elaborazione di 'piani strategici' che indichino obiettivi e linee politiche per il loro raggiungimento.
Questa tendenza, in apparenza paradossale, che vede i governi (dunque lo Stato) esercitare pressioni in favore dell'acquisizione da parte degli atenei di una mentalità e di logiche di mercato, da un lato attribuisce una particolare centralità alle figure dedite alla gestione dell'ateneo (a cominciare dal rettore-presidente), con effetti imprevedibili sugli equilibri interni di potere e dall'altro, proprio attraverso le nuove figure di managers (spesso reclutati all'esterno), contribuisce a far penetrare nell'ambiente universitario una serie di valori e modelli di comportamento tipici della cultura aziendale. Quanto questo incida sulle caratteristiche proprie del mondo accademico non è ancora chiaro, ma il problema è stato sollevato in diversi paesi, a cominciare dalla Gran Bretagna, e anche in Belgio, Norvegia, Germania e Finlandia (v. Neave e van Vught, 1991, p. 244). Se tuttavia si collega questo fenomeno a quello, ricordato in precedenza, della diversificazione delle fonti di sostentamento dell'ateneo, emerge con maggior precisione il tema dell'incidenza delle forze e degli interessi esterni sul funzionamento delle università, spinte ad adottare logiche e modalità di azione di tipo aziendalistico, all'interno delle quali ovviamente si inseriscono forme manageriali di gestione.
Nel quadro della crescente autonomia attribuita agli atenei nei sistemi formativi contemporanei, diventa di centrale importanza l'attenzione per la qualità dei risultati raggiunti nella gestione delle università, e quindi per la produttività del personale docente e tecnico-amministrativo, nonché per le performances degli studenti.
Negli ultimi anni il tema della valutazione acquista dunque una rilevanza particolare. In alcuni sistemi d'istruzione superiore, la valutazione viene introdotta per la prima volta, in altri dov'è già consolidata si modifica in due direzioni. Da un lato, si passa dalla valutazione a priori alla valutazione a posteriori, dall'altro si introduce la valutazione 'strategica', secondo la quale gli atenei vengono spinti a formulare obiettivi a lungo termine ed a collegare gli obiettivi stessi alle risorse disponibili.
Più in generale, l'analisi comparativa delle esperienze di valutazioni in corso nei principali paesi europei consente di tracciare un quadro abbastanza preciso delle tendenze sinora prevalenti (v. Kogan, 1989; v. Dahllöff e altri, 1991; v. Modica, 1995).
Innanzitutto si può osservare che l'introduzione dei sistemi di valutazione nelle università europee è ovunque legata all'aumento degli studenti: l'aumento della domanda sociale d'istruzione superiore modifica di fatto le funzioni dell'istruzione stessa. A ciò si unisce la diminuzione delle risorse complessive a disposizione del settore e, come detto, la crescente autonomia degli atenei. Ne deriva una generale pressione per l'ottimizzazione della distribuzione delle risorse nel complesso dei sistemi formativi e della loro utilizzazione in ogni singolo ateneo.
Si assiste poi al crescere di una richiesta di qualità del prodotto dell'università, che riguarda non solo la ricerca ma anche la didattica - tradizionalmente poco considerata, specie con l'incremento dell'utenza. Ciò crea non pochi problemi all'organizzazione universitaria, sia in puri termini organizzativi (miglioramento del rapporto docenti/studenti, che significa aumento dell'offerta formativa), sia in termini di pedagogia universitaria (quasi mai affrontata in precedenza e dunque non ricca di modelli teorico-pratici), sia in termini di valutazione diretta della qualità. Resta significativo il recupero dell'importanza attribuita alla funzione di trasmissione delle conoscenze, a testimonianza della crescente consapevolezza del valore delle competenze nel mercato del lavoro dei laureati (v. Hellstern, 1995; v. Bauer, 1995).
La valutazione dell'istruzione superiore si svolge ormai a più livelli e con modalità diverse. Va ricordato che ci si riferisce qui alle forme di valutazione non tradizionali, e che non riguardano dunque i meccanismi di reclutamento e selezione del personale docente, o quelli in uso per l'attribuzione dei contributi alla ricerca scientifica.
Pressoché tutte le università europee sono dotate ormai di 'nuclei di valutazione interna' che raccolgono la documentazione delle attività accademiche e che fanno riferimento ad organismi nazionali di valutazione (dal Conseil National d'Évaluation in Francia, al Higher-Education Funding Council in Inghilterra, alla Agencia Nacional de Evaluación y Prospectiva in Spagna, all''Osservatorio Nazionale per la Valutazione' in Italia). Una delle funzioni centrali di questi organismi è quella di omogeneizzare le forme di valutazione che spontaneamente sorgono nei diversi atenei. In alcuni paesi si è arrivati a elaborare vere e proprie 'guide per la valutazione' o a fornire modelli per la valutazione di programmi di studio o di politiche di ammissione. Si tratta di esempi di quello sforzo teso allo sviluppo di una cultura della valutazione che mira a comprendere sia le mutate forme di gestione degli atenei, sia la creazione di osservatori sui rapporti formazione/occupazione (v. Allulli, 1995; v. Gagliardi, 1995).
Il ruolo di queste istituzioni centrali appare in ogni contesto assai delicato: esse, infatti, dipendono in qualche modo dai governi centrali e hanno in diversa misura il potere di far seguire alle valutazioni sulle attività degli atenei interventi diretti (o suggerimenti per interventi) di premio/punizione. È difficile dire, allo stato attuale, quale sia il modello migliore per il raggiungimento degli scopi che giustificano l'esistenza di questi organismi, dal momento che sorgono interrogativi circa l'opportunità di premiare o meno l'eccellenza, ma soprattutto di sanzionare in negativo il mancato raggiungimento di parametri prestabiliti. Sul piano formale, il nodo centrale da cui derivano molti problemi resta peraltro quello della dipendenza diretta o indiretta dal potere politico (governo) degli organismi nazionali di valutazione. Mentre un aspetto di sostanza che distingue le finalità da attribuire al sistema formativo si riflette sulle politiche della valutazione. La valutazione infatti tende a stabilire graduatorie, dunque a sanzionare le differenze, ma può essere usata anche per una politica che miri a ridurle. Correlativamente può essere adottata da politiche che si fondino sul principio di differenziazione o su quello di eguaglianza, oppure su quello di equità. Quest'ultimo sembra avere oggi la preferenza nei diversi sistemi formativi, alla luce dell'autonomia crescente degli atenei e quindi dell'importanza attribuita alla diversificazione delle offerte dei percorsi formativi e alle politiche tese a renderli accessibili al maggior numero di utilizzatori.
Accanto a questo genere di valutazione ufficiale si vengono diffondendo in diversi paesi esempi di valutazione non ufficiale, come le classifiche delle qualità espresse dalle diverse università nei vari settori disciplinari, stilate per lo più da organi di stampa come il "Times" in Inghilterra o "Le Monde de l'Éducation" in Francia, che assumono una crescente accuratezza e rilevanza a testimonianza dell'attenzione dell'opinione pubblica per il funzionamento del sistema formativo. A esse vanno aggiunte le valutazioni operate dalle società specializzate in auditing per conto delle stesse università, con riferimento in particolare ai bilanci di ateneo, e quelle che di tanto in tanto conducono gli ordini professionali sotto forma di validazione dei titoli per l'esercizio della professione (v. van Vught, 1995).
In campo internazionale diversi progetti di valutazione promossi da organismi europei (in particolare dalla Conferenza Europea dei Rettori-CRE) hanno contribuito in misura notevole negli ultimi anni a far prendere coscienza dell'importanza della valutazione, specie nei paesi - l'Italia tra gli altri - che si sono mossi più tardi e che hanno beneficiato di uno stimolo esterno per superare gli iniziali dubbi e resistenze.
Là dove sono stati creati organismi specifici, gli attori della valutazione sono dei professionisti, mentre altrove sono dei valutatori occasionali. Si pone ovunque il problema della legittimazione dei valutatori, che può avvenire per riconoscimento da parte dei pari, per competenze professionali accumulate sul lavoro o attraverso una specifica formazione. Si va costituendo una categoria di esperti internazionali allo scopo di svolgere nel modo più corretto possibile quella funzione di peer review che appare come l'unica forma di analisi interna delle attività accademiche che possa venire accettata dal mondo universitario. Al riguardo, un aspetto di rilievo è dato dalla consapevolezza, diffusa in molti paesi, della grande differenza intercorrente fra le logiche sottese ai processi di valutazione, che possono infatti essere logiche sia di controllo dall'alto, per iniziativa dei governi, sia di aiuto alle esigenze e ai fabbisogni dei singoli settori disciplinari e dei singoli atenei nella forma del counselling prestato all'interno del mondo accademico (v. Cave e altri, 1996; v. Brennan e altri, 1996). In questa direzione si può ricordare il modello di valutazione olandese che ha avuto una considerevole diffusione in Europa. Esso si divide in due fasi, di autovalutazione di ateneo e quindi di valutazione esterna tra pari (peer review). L'autovalutazione è intesa in forma di dialogo, di cooperazione e di disposizione a migliorare dall'interno la dimensione collettiva del funzionamento delle istituzioni formative e di ricerca. Per la realizzazione di questo modello occorre arrivare a una qualche forma sia di cultura della valutazione sia di cultura dell'appartenenza all'istituzione accademica. Vi sono infatti resistenze anche assai decise nel mondo universitario europeo, che derivano dalle tradizioni di indipendenza dalla realtà esterna e dal timore di vincoli indebiti alla libertà di ricerca e di pensiero. È interessante - sotto questo profilo - la strada seguita in Spagna, dove per ovviare almeno in parte a queste resistenze è stato messo a punto un piano nazionale di valutazione sulla base di progetti liberamente presentati dalle università e che possono riguardare un'area disciplinare oppure l'intero ateneo.
Nel complesso la valutazione appare come il corollario - forse eterodosso ma inevitabile - di un generale mutamento dello scenario nel quale si colloca il sistema d'istruzione superiore e si trasformano ruoli e finalità dell'università moderna.
La diffusione dell'istruzione superiore a categorie sociali assai diverse e il conseguente aumento esponenziale delle dimensioni complessive della popolazione studentesca hanno creato molteplici problemi interni all'università nei paesi occidentali. Questo incremento, con i suoi aspetti di diversificazione sociale, è stato il prodotto di rilevanti trasformazioni sociali ed economiche e, in particolare, sta ad indicare un mutamento nelle modalità di intendere l'istruzione superiore da parte della società. Nel mondo moderno l'università viene intesa in modo nuovo ed è quindi chiamata a rispondere a richieste mai prima evidenziate. Da qui anche un diverso rapporto tra università e interlocutori esterni, rappresentati sia a livello istituzionale (lo Stato), sia a livello di aggregati di interesse (le forze economiche e politiche), sia a livello di singoli utilizzatori. Come è evidente, il complesso di pressioni provenienti dall'esterno non poteva non incidere sul funzionamento dell'istituzione universitaria e dunque sui soggetti che nell'istituzione sono chiamati ad operare, massimamente i docenti.
I riflessi di un tale mutamento di richieste provenienti dall'esterno hanno inciso sul mondo universitario; in particolare, sul rapporto tra Stato e mondo economico da un lato e università dall'altro. Nell'università il nodo che si è evidenziato maggiormente è quello relativo alla natura della professione accademica. Si tratta di un insieme di problemi fra loro collegati che comprendono le componenti strutturali e gli elementi valoriali ed ideologici del mutamento in corso. Si è ricordato come il cresciuto valore della conoscenza abbia fatto aumentare l'investimento complessivo nella formazione e il rilievo della programmazione nel settore stesso. Ne è derivato l'incremento - anch'esso più volte sottolineato - dell'influenza indiretta e del controllo (in forme diverse e sovente mediate) dello Stato, quale principale sostenitore della nuova rilevanza dell'istruzione superiore.
La maggiore implicazione ideologica di tale tendenza è forse identificabile nella richiesta, rivolta al corpo docente, di abbandonare il principio della separatezza dei propri interessi conoscitivi da quelli della società, in favore di un riconoscimento della necessaria identità (o larga sovrapposizione) dei due ambiti. Le conseguenze di un tale mutamento si sono avvertite sia sull'autodefinizione degli accademici, sia sulla struttura dei curricula e degli ordinamenti didattici, anche se con vistose differenze tra i diversi settori disciplinari, mentre una ulteriore non trascurabile conseguenza si è sostanziata nella tendenziale divaricazione tra attività d'insegnamento e di ricerca.
La professionalità dei docenti ha subito dunque forti pressioni ed è stata rimessa in discussione sotto il profilo sia degli aspetti normativi che dei valori.
Al riguardo sono stati identificati da Barnett e Middlehurst (v., 1993) quattro momenti o fasi del processo di cambiamento che ha interessato la categoria: 1) quando l'istruzione superiore viene prevalentemente considerata sotto il profilo del servizio pubblico, lo Stato si tiene distante e separato dal sistema d'istruzione superiore; interviene solo indirettamente per garantire il buon funzionamento del sistema e delle singole istituzioni. In questo caso il problema centrale appare quello dell'efficienza del sistema, e il docente viene sovente ad assumere il ruolo di gestore di risorse scarse; 2) quando l'accento viene posto sulla responsabilità amministrativa ed operativa del sistema d'istruzione superiore, l'attenzione si sposta sull'efficacia verificabile delle attività, incluse quelle didattiche, e il docente deve essere professionalmente responsabile delle attività curricolari; 3) se si sottolinea invece la relazione tra istruzione e mercato del lavoro si dà rilievo all'acquisizione di capacità vendibili (richieste appunto dal mercato), ma, di conseguenza, anche al sapere come prodotto (piuttosto che alla conoscenza come processo e valore in sé). Si passa allora dai curricula elaborati e gestiti unicamente dall'accademia ai curricula elaborati e gestiti in collaborazione con il mondo esterno: la professionalità del docente si identifica con la produzione di valore economico; 4) infine, osservando gli effetti del processo di diffusione dell'istruzione superiore si nota come la trasformazione degli studenti e delle loro esigenze finisca per attribuire ai 'consumatori' dell'istruzione superiore il potere di definire le proprie necessità di apprendimento. O, per meglio dire, essi sono visti non più come soggetti che si inseriscono in una tradizione epistemica di trasferimento di conoscenze, quanto come persone che acquistano competenze metadisciplinari, utili per il loro successo nel mondo delle occupazioni e il docente diviene - per conseguenza - un facilitatore delle esperienze di apprendimento.
Questa tendenza evolutiva, anche se non si presenta nelle forme pure qui delineate ma con modalità in varia misura intrecciate, tuttavia incide profondamente sul ruolo dei docenti e suscita comprensibili preoccupazioni; così Halsey (v., 1992) parla di 'proletarizzazione' di una classe accademica che perde progressivamente il controllo delle proprie forme di produzione e riproduzione.
In effetti il moltiplicarsi delle modalità di controllo, di valutazione e di attribuzione di responsabilità nei confronti degli studenti-consumatori priva la categoria di alcune caratteristiche fondamentali per essere considerata una professione a pieno titolo. Le cause di questo mutamento sono da ricercare sia nelle trasformazioni e nelle pressioni esterne appena segnalate, sia nella incapacità del mondo accademico di definire compiutamente la propria professionalità, in generale riguardo ai ruoli e alle connesse responsabilità nei confronti della società e, più specificamente, riguardo alle funzioni didattiche. Il non essersi definita quale categoria professionale con riferimento alla didattica e il non aver chiarito l'importanza della didattica per la società (come appare, particolarmente in questi ultimi tempi, riguardo al rapporto incerto tra istruzione superiore e istruzione permanente) sarebbe all'origine della perdita di professionalità (o quanto meno della perdita del controllo della propria professionalità) da parte della comunità accademica (v. Barnett e Middlehurst, 1993).
L'insieme di queste significative trasformazioni si è venuto sviluppando in modi e con ritmi diversi - sia pur seguendo una direzione comune - nei vari sistemi e paesi occidentali. Non è un caso che le riflessioni più meditate e approfondite siano apparse nei paesi anglosassoni, fortemente toccati dalle trasformazioni economico-sociali e dal problema dei ruoli dell'istruzione superiore.
Nel sistema italiano la situazione - così come venne vista da due studiosi che la presero in esame negli anni settanta (v. Clark, 1977; v. Giglioli, 1979) - appariva caratterizzata da aspetti fortemente tradizionali e peculiari, che tuttavia venivano messi in questione proprio in quegli anni da forze esterne portatrici di possibili trasformazioni. Il sistema universitario, secondo i due autori, era fondato su un'organizzazione corporativa di origine medievale (che Burton Clark definì appunto 'gilda') basata sul potere personale, la rigida gerarchia piramidale, l'istituto monocattedra, con il 'maestro' e gli allievi delle 'scuole', le carriere severamente controllate e le promozioni centellinate. Questa organizzazione dall'esterno poteva sembrare arcaica ma funzionava da collante del sistema. Il dilatarsi dello stesso sistema sulla spinta della domanda sociale d'istruzione negli anni settanta presupponeva, infatti, un controllo burocratico esterno (coerente con caratteristiche di un sistema centralizzato di tipo napoleonico) che tuttavia si rivelava incapace di gestire il momento di crescita e, per contrasto, rivalutava l'organizzazione corporativa del mondo accademico quale unica forma in grado di rappresentare e mantenere in vita l'istituzione universitaria. L'alternativa, nelle parole di Pier Paolo Giglioli, era tra il modello baronale e quello burocratico-amministrativo.
Per contro, all'esterno maturavano forze che sembravano spingere il sistema universitario verso forme di politicizzazione e di sindacalizzazione del corpo docente, a fronte di un crescente potere studentesco foriero di costanti conflitti. L'avvento dell'università di massa in Italia, secondo Giglioli, sarebbe stato caratterizzato dal prevalere di poli di aggregazione esterni e di modelli burocratici per docenti sempre più strettamente omologati nei ruoli di pubblici funzionari. A vent'anni di distanza, negli anni novanta, lo scenario prospettato non ha trovato realizzazione, sostanzialmente perché il mondo accademico ha resistito alle pressioni esterne, a loro volta rapidamente ridimensionatesi. Nei confronti dell'esigenza di adeguarsi al cambiamento, anche in Italia il mondo universitario si è diviso secondo le diverse aree disciplinari o meglio i 'poli' identificati da Pierre Bourdieu (v., 1984). Così il 'polo mondano' (rappresentato principalmente da Medicina e Giurisprudenza), il 'polo scientifico' (le scienze naturali e fisiche) e il 'settore intermedio' (costituito dalle scienze umane e sociali) sono stati - con intensità e in modi diversi - coinvolti dal potere intellettuale o temporale, esterno all'università, o dal potere più strettamente accademico, o ancora da quello amministrativo.
Ma le pressioni provenienti dalla società per un'organizzazione universitaria maggiormente rispondente alle esigenze di diffusione e utilizzo della conoscenza e dei risultati della ricerca sono state modeste e si sono manifestate principalmente sotto forma di richieste di prestazioni professionali individuali. Di conseguenza, il rapporto docente-maestro/allievo non ha ceduto alle pressioni e all'usura del tempo, così come le altre forme organizzate della vita accademica ed i codici deontologici della professione. Ma ci si può domandare se il mantenimento dei modelli tradizionali abbia garantito e soprattutto possa garantire nel prossimo futuro lo sviluppo ordinato e produttivo della vita accademica.
Il tema, nell'ottica interna al mondo accademico italiano, si caratterizza per una forte enfasi sull'etica professionale, alla quale appare affidata in larga misura la conservazione del sistema universitario. Ora, l'etica professionale dei docenti universitari sembra sfuggire alle regole che disciplinano i comportamenti delle altre professioni. Le due caratteristiche che stanno alla base della professionalizzazione sono in genere considerate un corpo fondativo di conoscenza astratta e l'ideale di servizio (v. Blau, 1973, p. 12). Le forme più alte di professionalizzazione vengono rappresentate dalle quattro professioni rivolte alla persona, appartenenti ai settori della medicina, del diritto, della religione e dell'insegnamento superiore, all'interno delle quali si raggiungerebbe il più alto grado di coesione interna, di dedizione alle regole dell'agire professionale e di controllo sulle violazioni delle regole stesse. Ne deriva che in queste aree professionali il rapporto con il cliente (la persona) assume un rilievo particolare, assieme all'indispensabilità dei controlli interni. Si può infatti sostenere che il rapporto intimo con i clienti (si pensi alle condizioni di medici, avvocati e sacerdoti) viene reso possibile dall'esercizio di un costante controllo etico sui comportamenti dei singoli professionisti da parte delle rispettive organizzazioni professionali. Un'ulteriore complicazione nasce dalla carenza di parametri comportamentali certi, codificabili e verificabili in ogni occasione. Ne deriva la necessità di legare le valutazioni dei singoli professionisti (dunque le sanzioni positive o negative e di conseguenza le carriere) alle valutazioni personali dei componenti le categorie (la peer review).
Nel caso dei docenti universitari emergono diverse contraddizioni tra identificazione all'interno della professione in quanto insegnanti e all'esterno in quanto specialisti della propria area disciplinare (v. Piper, 1994); come altresì si sottolineano le differenze fra scienziati che non hanno clienti e professionisti che si basano sul rapporto con i clienti (v. Hughes, 1958). Se si assume la figura del cliente come elemento chiave della professione, si nota come nel mondo accademico non vi sia una chiara definizione né, probabilmente, una condivisa percezione di chi è il cliente e di quali sono i comportamenti professionali nei suoi confronti. Il rapporto tra ruolo di scienziato e ruolo di insegnante varia a seconda delle diverse discipline; i docenti, in genere, non sono formati né certificati in quanto insegnanti; l'allievo-cliente non paga direttamente il docente (lo ha fatto solo ai primordi dell'università medievale), dato che il rapporto viene mediato attraverso l'istituzione universitaria. Infine, i docenti universitari - e questa tesi rappresenta un vero salto di qualità nel dibattito - non sarebbero tenuti a servire tanto l'interesse dello studente-cliente quanto la causa (e dunque anche l'etica) del sapere e della conoscenza. In conseguenza di ciò le relazioni interne alla professione possono venire intese come eventi occasionali e personali e non come prodotti di comuni condizioni istituzionali (v. Goode, 1969). Quella del docente appare dunque come una professione assai peculiare, anche per l'assenza di una caratteristica propria delle professioni che si rivolgono alle persone (dedizione alle regole dell'agire professionale).
Se questa modalità comportamentale, riconoscibile in diverse occasioni della vita accademica italiana, poteva risultare funzionale nei modelli di università ai fini della riproduzione delle élites, non appare rispondere alle nuove aspettative della società nei confronti dell'università detta 'di massa' (v. Trow, 1974). L'interpretazione del ruolo professionale e i conseguenti comportamenti etici vengono messi in crisi infatti sotto il profilo sia dei rapporti tra docente e istituzione universitaria, sia dei rapporti tra docente e clienti. Nel primo caso, l'autonomia dei singoli atenei spinge, e spingerà sempre più, a sviluppare modalità di coordinamento e di politica accademica di ateneo (sia di offerta didattica che di ricerca scientifica) che verranno inoltre sottoposte con frequenza crescente a forme di valutazione. Ne deriverà un complesso di vincoli all'indipendenza delle attività del professionista-docente, sempre più spinto a tener conto delle esigenze di funzionamento (quando non di mera sopravvivenza) dell'istituzione di appartenenza e delle attività dei propri colleghi.
Nei rapporti tra docente e clienti non si può ormai non tener conto delle finalità e delle aspettative dei nuovi fruitori. Nei riguardi dei singoli fruitori (studenti) i rapporti che il docente è chiamato a instaurare sono sempre meno legati alla formazione dei propri continuatori o membri delle future classi dirigenti, e sempre più al compito di fornire competenze, da professionista a cliente (anche se con alcune peculiarità).
Ma il mutamento di maggior rilievo appare quello nei confronti dello Stato quale cliente collettivo. Si è indicato in precedenza il ruolo variabile che l'istituzione pubblica ha assunto nella storia riguardo all'università. Sembra che le esigenze dell'organizzazione sociale ed economica nella fase che viene attraversando il mondo occidentale accentuino il ruolo dello Stato nei confronti delle professioni e del loro processo di autoregolazione. Quest'ultimo, del resto, non sarebbe "una caratteristica innata del professionalismo, bensì l'approdo finale di un processo politico che vede nello Stato l'autorità che prima concede il monopolio e l'autoregolazione e poi offre i mezzi per difenderli" (v. Speranza, 1991, p. 490). Ne deriva allora che nella società moderna non vi è più posto per l'organizzazione comunitaria delle gilde, ma si viene a determinare una condizione di compatibilità tra forme di regolazione professionale (come quella burocratica, quella affidata al mercato o l'autoregolazione) fino a non molto tempo addietro considerate antitetiche (v. Moscati, 1997, p. 40). Ora, appare sempre più chiaro come, sotto questo profilo, la professione accademica tenda ad avvicinarsi sempre più alle altre; quanto meno alle altre professioni rivolte alle persone, anch'esse coinvolte nella dialettica con lo Stato e il mercato. E non è un caso che nel 'triangolo di coordinamento' costituito dalle forze che gestiscono i sistemi d'istruzione superiore si ritrovino le medesime componenti (il sistema statuale, il sistema di mercato e il sistema professionale), così come non appare un caso che la posizione italiana sia stata fino a poco tempo addietro chiaramente vincolata all'angolo della 'oligarchia accademica' (v. Clark, 1983, p. 143).
Il ritardo del sistema universitario italiano sotto il profilo della regolazione dei processi organizzativi interni e in relazione al mondo esterno emerge anche dall'analisi dei rapporti di potere istituzionali. La situazione al riguardo appare in fase di evoluzione. Al livello del sistema universitario è venuto emergendo il ruolo della Conferenza permanente dei Rettori (CRUI) e si è creata una dialettica di nuovo tipo tra questa struttura e il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST), dialettica che, non a caso, trova validi motivi di sviluppo nel settore della valutazione. Qui infatti le istanze di autoregolazione e di autonomia professionale si confrontano con le richieste della società (lo Stato, il Ministero). Al livello dell'ateneo il rettore tende ad acquistare un peso crescente nelle vesti di guida della politica dell'istituzione più che in quelle tradizionali di mediatore delle dinamiche interne, che, dal canto loro, sembrano destinate ad essere mitigate dal ridimensionamento tendenziale dei poteri delle diverse discipline. Per contro, non appare ancora ben definito, specie sul piano operativo, l'insieme di ruoli e responsabilità decisionali che devono distinguere gli ambiti del Senato accademico e del Consiglio di amministrazione. All'interno di queste dinamiche non risulta ben precisato il ruolo delle forze esterne, sia politiche che economiche a livello territoriale; e le condizioni sono diversamente regolate dagli statuti di ateneo in relazione al grado di apertura che caratterizza le singole istituzioni universitarie. Infine, al livello internazionale, l'influenza della Unione Europea comincia ad essere percepita sia indirettamente, per l'incidere delle logiche del mercato del lavoro dei laureati sulla costruzione degli ordinamenti didattici e dei percorsi formativi, sia direttamente, attraverso i programmi europei di valutazione promossi dalla Conferenza Europea dei Rettori (CRE) che trovano una larga sintonia nella Conferenza dei rettori italiani.Come è tipico di ogni fase di transizione, il quadro organizzativo e l'equilibrio dei poteri nel sistema d'istruzione superiore in Italia sono attraversati da contraddizioni e da un intreccio di tradizione e novità che lasciano largo spazio alle iniziative individuali, ma non riescono a costruire ancora un insieme di certezze formali.
(V. anche Istruzione e sistemi scolastici; Scienza e società; Scuola).
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