UNIVERSITÀ (XXXIV, p. 722)
Le finalità e le strutture dell'istruzione superiore sono rimaste per lungo tempo, anche oltre il secondo conflitto mondiale, sostanzialmente quelle che caratterizzavano l'u. nei primi decenni del secolo. È sul finire degli anni Cinquanta e soprattutto negli anni Sessanta che in molti paesi, segnatamente in quelli dell'area industrializzata, intervengono fatti nuovi destinati a incidere su questo ordine di studi, aprendo un problema universitario. Il dato più consistente riguarda la crescita quasi sorprendente della popolazione studentesca, un fenomeno su cui influiscono diverse mutate condizioni delle società contemporanee: l'espansione del reddito e dei consumi e, in genere, le migliorate condizioni di vita di larghi strati sociali; l'accelerazione dei processi d'industrializzazione, di urbanizzazione, di mobilità orizzontale e verticale all'interno delle comunità; le più complesse esigenze dell'economia, dell'organizzazione produttiva, dei servizi sociali anche in connessione ai risultati della ricerca scientifica e al più largo impiego di tecnologie aggiornate. La scolarizzazione di massa registratasi nei precedenti livelli d'istruzione e certe trasformazioni che si sono venute operando nel costume, nei bisogni civili dei singoli e nello sviluppo democratico delle società hanno contribuito di fatto a rendere superato il tradizionale modello universitario, prevalentemente finalizzato alla formazione di ristretti quadri dirigenti e all'esercizio delle professioni superiori, Si è venuta in conseguenza affermando l'esigenza di un più ampio collegamento con la realtà s0ciale culturale e produttiva, benché per lo più le forme di questo collegamento siano rimaste generiche o insufficienti. L'impressione prevalente è che si sia aperto un nuovo ciclo negli orientamenti relativi a questo settore dell'istruzione, peraltro ancora contrassegnato, più che dall'affermarsi di un preciso modello organizzativo da sostituire all'antico, dalla crisi che ha finito per coinvolgere tutti gli aspetti dei sistemi universitari: strutture edilizie, organizzazione didattica, personale docente, forme di gestione, assistenza, intervento finanziario, programmazione. In relazione ai problemi così apertisi, alcune linee di tendenza si vanno individuando nella domanda sociale, nel dibattito politico, nelle iniziative in corso di sperimentazione.
Mutamenti nella domanda d'istruzione superiore. - Diversi fattori, in alcuni casi tra loro contraddittori, caratterizzano la domanda relativa a questo tipo di studi. Da un punto di vista generale, le attese dei giovani che intraprendono tali studi risultano oggi maggiormente diversificate in relazione a ruoli sociali meno rigidi, più numerosi e differenziati di quelli propri di società relativamente stabili o interessate a lenti processi di trasformazione. Molti indirizzi di studio, in parte completamente nuovi in parte ripresi sotto altra luce, nel campo delle scienze applicate, delle tecnologie, delle scienze sociali, hanno portato alla creazione di colleges, dipartimenti, facoltà, corsi di laurea o di diploma che si sono venuti affiancando ai corsi universitari di più consolidata tradizione. D'altra parte, l'allargamento della base di reclutamento degli studenti ha posto inevitabilmente problemi di revisione e d'integrazione dei curricula, soprattutto nel senso di rafforzare l'area degl'insegnamenti propedeutici onde assicurare fondamenta più solide agli approfondimenti specialistici propri dell'istruzione superiore. Ciò ha fatto parlare di "licealizzazione" degli studi universitari, che tendono comunque a configurarsi per questo verso come un terzo livello d'istruzione, dopo quello primario e secondario, all'interno di un unico sistema formativo scandito secondo le fasi in successione dell'età giovanile.
Tale tendenza, però, sembra portare implicito il pericolo di un'attenuazione del livello scientifico di questi studi e finisce perciò per contrastare con la diversa e pur pressante esigenza che postula un maggior impegno specialistico della formazione universitaria. Da più parti, infatti, si denuncia l'inadeguatezza di questa formazione riguardo a settori produttivi e ad ambiti professionali che, per l'impiego di tecnologie sofisticate o l'adozione di complessi procedimenti di analisi, di controllo, di gestione, richiedono oggi livelli di qualificazione molto avanzati. Ciò si collega, in una certa misura, al più vasto problema della ricerca scientifica, pura e applicata, ai suoi riflessi e alle sue effettive possibilità di svolgimento all'interno delle strutture universitarie. Per lungo tempo è stata indicata nell'u. la sede precipua della ricerca ed è stato sottolineato il ruolo positivo che può svolgere uno scambio continuo tra insegnamento e ricerca. Tale rapporto si è venuto però alterando e l'u. di molti paesi (a cominciare da quella statunitense), quand'anche ha continuato a essere produttiva sotto questo riguardo, ha dovuto assistere a un crescente spostamento degl'impegni scientifici verso sedi esterne, quali l'industria, l'amministrazione militare e pubblica, altre istituzioni private, specialmente in quei campi (elettronica, armamenti, aviazione civile, sanità, ecc.) che importano progettazioni molto complesse, costose e di lungo periodo.
Un ulteriore e non secondario segno delle modificate dimensioni sociali dell'istruzione universitaria è rappresentato dalle caratteristiche specifiche via via assunte dalla cosiddetta domanda di educazione permanente e ricorrente da parte di categorie di soggetti già inseriti nelle attività lavorative in vista dell'aggiornamento della propria esperienza professionale o dell'acquisizione a fini personali degli strumenti di una cultura superiore.
A questi diversi e non sempre convergenti fattori di trasformazione si aggiunge, con effetti in larga misura destabilizzanti, il cosiddetto fenomeno di "parcheggio" universitario, vale a dire l'iscrizione ai corsi da parte di giovani che al termine degli studi secondari non trovano possibilità d'immediato inserimento nella vita attiva. È un fenomeno che trova spazio particolarmente nei paesi che negli ultimi anni più hanno avvertito e avvertono le conseguenze di una crisi economica che rende oltremodo difficile stabilire raccordi, più o meno programmati, tra gettito di diplomati e laureati dei sistemi d'istruzione e offerta occupazionale dei diversi settori produttivi.
I correttivi suggeriti per razionalizzare la situazione, anche là dove sono stati promossi tentativi concreti, non hanno potuto impedire il diffondersi di disagi e tensioni tra i giovani, sfociati nei moti e nelle agitazioni studentesche del 1968-70 e degli anni successivi. Non pare dubbio che questa situazione risulti appesantita o resa più diffficile dalle insicure prospettive occupazionali dei giovani e di un proficuo loro inserimento nella realtà sociale. Tuttavia le cause di quella tensione s'inscrivono in un più ampio contesto di crisi dei valori giovanili, di riconsiderazione dei tradizionali modelli di vita, di ridiscussione del ruolo individuale e culturale che le nuove generazioni intendono assumere. Non a caso la presenza studentesca è contrastata da una notevole politicizzazione delle rivendicazioni, qualche volta dallo scontro ideologico, più spesso da pressanti domande di partecipazione diretta alla vita e alla gestione delle istituzioni. Anche qui, però, non mancano divergenze di indicazioni tra quanti rivendicano un impegno culturale e ideologico di tipo alternativo rispetto al sapere accademico e quanti invece auspicano una formazione finalizzata in senso professionale e immediatamente spendibile nel contesto sociale. L'indicazione del primo tipo è apparsa prevalente nel clima della contestazione studentesca del 1968-70; la seconda si è diffusa tra i giovani più recentemente, come segnalano alcune inchieste internazionali.
Aspetti della programmazione universitaria. - Le trasformazioni intervenute hanno fatto avvertire l'esigenza di strategie di largo respiro per corrispondere con organicità alle complesse sollecitazioni cui è sottoposta l'u. contemporanea. Invero, le politiche scolastiche e universitarie di diversi paesi si sono poste il problema e hanno cercato di trovare soluzioni soddisfacenti. Tuttavia, al di là di interventi limitati e a volte anche originali, non si è riusciti a dare al settore un assetto nuovo, coerente, definito in tutti i suoi aspetti; molto spesso, il nuovo si è giustapposto al vecchio senza riuscire a trovare una saldatura convincente. Come già accennato, una delle componenti più delicate delle strategie sollecitate ha riguardato l'esigenza di stabilire un raccordo tra le effettive possibilità occupazionali offerte dal mondo produttivo e il gettito di diplomati e laureati del sistema formativo, e ciò nel quadro di un rinnovato rapporto tra u. e sviluppo economico. Le difficoltà maggiori a elaborare una politica in tal senso le hanno trovate ovviamente i paesi con economie di mercato, le cui strutture interne mostrano un grado tale di elasticità e di adattamento ai continui mutamenti dei processi economici che non consente d'identificare e quantificare in anticipo gli specifici bisogni di quadri tecnici e dirigenziali o d'ipotizzare con sufficiente precisione le caratteristiche professionali che quelli dovranno possedere. D'altronde non tutti i corsi di studio presentano valenze professionali o implicano un raccordo diretto con le realtà produttive; né è possibile risolvere in questa prospettiva tutti gl'interessi e le finalità dell'istruzione superiore.
Tuttavia, parecchie u. occidentali hanno introdotto o continuato ad adottare il cosiddetto "numero chiuso" o "numero programmato" degli studenti da ammettere ai corsi, ma prevalentemente in funzione delle potenzialità delle loro strutture, delle disponibilità finanziarie dei loro bilanci, oppure richiamandosi a particolari tradizioni scientifiche da manteriere; altre l'hanno adottato esclusivamente per alcuni corsi di studio, come medicina, ingegneria, ecc.
Con l'aumento della popolazione studentesca si è posto pure il problema di un'adeguata distribuzione delle istituzioni universitarie sul territorio, anche al fine di correggere il fenomeno del gigantismo delle sedi, soprattutto di quelle dei grandi centri. Una soluzione del genere è stata adottata in Francia, agl'inizi degli anni Settanta, per l'u. di Parigi. Ma il problema mostra connotazioni più complesse, specie in riferimento a certe concezioni, di fonte prevalentemente politica, secondo cui l'u., nel quadro di una politica d'integrazione dei servizi nel territorio, dovrebbe assumere un più specifico ruolo sociale tramite una didattica impegnata nella verifica dei bisogni che si maturano nella comunità circostante, quindi in collegamento non episodico con le iniziative promosse dagli organi locali.
A parte i rapporti con le realtà socio-economiche e professionali, la programmazione universitaria riguarda più direttamente le dimensioni interne delle u. e degl'istituti d'istruzione superiore, accresciutesi in maniera che solo qualche decennio addietro sarebbe parso impensabile. A eccezione di alcune antiche e prestigiose sedi, riuscite a mantenere i caratteri di scuole di seria selezione scientifica, la gran parte delle istituzioni, comprese quelle sorte nel Terzo Mondo, hanno assunto quasi caratteristiche aziendali per dimensioni patrimoniali, finanziarie e gestionali. Adeguamento degli edifici preesistenti e creazione di nuovi in funzione di maggiore ricettività e di più articolate esigenze didattiche, incremento di laboratori e attrezzature per nuovi settori di ricerca e d'insegnamento, potenziamento di servizi tecnici e amministrativi, aumento del personale docente assistente e ausiliario, estensione delle forme di assistenza e di diritto allo studio, costituiscono campi d'intervento in cui le gestioni si sono trovate impegnate tra non poche difficoltà, dovute soprattutto alla lievitazione dei costi e alla necessità di reperire consistenti risorse finanziarie. Non sempre alla lievitazione dei costi e della spesa corrente ha fatto riscontro un corrispondente incremento delle entrate, contributi e tasse a carico degli studenti; ciò ha importato il trasferimento allo stato e quindi sul prelievo fiscale di quote sempre più consistenti della spesa di funzionamento dei servizi.
Quest'ultimo aspetto preoccupa non poco i governi responsabili che, anche nelle sedi internazionali, vengono denunciando i pericoli di superare certi limiti per non alterare il faticoso equilibrio raggiunto tra le diverse voci della spesa pubblica. La non favorevole congiuntura economica ha indotto anzi, in alcuni casi, a introdurre restrizioni che hanno determinato serie difficoltà ai bilanci delle istituzioni interessate. Sono peraltro oggetto di studio alcune alternative, come l'introduzione di meccanismi articolati di sussidi e di prestiti, per il cui tramite si vorrebbe riuscire a correggere almeno in parte la pesante situazione dei bilanci.
Infine, un altro aspetto della gestione e della programmazione riguarda la composizione degli organi che vi sono preposti. Pressioni esercitate in diversi ambienti, segnatamente in quello studentesco, hanno portato a elaborare forme di rappresentanza e di partecipazione diretta delle diverse componenti interessate alla conduzione e allo sviluppo delle istituzioni universitarie. Anche a questo riguardo, però, le soluzioni escogitate non sempre sono riuscite a soddisfare tutte le parti coinvolte, e particolarmente tra gli studenti si sono registrate resistenze e rifiuti di natura politica.
Problemi organizzativi e didattici. - Le sollecitazioni cui gli studi superiori sono sottoposti si riflettono anche sulle strutture didattiche. Si è già notato come, per un verso, sia in atto la tendenza a considerare tali studi come un terzo livello d'istruzione, quasi la naturale conclusione di una carriera scolastica. Ciò risulta ulteriormente confermato da certi orientamenti delle politiche scolastiche riguardo le scelte per la scuola secondaria superiore, scelte che, mentre sembrano accentuare gl'indirizzi di formazione generale e comprensiva che s'intendono dare a tale scuola, finiscono per rimandare agli studi postsecondari ogni compito di formazione professionale tecnica e specializzata. Non mancano, tuttavia, recenti ripensamenti a riguardo, ritenendosi dannoso per i singoli e per le comunità un generalizzato prolungamento delle carriere scolastiche, con un rinvio eccessivo del tempo delle scelte e delle qualificazioni professionali dei giovani. Del resto l'ipotesi dell'alternanza di periodi di studio e periodi di lavoro va facendo strada e trova sempre più eco nelle opinioni degli esperti e nelle raccomandazioni di forze politiche e sindacali. A detta ipotesi si collega la possibilità di dare sbocco anche alla domanda d'istruzione superiore proveniente dagli adulti e, in modo particolare, da soggetti già inseriti nel mondo del lavoro.
In questo senso si muovono le iniziative, operanti in diversi paesi, di "u. a distanza", di corsi per corrispondenza, di corsi speciali per lavoratori e, in genere, di varie facilitazioni per lavoratori-studenti. Un discreto successo ha incontrato, sin dal suo avvio, agl'inizi degli anni Settanta, la Open University, un'istituzione inglese caratterizzata, tra l'altro, dall'impiego di sistemi multimedia in grado di ampliare il raggio di azione degl'insegnamenti, nonché dall'articolazione dei contenuti dell'insegnamento secondo unità sequenziali capitalizzabili che rendono più elastici e funzionali gli studi in relazione alle diverse esigenze dei destinatari.
Ma, avendo riguardo alla gran maggioranza degli utenti dell'u., resta fondamentale il problema del raccordo tra scuola secondaria e u. o, più specificamente, tra il tipo di formazione acquisito in sede di scuola secondaria e la scelta degl'indirizzi di studio in sede universitaria. Su questo tema si confrontano due tesi divergenti: quella che ritiene indispensabile una coerenza di svolgimenti tra i due livelli formativi e quella che invece non ritiene necessario alcun vincolo nella scelta degli studi universitari, attribuendo all'istruzione superiore finalità e destinazione autonome, comunque ben distinte da quelle proprie dell'istruzione secondaria. La concezione che si ha dell'u. e del suo ruolo nella società evidentemente influisce sulla soluzione da dare al problema, così come essa influisce sulle scelte di politica scolastica a proposito del dibattuto problema della selezione negli studi universitari, un problema questo a sua volta collegato al più generale discorso sulla opportunità o meno di regolare gli accessi a detti studi mediante il cosiddetto numero chiuso o altre forme di contenimento del numero dei frequentanti.
Per quanto concerne le istituzioni, il panorama si presenta oggi più ricco e differenziato di un tempo. Accanto alle u. e ai politecnici di antico modello, si sono venuti affermando e diffondendo istituti d'istruzione superiore o post-secondaria con finalità diverse ma a prevalente carattere tecnico-professionale (Community Colleges e Technical Institutes negli Stati Uniti, Fachhochschulen nella Rep. Fed. di Germania, Institutes universitaires de Technologie in Francia, corsi avanzati della Further education in Inghilterra). Altre istituzioni, invece, perseguono più avanzate finalità di specializzazione o di perfezionamento scientifico e curano la formazione di ricercatori anche attraverso l'impegno diretto in progetti di ricerca affidati a tali istituti. L'adozione secondo i casi di cicli lunghi e cicli brevi d'istruzione, l'introduzione di strutture dipartimentali in luogo di facoltà e di istituti monocattedra, l'avvio di forme di programmazione interdisciplinare della ricerca e dell'insegnamento costituiscono ulteriori aspetti di una realtà organizzativa e didattica molto varia e tuttora in movimento.
Data la diversificazione in atto delle istituzioni e dell'organizzazione dell'insegnamento superiore, si pone ormai in diversi ambienti il problema dell'opportunità dell'integrazione in un sistema generale o globale delle varie istituzioni operanti a questo livello con finalità diverse (studi accademici generali, formazione professionale di quadri tecnici, specializzazione, ricerca scientifica, aggiornamento ricorrente). Un'opportunità del genere compare in una risoluzione adottata dalla Settima conferenza dei ministri europei dell'educazione riunitasi a Bruxelles nel 1971 e successivamente messa allo studio dal Comitato dell'insegnamento superiore e della ricerca del Consiglio d'Europa. Unità e diversificazione sembrano costituire le linee direttrici di un possibile modello di "università globale", modello da considerare peraltro non come uno schema unico e uniformemente applicabile in tutte le situazioni. Si tratterebbe di realizzare un sistema in grado d'integrare l'intera gamma delle attività di ricerca e d'insegnamento in modo da rendere concrete le possibilità di scelta delle vie, degl'indirizzi, della durata stessa dei corsi. Un sistema del genere, ancora bisognoso di serie verifiche in pratica, mira a garantire maggiore flessibilità all'organizzazione degl'insegnamenti, a far scomparire o almeno attenuare ogni gerarchia delle istituzioni; gli studenti dovrebbero trovare maggiori occasioni d'indirizzo e di scelta in funzione delle loro personali inclinazioni; si renderebbe possibile realizzare un'economia e una programmazione migliore delle risorse personali e materiali disponibili. Secondo gli auspici più ottimistici, l'"u. integrata" offrirebbe le migliori condizioni perché l'istruzione superiore risponda adeguatamente alle sue accresciute funzioni e alle esigenze delle società industriali avanzate.
L'università italiana. - La Costituzione repubblicana del 1948 riconosceva la piena autonomia amministrativa e didattica delle u., ma l'ordinamento di questi studi rimaneva sostanzialmente quello delineato nel Testo unico approvato con R.D. 31 ag. 1933, n. 1592, e nel R.D. 30 sett. 1938, n. 1652. La legislazione successiva si limitava a interventi episodici, che non andavano al di là della revisione di particolari istituti e norme dell'ordinamento vigente. Eppure, negli anni del dopoguerra, apparve sempre più evidente l'inadeguatezza qualitativa e quantitativa delle strutture didattiche dell'u. italiana di fronte ai crescenti bisogni della società in generale e alle rapide trasformazioni che hanno interessato il paese soprattutto nel campo economico-industriale.
Le sedi universitarie erano ancora quelle dell'anteguerra, limitate alle grandi città o concentrate in alcune regioni, mentre altre regioni continuavano a esserne totalmente prive (Calabria, Basilicata, Molise, Abruzzo, Trentino-Alto Adige) o disponevano di un solo centro universitario di grosse dimensioni (Campania, Puglia, Lazio, Liguria). Tale incoerente distribuzione, in buona misura risalente a tradizioni e a circostanze storiche dell'Italia preunitaria, costituiva di per sé un limite a un armonico sviluppo socio-culturale nell'intero territorio nazionale ponendo in una situazione di svantaggio particolarmente l'area meridionale, non solo perché aggiungeva un ulteriore fattore di migrazione di giovani leve verso il CentroNord, ma altresì perché così venivano a mancare importanti occasioni di stimolo al progresso di zone rimaste al margine del processo di sviluppo di altre aree del paese. Negli anni Cinquanta e Sessanta, dietro spinte locali, variamente originate e non sempre meditate, la situazione è venuta in parte correggendosi mediante la creazione in centri, che ne erano sprovvisti, di facoltà e u. dapprima private o libere, successivamente in alcuni casi riconosciute dallo stato, anche per correggere fenomeni anomali che si erano verificati. L'unica istituzione nuova direttamente prevista dal legislatore è stata l'u. di Calabria (l. 12 marzo 1968, n. 442) studiata secondo un progetto organico e didatticamente aggiornato, il quale, prima che difficoltà ambientali di vario genere facessero sorgere dubbi e riserve, sembrava dovesse rappresentare quasi un modello anticipatorio o una sperimentazione in vista della prossima riforma universitaria. Il problema della razionale distribuzione delle sedi sul territorio e del loro ridimensionamento è rimasto comunque aperto, in mancanza di una programmazione nazionale che servisse a conciliare in un quadro d'insieme i bisogni locali alle esigenze generali dello sviluppo. Intanto, nel quadro delle provvidenze per le zone terremotate del Friuli-Venezia Giulia (l. 8 ag. 1977, n. 546), è stata istituita l'u. statale di Udine.
Considerazioni pressappoco analoghe valgono per la ricerca e la produzione scientifica delle nostre istituzioni universitarie. Già nell'anteguerra, le condizioni politiche del paese avevano indotto alcuni studiosi e scienziati a trasferirsi all'estero per continuare liberamente il proprio lavoro. Neppure la nuova democrazia riusciva a eliminare del tutto il fenomeno, non certo per il protrarsi di impedimenti politico-ideologici, bensì per la scarsa disponibilità di risorse e l'inadeguatezza degli strumenti utilizzabili per l'attività di ricerca. Anche in questo campo si è fatta sentire la mancanza di una programmazione o di una politica generale della ricerca scientifica e tecnologica, che indicasse quanto meno dei criteri di priorità e servisse a stabilire un collegamento con le esigenze di sviluppo di significativi settori produttivi. Ciò ha comportato ovviamente dispersione di energie, di iniziative, di mezzi finanziari, che, a partire dal 1963 e particolarmente un decennio dopo, doveva rivelarsi molto onerosa per il paese. Gli effetti sono stati, da una parte, un certo ritardo nell'incremento del patrimonio scientifico, dall'altra parte la crescente dipendenza dall'estero per quanto concerne l'acquisto e l'utilizzazione di brevetti. Certo non è mancato in tutto questo periodo l'impegno volenteroso di singoli docenti o di scuole di buona tradizione; alcuni settori accademici, come quelli politecnico e medico, hanno accresciuto i loro quadri e migliorato sensibilmente il livello qualitativo della loro produzione; qualche indirizzo della ricerca nel campo delle scienze fisico-chimiche ha riscosso successo internazionale per contributi di notevole originalità, anche per l'impulso scientifico e il contributo finanziario del CNR. Ne risulta confermata, anche sulla base di esperienze straniere, la funzione primaria dell'u. nel campo della ricerca scientifica, soprattutto in relazione alle garanzie d'indipendenza e di autonomia indispensabili al suo svolgimento che quella può tuttora assicurare. Tuttavia la sua efficienza è legata a strutture accademiche flessibili e aggiornate, nonché a disponibilità di risorse e a un coordinamento di impegni che l'u. difficilmente può trovare al suo interno e che quindi, pur nel giusto rispetto della sua necessaria autonomia, comportano un responsabile intervento pubblico, in grado tra l'altro di assicurare quel collegamento, di cui prima si diceva, col tessuto economico e le sue opportunità di crescita. Si tratta di esigenze largamente avvertite; la discussione tra le diverse istanze coinvolte verte ormai sulle modalità concrete, tecniche e organizzative, adatte a contemperarle e a rispettarle insieme.
D'altra parte, il problema della ricerca scientifica rientra nel più ampio quadro della formazione accademica e professionale demandata all'u. e che i suoi diversi indirizzi di studio devono garantire in funzione di una rinnovata gamma di bisogni che si manifestano nel tessuto socio-economico e culturale del paese. A molti docenti ed esperti la qualità di questa formazione è apparsa compromessa da alcuni fenomeni legati all'avvento dell'u. di massa: il rilevante incremento del numero di studenti che accede ai corsi universitari; il disorientamento e le contraddittorie attese di una massa composita di giovani che hanno deviato o messo in dubbio certe finalità tradizionali dell'istruzione superiore; l'incremento sorprendente del personale docente, assunto a volte senza un adeguato controllo scientifico della sua preparazione. Si tratta di fenomeni registrati anche all'estero, ma che in Italia rivelano particolare e persistente incidenza in relazione a una crisi economica che ha sensibilmente ridotto le opportunità occupazionali di laureati e diplomati e in parte trasformato la rilevanza sociale e reddituale di alcuni tipi d'impiego. In altri termini, sull'u. si sono venute riflettendo anomalie e contraddizioni proprie del nostro sistema economico e sociale che presentano oggettive difficoltà a conciliarsi con la qualità e la serietà d'impegni che dovrebbero caratterizzare la formazione superiore. E l'impatto di queste esigenze, di più vasta portata rispetto agli specifici temi dell'organizzazione degli studi superiori, hanno contribuito a rendere oltremodo complessa la questione universitaria nella quale hanno finito per appuntarsi tensioni esorbitanti e contraddittorie che solo un progetto organico di riforma poteva almeno in parte lenire.
Tuttavia, nonostante tale difficile contesto, l'u. italiana nell'ultimo quindicennio ha visto sensibilmente crescere i suoi fruitori e le sue risorse e strutture, per i non pochi sforzi fatti su questo piano dalle autorità di governo e accademiche e dall'intero paese.
Il dato più significativo dello sviluppo dell'u. italiana riguarda l'incremento del numero di studenti. Dall'anno accademico 1950-51 al 1977-78 gli studenti iscritti nell'u. e negl'istituti d'istruzione superiore, senza considerare i fuori corso, si sono più che quintuplicati, passando da 154.170 a circa 760.000. Purtroppo anche il numero degli studenti fuori corso è aumentato, sia pure senza seguire una progressione costante. In conseguenza la popolazione studentesca complessiva ha raggiunto nel 1977-78 il milione di unità considerando anche gli studenti stranieri che frequentano i nostri atenei. Sia per la conoscenza degli orientamenti di questa consistente massa di giovani, sia per i riflessi sulla dinamica professionale e sul mercato del lavoro, oltre che in relazione alla programmazione dei diversi servizi universitari, appare utile l'analisi dell'articolazione degl'iscritti tra le diverse facoltà e del loro andamento in questi ultimi anni, che però non è possibile condurre in questa sede.
L'incremento delle iscrizioni è stato più consistente negli anni 1970 71 e 1971-72 per effetto della tanto discussa l. 11 dic. 1969, n. 910, che ha "liberalizzato" gli accessi agli studi universitari, consentendo l'ammissione a qualsiasi corso di laurea (un tempo consentita ai licenziati soltanto di alcuni tipi di scuola secondaria superiore) dei diplomati di qualsiasi istituto secondario di durata quinquennale, come pure dei provenienti dagl'istituti professionali che abbiano superato speciali corsi integrativi e dei diplomati degl'istituti magistrali e dei licei artistici che abbiano frequentato con esito positivo un corso annuale integrativo. La medesima legge ha previsto altresì la possibilità per lo studente di predisporre un piano di studi diverso da quello contemplato dall'ordinamento della facoltà e di proporlo all'approvazione del consiglio di facoltà. Con la legge n. 910 è venuto, dunque, a mancare ogni collegamento coordinato tra gli studi compiuti nella scuola secondaria superiore e la prosecuzione degli studi in sede universitaria, che il precedente ordinamento, sia pure in forme non più soddisfacenti, tuttavia prevedeva. Ciò comunque ha ulteriormente acuito il delicato problema di una razionale saldatura tra i due ordini di studi, sicché il Parlamento, in sede di riforma della secondaria superiore, sarà indotto a elaborare nuovi criteri in grado di contemperare lo svolgimento coerente del processo formativo e il libero orientamento dei giovani nella prosecuzione della propria carriera scolastica.
Tale intervento si rivela particolarmente urgente in presenza di un altro dato anch'esso molto indicativo: la dimensione del tasso di passaggio dall'una all'altra fascia d'istruzione, tasso che aveva toccato nel 1971-72 il 94,9%, ma che si è mantenuto consistente (intorno all'84,0%) pure negli anni successivi, perdendo soltanto alcuni punti percentuali nel 1976-77 evidentemente sotto l'impressione non immotivata della difficoltà di sbocchi professionali che si prospettano ai giovani universitari in molti settori (per es., nel campo dell'insegnamento) o delle trasformazioni in atto nel mercato del lavoro che sembrano indirizzarsi verso tipi di qualificazione meno formalizzati e di più immediata utilizzazione. Queste circostanze potrebbero portare a forme spontanee di contenimento del cosiddetto fenomeno di "parcheggio" dei giovani nelle u., fenomeno non facilmente misurabile ma certamente improduttivo per il paese e gravido di frustrazioni per i diretti interessati. Aspetti più fisiologici presenta invece la probabile ulteriore crescita del numero degli studenti-lavoratori. Tale fenomeno, anzi, congiunto a quelli variamente originati da altri interessi di formazione permanente che si vanno registrando in strati sociali per l'addietro lontani dall'u., contribuisce a trasformare e, per certi versi, anche ad arricchire, compiti e ruolo della formazione universitaria. In questa prospettiva, ancora solo in parte definibile chiaramente, anche i problemi della selezione negli studi e del numero chiuso - tornati di attualità nel periodo di maggiore crisi economica attraversata dal paese - assumono rilevanza e connotazioni diversi: in parte ridimensionano la loro carica emotiva, in parte cedono terreno in favore di più efficaci accorgimenti volti a migliorare la qualità degli studi, tenendo anche conto dei mutamenti della struttura professionale e delle possibilità occupazionali offerti dal mercato.
Sempre con riferimento ai dati sulla crescita dell'u. italiana, la situazione non appare molto soddisfacente per quanto concerne il gettito annuale di laureati. Infatti, il suo incremento non appare correlato o proporzionale alla notevole crescita della popolazione studentesca. Qui si sommano almeno due effetti: anzitutto lo scarso impegno di molti studenti che per motivi diversi (impegni di lavoro esterno a tempo pieno o parziale, difficoltà incontrate negli studi, semplice disaffezione, diversione di interessi verso iniziative di lotta politica, ecc.) allentano la frequenza degl'insegnamenti e gli esami previsti dai piani di studio, nonostante non poche facilitazioni concesse in questa direzione; in secondo luogo, l'inadeguatezza delle strutture didattiche e, in una certa misura, la complessa situazione del personale docente, certamente cresciuto di numero in questi anni, ma di cui non sono stati risolti tempestivamente i controversi problemi di configurazione dei ruoli, di reclutamento, di stato giuridico. Il provvedimento legislativo (d.l. 1° ott. 1973, n. 580, convertito con modificazioni nella l. 30 nov. 1973, n. 766) con cui sono state introdotte "misure urgenti" non poteva portare a una soluzione adeguata dei numerosi problemi aperti, pur affrontando alcune situazioni contingenti. Maggiore incidenza dovrebbe avere la recente legge 21 febbr. 1980, n. 28, contenente delega al governo per il riordinamento della docenza universitaria e per la sperimentazione organizzativa e didattica. Riguardo al personale docente, la legge prevede un ruolo dei professori universitari articolato in due "fasce" (ordinari e straordinari, associati), con conseguente revisione di alcune fondamentali norme di stato giuridico (tempo pieno, incompatibilità, eventuale utilizzazione in insegnamenti diversi, ecc.); l'istituzione di un ruolo di ricercatori universitari per contribuire allo sviluppo della ricerca scientifica e all'assolvimento di compiti didattici integrativi degl'insegnamenti ufficiali; la possibilità di assumere docenti mediante contratti di diritto privato a tempo determinato per l'attivazione di corsi integrativi.
Mancano dati articolati sulla consistenza del patrimonio edilizio e delle attrezzature didattiche e scientifiche, patrimonio che pure è venuto sensibilmente incrementandosi e aggiornandosi, anche se non dovunque in maniera sufficiente. Una vasta rilevazione riguardante le attrezzature scientifiche, didattiche, bibliotecarie e i centri di calcolo in dotazione alle u. è stata avviata nel 1978 dal ministero della Pubblica Istruzione: ciò consentirà per la prima volta una conoscenza dettagliata della situazione esistente. A titolo di esempio, relativamente al settore delle biblioteche universitarie, dai dati rilevati e in corso di verifica è emerso che le attuali 2609 biblioteche (centrali e di ateneo, di facoltà, di dipartimento, d'istituto), distribuite tra le diverse sedi, occupano complessivamente un'estensione di 441.530 m2, impegnano circa 5000 addetti, offrono 122.600 posti di lettura, dispongono di oltre 27 milioni di volumi e di 233.000 periodici.
Cospicua è stata soprattutto la spesa sostenuta dallo stato per l'assistenza e il diritto allo studio nell'università. I finanziamenti per l'assegno di studio e le altre forme di assistenza sono passati dagli 844 milioni del 1962 ai 97 miliardi del 1976; così la spesa unitaria per studente in corso è aumentata, nello stesso periodo, da 3737 a quasi 130.000 lire. Gli assegni di studio distribuiti nel 1962-63 erano 3877; negli anni successivi sono andati moltiplicandosi, raggiungendo nel 1973-74 il numero di 190.078. Nel medesimo arco di tempo, la percentuale di percettori di assegno di studio sul totale degli studenti in corso è passata dall'1,7% al 27,8 dopo aver toccato il livello massimo del 32,1 nel 1969-70. Nel 1975-76 l'assistenza costituiva con il 15,5% la seconda voce di spesa universitaria. Per misurare l'attenzione con cui si è guardato all'istruzione superiore è opportuno segnalare la rilevante quota parte di spesa riservata a tale fascia d'istruzione nell'ambito della spesa complessiva per l'assistenza scolastica dei diversi livelli d'istruzione. Si pensi, per es., che nel 1970 l'intervento per il diritto allo studio universitario costituiva il 63,7% di tutte le spese dello stato per l'assistenza scolastica. Subentrando, negli anni successivi, la competenza delle Regioni in materia il rapporto si è venuto parzialmente modificando a favore dei livelli scolastici inferiori.
L'evoluzione della spesa complessiva per l'u. mostra il crescente interesse pubblico per il settore, effetto soprattutto della pressione della domanda sociale anche su questo livello d'istruzione. Al suo finanziamento contribuisce in misura assolutamente prioritaria lo stato (v. tab. 4), a cui di recente si sono venuti aggiungendo le erogazioni delle Regioni per la parte relativa all'assistenza. Molto modesto, anche comparativamente ai valori registrati all'estero, è il contributo al finanziamento del servizio rappresentato dalla quota direttamente pagata dagli studenti mediante le tasse universitarie, che sono rimaste ferme sostanzialmente alle consistenze fissate per legge nel 1951: il loro apporto complessivo al totale delle entrate universitarie, a partire dal 1973, è sceso a una misura inferiore al 10%. Si consideri l'elevato costo medio per studente in questa fascia d'istruzione (759.600 lire nel 1975, secondo il CENSIS).
Avendo riguardo all'inesistenza di standard precisi in merito ad allievi, strutture e personale docente, cui legare l'evoluzione di questo settore, la relativa dinamica della spesa denuncia quanto meno la mancanza di indicatori validi a misurarne l'efflcienza e la produttività per il sistema formativo, come pure la sua compatibilità nel quadro della politica generale della spesa statale. Anche per l'u., quindi, al pari e forse più degli altri livelli d'istruzione, si pongono problemi di ricupero dell'efficienza nell'impiego delle risorse, di realizzazione di economie mediante razionale programmazione e articolazione degl'interventi, di attuazione di profonde trasformazioni nell'organizzazione dei servizi tecnici didattici e gestionali.
Il complesso di situazioni cui si è fatto riferimento, l'insieme di prospettive e di problemi insoluti, alcuni risalenti nel tempo, altri emersi o acuitisi negli ultimi anni ricchi di tensioni, secondo un'opinione largamente diffusa avrebbero potuto trovare una soluzione equilibrata soltanto in un'organica riforma dell'istruzione superiore. La complessità dei fattori sociali culturali e professionali coinvolti, la divergenza degl'interessi in gioco, la divisione delle forze politiche in Parlamento, le spinte corporative delle organizzazioni sindacali e la resistenza di alcuni ambienti accademici, la stessa mancanza di una cultura approfondita sulla riforma (nonostante i ripetuti dibattiti e la ricca pubblicistica in proposito) hanno impedito che si concretasse alcuno dei progetti presentati dal governo o dai partiti nel corso delle ultimi legislature.
Un disegno di legge (n. 2314) sulla materia fu presentato alla Camera dei deputati dal ministro L. Gui nel maggio 1965, ma le forti resistenze incontrate non consentirono che fossero approvati più di pochi articoli prima della scadenza della legislatura. Un successivo progetto di "riforma dell'ordinamento universitario" elaborato dal ministro M. Ferrari Aggradi, che si era avvalso del largo materiale raccolto dal suo predecessore F. Sullo, fu presentato al Senato (d.d.l. n. 612) il 17 aprile 1969, senza trovare migliore esito nonostante l'impegno del Parlamento nell'esame del progetto e il voto positivo del Senato nel maggio del 1971. Dopo un'ulteriore iniziativa senza seguito del ministro dell'istruzione O. L. Scalfaro, e l'approvazione delle "misure urgenti" nel 1973, l'iniziativa passava ai partiti che, nei primi mesi del 1977, presentavano alcune proposte di riforma, espressione delle posizioni che si riconoscono in quelle forze. Anche il ministro del tempo, F. M. Malfatti, il 29 aprile 1977 presentava in Parlamento un progetto deliberato dal Consiglio dei ministri. Un disegno di legge elaborato dalla commissione istruzione del Senato è decaduto per l'anticipata conclusione della VII legislatura nell'aprile 1979.
I temi di cui si è discusso in questi anni riguardano un po' tutti gli aspetti della vita e dell'organizzazione universitaria; si è cercato di coglierne anche, con maggiore o minore convinzione delle parti interessate, relazioni e connessioni con la realtà sociale e le previsioni di sviluppo economico e civile del paese. Non a caso si è prospettata l'opportunità di un "programma pluriennale universitario", nel quadro stesso della riforma, per ricondurre in una coerente visione d'insieme e di economia delle risorse finanziarie diverse esigenze: raccordi con i bisogni del sistema economico e produttivo, istituzione sdoppiamento e distribuzione delle sedi universitarie sul territorio, regolamentazione degli accessi e iniziative per l'orientamento degli studenti, determinazione dei piani di ricerca scientifica universitaria, rapporti con le Regioni e gli enti locali, ecc. Alcuni aspetti didattici e organizzativi, ampiamente discussi in quest'ultimo decennio, sono stati tuttavia affrontati dalla citata l. n. 28 del 1980, come la prevista istituzione, per la prima volta in Italia, del "dottorato di ricerca 'i, titolo accademico valutabile soltanto nell'ambito della ricerca scientifica, conseguibile al termine di corsi di durata almeno triennale, programmati per un numero definito di posti. La stessa legge consente alle u. di sperimentare l'organizzazione di "dipartimenti", con prevalente riferimento al coordinamento dell'attività di ricerca, nonché d'introdurre nuove modalità didattiche in relazione alle esigenze di diversificazione e di decentramento dei corsi di studio.
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