Universita
di Steven Muller
Università
sommario: 1. Introduzione. 2. I mutamenti dell'università nel Novecento. a) Dall'ortodossia alla scienza. b) Dalla trasmissione alla scoperta. c) Dall'élite alla massa. d) Dalla collegialità all'organizzazione. 3. I problemi dell'università odierna. a) Debolezza della gestione centrale. b) Studenti e occupazione. c) Gli standard accademici. d) Concorrenza per la ricerca. e) La formazione di gruppi di élite. f) La libertà accademica. Dipendenza e dissenso. g) I rapporti con le comunità locali. h) Il vuoto al centro. 4. Sguardo sul futuro. a) La società delle comunicazioni. b) La società del tempo libero. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Sia come idea sia come istituzione, l'università ha alle spalle, nel mondo occidentale, un millennio di storia. In un tempo così lungo, sia l'idea sia l'istituzione non hanno mai cessato di trasformarsi, così che le fondamenta originali sono diventate invisibili sotto la continua aggiunta di crescenti sovrastrutture. Nel Novecento l'università ha assunto nel mondo occidentale - di nuovo, sia come idea sia come istituzione - una dimensione globale, col risultato che dappertutto nel mondo le università sono oggi, fondamentalmente, variazioni sul medesimo tema concettuale e istituzionale. Questo articolo non si propone di tracciare la storia dell'università attraverso i secoli né di delineare il processo attraverso il quale l'originario modello europeo ha assunto una dimensione universale, ma piuttosto di discutere l'istituzione quale esiste nel nostro secolo.
È un compito formidabile. I popoli della Terra vivono in massima parte in Stati nazionali, e ogni società nazionale ha plasmato le sue università onde adattarle, secondo modalità affatto peculiari, alle proprie condizioni. Inoltre, anche all'interno della stessa società nazionale le università possono bensì presentare una forte rassomiglianza; ma, in quanto istituzioni umane all'interno di un contesto comunitario, storico, geografico e fisico, ognuna tende ad avere proprie caratteristiche distintive. Non sarebbe quindi molto fruttuoso basare la discussione semplicemente sulla descrizione dell'università come idea o come istituzione. Per avere un'applicabilità universale, la discussione dovrebbe essere insieme concisa e generale; d'altra parte, per conferirle precisione, occorrerebbero tante e così diverse specificazioni da eccedere le conoscenze di qualunque autore, come anche la comprensione di qualunque lettore. E una verità generale, per esempio, che tutte le università consistono di ‛studiosi-insegnanti', chiamati professori e raggruppati in varie facoltà; di studenti che lavorano per conseguire diplomi; di biblioteche, aule, uffici e laboratori. Un'asserzione così generale ci dice però assai poco; d'altra parte i particolari del funzionamento complessivo variano enormemente da un capo all'altro del mondo.
Sembra più promettente avviare la discussione esaminando i vari mutamenti fondamentali che l'università - sia come istituzione sia come idea - ha subito nel nostro secolo, mutamenti che sono sufficientemente generali da poter essere ritenuti veri per la gran maggioranza delle università attuali. Alla luce di tali mutamenti sarà possibile chiarire molti aspetti del funzionamento dell'università odierna. E il tentativo stesso di individuare le caratteristiche principali che differenziano l'università odierna da quella del passato anche recente (per esempio dell'Ottocento) ci condurrà a discutere alcuni problemi scaturiti appunto da questi cambiamenti, come anche a formulare, a mo' di conclusione, qualche congettura circa gli ulteriori mutamenti nei quali l'università è già oggi coinvolta e che possono ancora una volta modificare le sue caratteristiche nel secolo avvenire.
2. I mutamenti dell'università nel Novecento
a) Dall'ortodossia alla scienza
Per la massima parte della sua storia millenaria l'università è esistita in società caratterizzate da modelli piuttosto rigidi di struttura sociale, di pensiero e di comportamento. Tali modelli - in Europa e in quelle regioni del mondo che l'Europa aveva segnato della sua impronta - erano radicati nella fede cristiana (dell'una o dell'altra confessione), la quale serviva a legittimare l'autorità secolare, che a sua volta appoggiava la religione. La massima parte della speculazione e dell'insegnamento all'interno dell'università ricadeva quindi entro la cornice dell'ortodossia stabilita. La forza di questa cornice stava nella legittimità conferitale dalla tradizione, legittimità che la poneva in larga misura al di là della sfera del contestabile, così che la sua verità non sembrava richiedere prove ulteriori. La cornice dell'ortodossia era dunque largamente condivisa, poneva restrizioni pressoché a tutti e resisteva al mutamento (sebbene non sempre con successo).
Sin dai suoi esordi, la scienza si è presentata come una sfida all'ortodossia tradizionale. Essenzialmente, la scienza nel senso moderno è l'applicazione della ragione umana alla soluzione di problemi, facendo ricorso a una metodologia di base consistente nella successione dei seguenti momenti: formulazione di un problema, ipotesi di soluzione, controllo e soluzione corredata di dimostrazione (o suscettibile di dimostrazione). Lo spirito scientifico comincia quindi con l'esigenza - o col diritto - di porre i problemi e culmina con il limitare la gamma delle risposte accettabili a quelle corredate di dimostrazione. Con la sua insistenza sull'esigenza di formulare problemi e di ricercare prove delle risposte, la scienza sfida ogni ortodossia che si pretenda sottratta al dubbio e non bisognosa di dimostrazione. Nel Novecento la popolarità della scienza è diventata sempre maggiore man mano che la sua metodologia conduceva alla scoperta e la scoperta alla tecnologia, che serve a soddisfare i bisogni e i desideri umani. Il nostro secolo ha visto l'ascesa della scienza dalla popolarità al trionfo della sua indispensabilità, in quanto i frutti della scoperta e della tecnologia, che ne è il prodotto, sono diventati una necessità, che richiede a sua volta più scienza da sfruttare operativamente, come anche una scienza insieme più accessibile e più raffinata (v. tecnologia).
Come risultato, nel corso del Novecento l'università è diventata un'istituzione in primo luogo scientifica, e lo è diventata in modo così completo che università e scienza, o professore e scienziato, sono ormai termini pressoché sinonimi in molti paesi, specialmente in quelli tecnologicamente più progrediti. Il mutamento è stato di proporzioni colossali, e la sua velocità e la vastità della sua portata sono state tali che non è ancora possibile comprenderlo né valutarlo appieno. C'è stata nell'università una vera e propria esplosione delle scienze fisiche e naturali. Cresciute a dismisura sotto l'aspetto quantitativo, sotto l'aspetto dello spazio occupato e delle attrezzature usate e sotto quello del prestigio; suddivise in specializzazioni e sottospecializzazioni sempre più complesse e intrecciate; associate con l'ingegneria e con le scienze applicate; utilizzate come terreno di addestramento per la riproduzione, ormai indispensabile, di nuovi scienziati, le scienze fisiche e naturali - considerate nel loro insieme - hanno conseguito il predominio nell'università del nostro secolo. Correlativamente, lo studio della società si è fatto scientifico ed è stato rietichettato come ‛scienza sociale'. E tutti gli altri campi del sapere sono diventati ‛più scientifici', nella misura in cui la cosa è sembrata possibile, ovvero sono stati in larga misura respinti ai margini della scena.
L'ortodossia, quindi, o è stata superata o vive - sotto nuove vesti - in malagevole compromesso con la scienza. Nelle nazioni non marxiste la vecchia ortodossia radicata nella fede cristiana ha perduto la sua presa sulle società e, se non eliminata, è stata indebolita e respinta ai margini. In alcune di queste nazioni la scienza ha essa stessa conseguito lo status di ortodossia, in quanto unico approccio valido a qualsiasi problema; e l'odierna università scientifica, in questi paesi, è ridiventata ‛ortodossa'. Nei paesi marxisti il predominio dell'ortodossia è rigido come in passato, ma si tratta di una nuova ortodossia, radicata non nella fede cristiana, ma in un approccio ‛scientifico' alla società. Questa nuova ortodossia considera la scienza e la tecnologia indispensabili e non si limita quindi a tollerarle, ma le promuove entrambe. Ciò avviene però sotto un rigido controllo, per tema che l'insistenza della scienza sull'esigenza di formulare problemi e di cercare prove non eroda anche la nuova ortodossia, che funziona come sponsor e protettrice della scienza stessa. Nell'università degli Stati marxisti, dunque, la scienza gode di una diffusione e di un prestigio non superati in alcun altro paese; vigoroso è però lo sforzo compiuto per impedire che la scienza sfidi la nuova ortodossia predominante, essa stessa presentata a tutti gli studenti come materia obbligatoria di studio scientifico.
Per tornare alle nazioni non marxiste, la questione che soltanto oggi comincia a porsi con frequenza è se le loro università continueranno a funzionare bene anche in assenza di un'ortodossia predominante. La questione non può essere elusa, non foss'altro perché nel suo primo millennio di storia l'università non ha mai funzionato in assenza di un'ortodossia, sia che vivesse in larga misura all'interno della sua cornice o fosse invece in contrasto con l'ortodossia nel suo insieme o con elementi di essa. Con tutti i suoi risultati positivi, il trionfo della scienza è sfociato nella frantumazione della conoscenza e nella perdita di un consenso largamente condiviso su valori e modelli di comportamento. Un tal risultato, naturalmente, non riguarda unicamente l'università, e può anzi riguardare in misura assai maggiore la società nel suo insieme; è comunque certo che il problema esiste anche per (e dentro) l'università. L'università scientifica di oggi è certamente meno unitaria che non l'università del passato. Essa appare dedita più alla ricerca che alla contemplazione. È un'impresa assai più costosa, perché dispendiosa è l'attrezzatura richiesta dalla (e per la) scienza. È infine meno tradizionale, perché la scienza tende a essere non tradizionale. I mutamenti decisivi che hanno prodotto le caratteristiche distintive dell'università novecentesca non si esauriscono però nella transizione dall'ortodossia alla scienza e, una volta identificati, si colgono nel loro intreccio anziché isolati. Bisogna dunque ora volgere l'attenzione a un altro mutamento capitale.
b) Dalla trasmissione alla scoperta
Tra tutte le funzioni dell'università l'insegnamento rimane la più antica e decisiva, ma il ruolo e il contenuto dell'insegnamento stanno subendo, nell'università di oggi, un grande mutamento. Prima dello sviluppo dell'università scientifica, gran parte, se non la totalità, dell'insegnamento s'incentrava sul compito di trasmettere la cultura e la sapienza del passato ai nuovi allievi, così che questi potessero cominciare a usare la loro mente partendo non da una tabula rasa, ma dal punto raggiunto dai loro padri. In tal modo la conoscenza veniva insieme trasmessa e accresciuta. Per la maggioranza degli studenti universitari, tuttavia, la trasmissione della conoscenza aveva la precedenza sul suo accrescimento. Allora come oggi, la maggioranza degli studenti non erano dopo tutto destinati a diventare degli studiosi e abbisognavano della conoscenza in vista dei suoi usi pratici piuttosto che come preparazione per l'ulteriore accrescimento della conoscenza stessa. La ricerca - il perseguimento di nuove conoscenze o la conquista di nuove prospettive - è stata sin dai primordi un elemento dell'insegnamento nell'università: un elemento però, nella massima parte del passato millennio, d'importanza di gran lunga minore, riservato anzitutto agli ‛studiosi-insegnanti' e a coloro che aspiravano a intraprendere la carriera degli studi.
Ora, la scienza privilegia la scoperta; e la scienza stessa è stata privilegiata perché la scoperta ha prodotto la tecnologia. Di conseguenza, più l'università del nostro secolo diventava scientifica, più aumentava il suo impegno nella ricerca: la ricerca di nuove e migliori risposte a vecchi e nuovi interrogativi, o di soluzioni dei problemi. Idealmente, l'università scientifica e un università di ricerca e pertanto ogni università aspira oggi alla ricerca, anche quando mezzi e ambito d'attività siano gravemente limitati. In passato la scoperta era, nell'università, una bizzarria inattesa, in certo senso imbarazzante, che metteva in verità piuttosto a disagio. Questa situazione cominciò a cambiare nel Sette e Ottocento. Con il Novecento, la scoperta è emersa come la meta più apprezzata dell'università scientifica, come il suo Santo Graal. La scienza cerca il nuovo e tende a considerare il vecchio meno come un fine in se stesso che come uno strumento in vista del nuovo. Ne consegue che - almeno nelle università scientifiche più altamente sviluppate, quelle che si proclamano orgogliosamente come le grandi università di ricerca - la trasmissione della conoscenza, tra le funzioni svolte dall'università, passa in secondo piano rispetto alla ricerca.
Non intendiamo dire con ciò che l'impegno dell'università odierna nella ricerca ha liquidato la sua missione docente; è però certo che l'impatto sull'insegnamento è stato considerevole. Della massima importanza è il fatto che la scienza tende a considerare l'insegnamento come preparazione alla scoperta; l'effetto è che gli studenti sono attirati verso la ricerca, considerata come elemento costitutivo dell'insegnamento. È probabile che l'acquisizione di conoscenze sia trattata come mezzo per il progresso della conoscenza persino nel caso di studenti che non intendono intraprendere la carriera degli studi: si tratterà di accrescere le conoscenze dello studente, se non la conoscenza in sé. In questo contesto, lo studente è molto meno passivo, molto meno allievo che non partecipante attivo a un'indagine, essendo addestrato a ricercare anziché semplicemente ad assorbire.
Certo, quest'impatto della scienza sull'insegnamento si è verificato in misura disparatissima nei vari paesi; ed è osservabile soprattutto nelle università più orientate verso la ricerca, nelle società tecnologiche più altamente sviluppate dei paesi non marxisti. Nei paesi piccoli e tecnologicamente meno sviluppati le università mancano spesso delle risorse necessarie per condurre ricerche d'avanguardia ed è dunque possibile che attribuiscano alla ricerca un ‛importanza minore. Esiste però la possibilità che i loro studenti più dotati siano mandati presso un' università di ricerca in un paese più sviluppato, dove assorbiranno l'idea della priorità della ricerca.
Due altri fenomeni relativi all'insegnamento e alla trasmissione della conoscenza devono essere qui sottolineati prima di cominciare a esaminare un altro mutamento capitale. Anzitutto, gli studiosi universitari più eminenti sono oggi noti per la loro attività di ricerca e non per la loro attività didattica. Sotto questo aspetto, la differenza può sembrare scarsa rispetto al passato, quando la reputazione dei professori si basava sulle pubblicazioni. Oggi, però, può accadere che il ricercatore illustre morda il freno sotto l'obbligo di insegnare ai principianti e che sfugga quest'obbligo, se gliene viene offerta l'opportunità. E nel nostro secolo lo scienziato di fama internazionale ha una mobilità ignota in passato; gli si aprono di conseguenza possibilità di ricerca nel cui quadro le preoccupazioni didattiche non hanno che un posto limitato. In secondo luogo, l'accelerazione della scoperta e l'obsolescenza della conoscenza hanno un effetto negativo sull'idea di trasmissione della conoscenza. Nella scienza l'aggiornamento è indispensabile, in quanto ciò che è obsoleto è inutile. La combinazione della crescita esplosiva della conoscenza specializzata (troppo vasta per complessità e ricchezza di particolari per essere assorbita da qualsivoglia studente) e della tendenza di tale conoscenza all'obsolescenza (nel giro non di decenni ma di anni) costringe inevitabilmente l'università del nostro secolo a sottrarre importanza alla trasmissione della conoscenza a favore del compito di insegnare anzitutto il nuovo, insieme al processo mediante il quale gli studenti possono, se lo vogliono, continuare a tenersi aggiornati. Nella sua forma più sofisticata di fondamentale istituzione di ricerca, l'università odierna trasmette ancora conoscenza, ma lo fa in modo selettivo, con l'occhio rivolto meno a ciò che ha valore che a ciò che è necessario perché utile. È dunque improbabile che lo studente di un'università siffatta padroneggi il passato come i suoi predecessori.
c) Dall'élite alla massa
Nel nostro secolo l'università ha dimensioni assai maggiori che nel passato anche recente. Ciò è dovuto in parte alla proliferazione delle discipline specializzate e all'espansione massiccia delle scienze fisiche e naturali e dell'ingegneria, ma la causa principale sta nel decisivo aumento del numero degli studenti; aumento che a sua volta deriva dal fatto che nella maggioranza dei paesi l'accesso all'università non è più riservato a un'élite sociale e intellettuale relativamente piccola, ma è stato aperto a uno strato assai più ampio della popolazione. Se ci si chiede perché si sia verificata una tale dilatazione dell'accesso all'università, si offrono due risposte basilari e complementari. Una è di natura essenzialmente politica: il mondo, nel Novecento, è diventato sempre più egualitario, e questa tendenza è stata assorbita nell'ideologia predominante della maggioranza delle nazioni. Di conseguenza, il talento ha sostituito l'origine sociale (almeno in teoria) come criterio principale per l'accesso all'istruzione universitaria; e il pool di talenti è oggi maggiore di quel che non fosse quando l'elemento decisivo era l'origine sociale. Una circostanza speciale dev'essere sottolineata a questo proposito: un ingrediente essenziale del nuovo egualitarismo è costituito dall'accesso delle donne, su una base di eguaglianza con gli uomini, all'istruzione superiore come del resto a tutti gli altri campi, il che raddoppia virtualmente gli effettivi ovunque. La seconda risposta è di natura meramente pratica: le società tecnologiche altamente sviluppate e quelle che aspirano allo sviluppo tecnologico richiedono un gran numero di persone, il cui addestramento e la cui istruzione superino il livello secondario, che posseggano cioè un'istruzione universitaria o comunque una formazione conseguita in un politecnico. Le società industrializzate ad alta tecnologia fanno ricorso, in quantità massiccia, a tutta una nuova gamma di professionisti qualificati; e per lo più questi tecnocrati - si tratti di ragionieri, di programmatori, di managers industriali, di dirigenti di marketing, e così via - hanno ingrossato dapprima le fila degli studenti universitari e poi quelle dei professionisti (globalmente considerate).
Come reazione, il numero delle istituzioni universitarie in tutto il mondo si è più che raddoppiato nella seconda metà del Novecento; parecchie sono le università che ospitano decine di migliaia di studenti, e non sono rarissimi i casi di università con centinaia di migliaia di studenti. La conseguenza inevitabile è stata l'espansione mondiale del numero dei docenti, per fronteggiare la dilatazione delle iscrizioni. Nelle società tecnologiche più progredite gli stessi docenti universitari costituiscono in realtà una nuova professione: nuova nelle sue dimensioni globali; nuova sotto l'aspetto della diversità dell'origine sociale; nuova, infine, per le sue caratteristiche professionali. Il modello tradizionale del professore come studioso-insegnante sopravvive ancora; ma, poiché l'attività scientifica ha un'importanza minore per la formazione dei tecnocrati, la nuova classe insegnante è costituita sempre più da docenti che sono essi stessi tecnocrati, altamente professionalizzati e altamente specializzati, meglio caratterizzabili come esperti che come studiosi.
Nella maggior parte del globo, l'università è dunque diventata un'istituzione di massa anziché di élite. Essa non attinge più principalmente ai figli dei ceti privilegiati, predestinati dall'origine sociale alle tradizionali professioni del sacerdozio, del diritto, della medicina e della burocrazia (l'ingegneria fu annoverata in quest'elenco soltanto nello scorso secolo). Gli studenti universitari rappresentano oggi, invece, una sezione trasversale molto più diversificata della popolazione nazionale e s'indirizzano verso una gamma enormemente più varia di carriere professionali. Un'ovvia conseguenza di questo sviluppo è che all'interno dell'università i singoli - sia studenti sia insegnanti - hanno in comune assai meno di un tempo, quando il loro numero era minore, la loro origine sociale più uniforme e i loro campi di studio meno diversificati e meno specializzati. Le dimensioni, la diversità dell'origine sociale e la specializzazione hanno quasi interamente eroso l'antica relativa omogeneità dell'università. Non è più possibile definire appropriatamente l'università del nostro secolo come una comunità di studiosi. Immensa e impersonale, essa assomiglia piuttosto a un'impresa tecnologica incaricata di sviluppare il talento umano verso l'acquisizione di abilità grandemente diversificate e altamente specializzate.
d) Dalla collegialità all'organizzazione
Nel suo itinerario verso la scienza e la scoperta (o la ricerca), l'università del nostro secolo ha subito un grande mutamento anche nella sua composizione interna e nella sua forma di governo. Storicamente, l'università aveva natura collegiale, sia quanto alla sua composizione sia quanto al suo governo. Il collegio principale era quello degli studiosi-insegnanti, ognuno dei quali era in definitiva norma a se stesso nel suo insegnamento, che presiedeva a un dato campo del sapere. Gli studenti costituivano un collegio di ordine inferiore, con diritti e privilegi rigorosamente limitati. Il corpo dei professori eleggeva nel proprio seno una sorta di presidente, con il compito sia di presiedere le eventuali riunioni necessarie per il disbrigo degli affari comuni sia di controllare i funzionari che svolgevano le mansioni subalterne che l'università, come ogni altra istituzione, richiedeva. La persona scelta dal corpo docente - talora designata come ‛presidente' ma più comunemente come ‛rettore' - era naturalmente essa stessa uno studioso-insegnante, che si addossava l'onere aggiuntivo di guida solo per un breve periodo e ritornava quindi al suo ruolo di professore. Questo modello collegiale funzionò ragionevolmente bene sin dentro il nostro secolo, e in verità è quello ancor oggi di gran lunga prevalente nelle università di tutto il mondo. Esso però maschera - nell'accezione che il termine ha nella storia del teatro - più che non riveli, la realtà della composizione e del governo dell'università odierna.
In realtà, l'università è diventata una vasta, costosa e complessa organizzazione, che richiede di essere ‛gestita' quanto qualsiasi altra organizzazione di scala analoga. La scienza e la tecnologia in primo luogo hanno immensamente esteso i servizi dell'università. Ci sono ancora aule, sale per conferenze, uffici e biblioteche, ma questi elementi sono pressoché soverchiati da installazioni e laboratori tecnologici, come anche da istituti per la ricerca specializzata e sperimentale. La tipica università dei nostri giorni consiste in una vasta serie di edifici, che possono essere raggruppati o ampiamente dispersi (o in parte raggruppati e in parte dispersi) e nella concentrazione crescente di attrezzature di sempre maggiore complessità; provvede direttamente, o appoggiandosi a servizi esterni, ad alloggiare e a nutrire le sue legioni di studenti; richiede infine personale e un'amministrazione finanziaria per fronteggiare i problemi posti dalle dimensioni e dalle spese. Che la gestione di quest'organizzazione sia assicurata all'interno dell'organizzazione stessa - com'è per lo più il caso delle università nordamericane - o sia invece assicurata, per conto dell'università, dallo Stato (com'è spesso il caso nel resto del mondo), una burocrazia è stata comunque creata a questo scopo e sbriga di fatto la gestione degli affari correnti. Una gestione centralizzata, tuttavia, rimane in larga misura assente nell'università odierna. Se l'università non è più un'associazione su basi collegiali, è però certo che la sua evoluzione non è sfociata in un'organizzazione coerente e integrata. L'università dei nostri giorni è invece un'accolta diversificata di organizzazioni distinte, tutte sussunte sotto l'etichetta di università, ma che assai di rado, se pure accade, funzionano in modo coordinato. Il pubblico concepisce l'università come un insieme, come un entità vasta e complessa bensì, ma unitaria. Un'entità siffatta è invece difficilmente ravvisabile all'interno dell'università, salvo che come semplice giustapposizione di tutte le svariate parti, inclusa quella con la quale s'identifica un particolare docente, un particolare membro dello staff amministrativo o un particolare studente.
Forse, la chiave che permette la comprensione della struttura organizzativa dell'università di oggi sta nel modo in cui vengono procurati i fondi. Per cominciare, è ovvio che le università non producono da sé le loro risorse finanziarie. Le fonti di finanziamento sono sempre esterne, sia che derivino dallo Stato sia da privati o da tasse pagate dagli studenti. Ora, quasi mai i fondi pervengono all'università nel suo insieme. In nessuna università del mondo ci sono somme importanti di denaro che siano liberamente allocabili all'interno dell'università stessa. I fondi sono invece ricevuti a sostegno di attività o programmi specifici, che o già esistono o debbono essere avviati appunto con i finanziamenti in questione. Le entrate e le spese di una università sono dunque riducibili alle entrate e alle spese delle sue facoltà, dei suoi istituti, centri, programmi e altre attività, ognuno dei quali richiede, riceve e spende i suoi fondi. Se si sommano insieme tutti i fondi, si può sì parlare di bilancio annuale globale dell'università, ma sarebbe un'illusione credere che un siffatto bilancio aggregato potrebbe essere ristrutturato in misura significativa dall'università (e all'interno di essa). È dunque non soltanto possibile ma probabile che alcune componenti dell'università ricevano un sostegno finanziario superiore alla media, mentre altre rimangono drammaticamente a corto di fondi. Ora, quasi mai ci sono nell'università fondi ‛liberi' per appianare questi squilibri; né è in genere possibile togliere alle componenti ricche per dare a quelle meno ricche. È naturalmente possibile richiedere e ricercare un maggior finanziamento per attività auspicabili, ma debolmente sostenute; chiedere non vuol dire però ottenere e gli squilibri finanziari tra le varie componenti di un'università sono la norma piuttosto che l'eccezione.
In tali circostanze, il potere collettivo del corpo docente nel suo insieme è estremamente limitato. Anzitutto, il numero totale dei docenti delle varie categorie è oggi per lo più così grande che di rado è possibile anche solo riunirli insieme, né del resto un'assemblea così vasta sarebbe capace di prendere decisioni o di assicurare un efficiente disbrigo degli affari. Delegati delle varie facoltà possono essere (e in genere sono) eletti in un senato o consiglio, che rappresenta la collettività dei docenti; ma anche il potere effettivo di questo corpo ristretto è limitato. In parte il problema sta, di nuovo, nelle dimensioni dell'università odierna, che comporta facoltà così grandi che, diversamente dai vecchi tempi, persino i senior professors delle varie facoltà si conoscono appena tra di loro, se pur si conoscono. L'altro principale impedimento all'esercizio di un potere o di un controllo da parte della collettività dei docenti o dei loro rappresentanti sta nella mancanza di conoscenze e di capacità di comprensione con cui si affrontano i problemi posti dalle grandi, dispendiose e complesse componenti che costituiscono oggi l'università. Per dirla con parole semplici, è difficile al giorno d'oggi non dirò comprendere, ma semplicemente percepire un'università odierna nel suo complesso, specialmente sulla base di una funzione occasionale o part time. La realtà è che, con ogni probabilità, la maggioranza dei membri di un senato o consiglio accademico non ha neppure mai visto materialmente tutte le componenti della propria università.
Rimane invece più vero che i professori governano a casa propria, cioè non come corpo docente globale, ma all'interno delle varie facoltà distinte, dei vari dipartimenti, istituti, ecc. Ma è appunto su questo terreno che il ruolo dell'indispensabile burocrazia tende a minare quello degli accademici. Più ogni particolare componente s'ingrandisce, più diventa complessa e dispendiosa, più è probabile che il suo controllo sia assunto dalla sua propria burocrazia o dalla burocrazia che ha l'incarico di occuparsene. Il corpo docente può fissare la linea di condotta, la quale però diventa reale soltanto nella sua attuazione, e l'attuazione consiste nella successione di piccoli particolari e piccole decisioni che in definitiva eludono il controllo, specialmente se esercitato da persone che non hanno l'addestramento necessario né possono dedicare il meglio del loro tempo e delle loro energie a questo compito. Ciò che in realtà si è verificato è che le diverse componenti specializzate dell'università - specialmente quelle di maggiori dimensioni - si sono sempre più organizzate per perseguire con vigore i propri interessi e per condurre una vita sostanzialmente autonoma: l'obiettivo per cui lottare con tutte le proprie capacità è promuovere la crescita e impedire ogni diminuzione di attività. Bisogna aggiungere, a questo proposito, che per gran parte del Novecento, e particolarmente per il suo terzo venticinquennio, la crescita è stata pressoché dovunque la parola d'ordine dell'università. Ne consegue che soltanto ora l'università, nella situazione in cui si trova, ha cominciato a reagire a un ambiente che non sollecita più la crescita, ma richiede piuttosto una contrazione.
Abbiamo già notato la mancanza di organizzazione centrale e di controllo all'interno dell'università; ci si può ora chiedere in qual modo e perché questa situazione perduri. Nei vecchi tempi non si sentiva un gran bisogno di un'organizzazione centrale, e il collegio dei docenti era generalmente in grado di provvedere al minimo di controllo necessario. Si è visto che al giorno d'oggi la collettività dei docenti non può più svolgere con efficacia questo compito: tuttavia, relativamente poco è stato fatto per avviare a soluzione il problema. È appunto il retaggio del vecchio modello collegiale che impedisce il progresso in questa direzione. Formalmente, il vecchio modello di governo collegiale persiste tuttora, e quando l'abbiamo descritto come una ‛maschera' intendevamo dire ch'esso pretende di funzionare come uno strumento di organizzazione centrale mentre in realtà non ne è capace. Il presidente o rettore è ancora generalmente scelto dal corpo docente per un periodo limitato, ma c'è stata una crescente tendenza a prolungare tale periodo, come anche a rieleggere più volte lo stesso titolare. Si riconosce ormai che la carica richiede al titolare un servizio a full time, con la conseguenza che non ci si attende più ch'egli svolga anche, mentre rimane in carica, i suoi doveri di professore. Una piccola ma crescente burocrazia di sostegno si è inoltre sviluppata attorno al presidente o rettore. Nel caso delle università nordamericane, c'è una lunga tradizione di presidenti a full time, che rimangono in carica per periodi prolungati, sono nominati dalla società che controlla l'università anziché essere eletti dal corpo docente e hanno il potere di nominare un'amministrazione centrale abbastanza numerosa. Cionondimeno, anche questi titolari relativamente bene equipaggiati, forniti di esperienza perché in carica per lunghi periodi, in pratica non funzionano in modo granché diverso dai loro colleghi in altre regioni del mondo (sebbene si avvicinino allo status di amministratori professionali delle università). Anch'essi tendono nel migliore dei casi a coordinare e difettano della capacità di manovra finanziaria e dell'autorità gerarchica necessarie per controllare o dirigere. Anch'essi si trovano dinanzi alla crescente autonomia delle svariate componenti dell'università, che sfuggono al loro controllo; e, sebbene non siano eletti dal corpo docente, se non vogliono con ogni probabilità fallire il loro compito, debbono consultarsi con i professori e fare opera di persuasione presso di essi e presso i loro rappresentanti per guadagnarsene l'appoggio.
Per finire, il totale affidamento dell'università sul finanziamento esterno significa puramente e semplicemente che nessuna università, in nessun momento, può veramente e in modo assoluto decidere dei propri affari. Nella misura in cui i rappresentanti del corpo docente e il presidente o rettore riescono di comune accordo a formulare l'indirizzo da seguire e a parlare con un'unica voce, è possibile decidere quali attività debbano o non debbano essere accolte nell'università e richiedere e ricercare il relativo sostegno finanziario. Ma le decisioni circa la concessione del finanziamento, la sua entità e i suoi beneficiari, queste decisioni sono prese al di fuori dell'università e, almeno nella pratica, sono indirizzate a particolari componenti dell'università. Quando le fonti esterne di finanziamento sono molte e diversificate, l'autorità centrale può conservare, almeno in alcuni casi, un certo spazio di manovra. Quando invece il finanziamento viene quasi soltanto da un'unica fonte (in particolare lo Stato), allora lo Stato viene di fatto ad avere molta voce in capitolo nella gestione dell'università. L'università del nostro secolo è troppo grande e complessa per costituire ancora una comunità riconoscibile, né ha più, di fatto, una forma collegiale di governo. Non è neppure, d'altra parte, un'organizzazione integrata e centralizzata. In generale, essa funziona come un'associazione scarsamente stabile di robuste componenti autonome, le quali esercitano le effettive funzioni che - nella loro aggregazione (che non è una totalità strutturata) - costituiscono l'università, e che si sono burocratizzate, acquisendo un'autonomia che serve efficacemente i loro interessi.
3. I problemi dell'università odierna
Abbiamo sinora passato in rassegna le quattro principali trasformazioni che l'università, sia come idea sia come istituzione, ha subito nel nostro secolo: è diventata un'università scientifica, liberandosi dalla vecchia ortodossia; si è orientata verso la ricerca e la scoperta piuttosto che verso la trasmissione della conoscenza; soddisfa i bisogni di un pubblico di massa anziché di un'élite; e, infine, è governata come un'associazione di forti suborganizzazioni piuttosto che come una comunità collegiale. A questo punto, possiamo riconoscere il profondo e rapido mutamento complessivo che ha investito l'università, suscitando una serie di problemi irrisolti. La realtà è che una dieta troppo ricca di mutamenti è stata ‛divorata' con rapidità eccessiva, col risultato che l'università dei nostri giorni presenta evidenti sintomi di indigestione. È interessante notare che la nuova università del nostro secolo è probabilmente caratterizzata nel migliore dei modi proprio da questi problemi di ‛indigestione', che tuttavia è impossibile comprendere, o avviare a soluzione, al di fuori del contesto della grande trasformazione che li ha prodotti.
a) Debolezza della gestione centrale
Come abbiamo già notato, il controllo centrale o globale rimane debole nell'università odierna, e le parti componenti - sia singolarmente prese sia in aggregato - sono organizzativamente più forti dell'insieme. Verosimilmente, la situazione si rivelerà meno soddisfacente quando le risorse esterne a disposizione dell'università cominceranno a farsi tanto scarse da obbligare a forti riduzioni nei programmi. È improbabile che ci possa mai essere un'università la quale ottenga tutto il finanziamento esterno che sarebbe desiderabile, e questo per la semplice ragione che l'università di oggi ha un appetito insaziabile e crescente di spazio, di attrezzature, di personale, di professori: insomma, di maggiori quantità di ogni cosa. Comunque, nel corso degli scorsi tre o quattro decenni nuove e immense spese sono state sostenute in quasi tutti i paesi per creare altre università, nonché per potenziare quelle già esistenti. In un contesto di crescita continua e generale, nel quale tutte le componenti dell'università si sviluppano (anche se alcune con un ritmo assai più veloce di altre), la relativa debolezza della gestione centrale può non rappresentare un gran problema. Ma quando la crescita si arresta e si rendono necessarie riduzioni di bilancio, è allora probabile che l'università possa reagire solo con grandissima difficoltà. Ogni componente lotterà per la propria sopravvivenza - se necessario, a spese delle altre - e, mentre ognuna può trovarsi a dover accettare, per sopravvivere, riduzioni di bilancio, nessuna accetterà volontariamente di cessare la propria attività, in modo che le proprie risorse possano essere devolute a beneficio delle altre.
Anche un'amministrazione centrale debole basterà a dotare l'università di una voce che solleciti maggiori finanziamenti e si batta contro ogni riduzione. Ma quando successive riduzioni annuali cominciano a dispiegare interamente i loro effetti, allora significative ristrutturazioni dell'impegno e delle spese all'interno dell'università possono apparire auspicabili o addirittura inevitabili. Sarebbe però conveniente che tali ristrutturazioni fossero avviate e negoziate dalla leadership dell'istituzione. La questione aperta è se l'università odierna abbia sviluppato una leadership centrale abbastanza forte da svolgere con efficienza un simile ruolo. Può sembrare che il rafforzamento della gestione centrale in un'epoca di severa pressione finanziaria sia pressoché impossibile, sia perché si renderebbero necessarie nuove spese per l'amministrazione anziché per i programmi accademici, sia perché la leadership centrale dovrebbe accollarsi il compito, inevitabilmente impopolare, di tagliare i programmi. Cionondimeno, una più forte gestione centrale può diventare una necessità, in quanto il grande periodo di crescita delle università nel nostro secolo volge ormai al termine, e anzi la fine sembra essere già arrivata. Lasciando da parte ogni riferimento ai problemi odierni che gravano sulla scena economica e monetaria internazionale e sull'economia interna della maggioranza dei paesi, è in fin dei conti inverosimile che un prolungato periodo di crescita che, per le università, è già durato almeno tre decenni, sia destinato a durare indefinitamente. Inoltre, gli andamenti demografici nella maggioranza delle società tecnologiche più altamente sviluppate indicano una flessione piuttosto che un nuovo picco della curva della futura popolazione studentesca. Negli ultimi decenni il carburante per la crescita delle università è stato fondamentalmente fornito, in larga misura, dal bisogno urgente di ospitare un numero fortemente crescente di studenti. Ora che le donne hanno ottenuto l'accesso all'università in quasi tutti i paesi, e che un più largo accesso è stato consentito sulla base del merito piuttosto che su quella dell'origine sociale, ci sono scarsi dubbi che il lungo periodo di crescita dell'università, che è stato praticamente un fenomeno mondiale, stia volgendo al termine. Come sempre, non mancano eccezioni, come la Repubblica Popolare Cinese, che ha appena cominciato a espandere il suo sistema universitario in rapporto alle dimensioni della sua popolazione totale, e che deve ancora riparare i danni subiti dalle università durante la rivoluzione culturale. Ma nella maggioranza dei paesi l'università come istituzione ha già cessato di crescere e con ogni probabilità andrà anzi incontro a una contrazione.
Bisogna aggiungere qui che la scarsità dei finanziamenti disponibili può anche spingere le università a ripartire le risorse e le attrezzature, il che comincia già ad accadere, ma in mezzo a molte difficoltà. Poche università (in genere di un unico paese) si dividono i programmi principali; parecchie, anche se certo non la maggioranza, intrattengono scambi con università di altri paesi; materiali bibliografici specializzati tendono a circolare largamente tra le università, sia all'interno sia all'esterno delle frontiere nazionali. Grandi installazioni scientifiche, come acceleratori nucleari e telescopi spaziali, troppo ingombranti e troppo dispendiose per essere a disposizione di tutte le università, sono già gestite da consorzi o agenzie al servizio di ricercatori di molte università differenti. L'ulteriore sofisticazione della tecnologia scientifica, i costi relativi e la generale penuria possono costringere ad altre iniziative cooperative di questa e di altra natura. In taluni casi una tale cooperazione può essere organizzata dall'agenzia investitrice nel corso di trattative dirette con studiosi di una particolare disciplina; ma nella maggioranza dei casi il successo della cooperazione istituzionale interuniversitaria richiederà l'iniziativa dell'amministrazione centrale dell'università. La prospettiva di doversi muovere in questa direzione offre quindi un altro impulso ad affrontare il problema della debolezza dell'amministrazione centrale nell'università odierna.
b) Studenti e occupazione
Un'altra serie di problemi che la maggioranza delle università odierne si trova di fronte nella maggior parte dei paesi deriva dall'enorme numero degli studenti. Almeno due difficoltà principali spiccano a questo proposito: l'una deriva puramente e semplicemente dalla grande concentrazione di giovani nell'istituzione universitaria; l'altra dal fatto che un numero crescente di studenti si trova di fronte, dopo il conseguimento del diploma, la prospettiva della disoccupazione o di un'occupazione non adeguata. Dato che in tutta la storia dell'università gli studenti sono sempre stati piuttosto giovani e vivaci, i problemi di disciplina non sono una novità nella vita universitaria. Mai tuttavia in passato, come accade normalmente oggi, ci sono stati tanti studenti concentrati in un unica università. Inoltre, il loro stesso numero li ha trasformati da un'accolta di personalità riconoscibili e di volti identificabili in una folla immensa e anonima, naturalmente soggetta, talvolta, a tutta l'isteria e la labilità di umore di cui le folle sono capaci. L'entità delle - informi - masse studentesche è una caratteristica nuova e senza precedenti dell'università odierna. L'esperienza di parecchie nazioni già indica che una così grande folla di studenti può essere difficilissima da controllare, una volta che sia stata sovreccitata; e che i movimenti studenteschi, spesso in passato un fattore basilare nella storia politica di molte nazioni, assumono una nuova fisionomia quando la massa studentesca raggiunge le dimensioni attuali. Quando si rammenta che i capi delle antiche città-Stato italiane, come Firenze e Venezia, si preoccupavano tanto dell'irrequietudine studentesca da situare le università non nella città dominante, ma in un centro minore e lontano; quando oggi si vede la chiusura di università (anche di tutte le università di un paese) usata come mezzo per disperdere gli studenti, o si vede, alla lettera, un esercito di studenti sollevarsi in mezzo a una città in rivolta, allora bisogna rendersi conto che l'enorme concentrazione di studenti assomiglia a un esplosivo celato all'interno dell'università, a un vulcano sonnecchiante, che può improvvisamente ridestarsi con una violenza senza precedenti.
Un'altra conseguenza, sia della concentrazione studentesca sia della crescente frantumazione e specializzazione dei curricoli, è una nuova impersonalità o alienazione, che costituisce una particolare fonte di disagio nella vita studentesca delle università odierne. La maggioranza dei giovani cercheranno naturalmente, come hanno sempre fatto, di trovare nella vita amicizia e gioia; ma ci saranno singoli studenti depressi, o che sentono in misura eccessiva la pressione dello studio: queste persone sperimenteranno la vita studentesca senza il sostegno di un senso comunitario, e per molte di esse il processo di apprendimento sarà un'impersonale esperienza di massa, una fatica ingrata e persino repulsiva. Rimane una cruciale funzione dell'università quella di assistere gli studenti nel loro sviluppo. L'università deve dunque riconoscere che studenti selezionati a causa del loro talento posseggono una sensibilità, oltre al talento; e che l'esperienza universitaria di studenti dotati insieme di talento e di sensibilità non deve deteriorarsi fino a scadere in un processo che può sì instillare abilità e conoscenze, ma in un contesto così disumanizzato, meccanizzato, impersonale, e persino oppressivo, da schiacciare giovani vite che, pure, sono anch'esse parte del processo di apprendimento.
Una simile indesiderabile prospettiva diventa più probabile quando gli studenti si trovano dinanzi il pericolo che le loro aspirazioni a un'occupazione adeguata non siano destinate a realizzarsi, una volta completato il corso di studi. Sfortunatamente, questo è appunto il caso dei troppi studenti nelle troppe università di tutti i paesi d'oggi. Da un lato, la maggior parte dei corsi universitari sono diventati così specializzati che la preparazione dei laureati, sempre più angusta pur nella sua serietà, si indirizza unicamente verso una particolare professione. Dall'altro, sono tanti gli studenti che hanno oggi conquistato l'accesso all'università e scelto determinati corsi, che i candidati per i posti specializzati disponibili sono più numerosi dei vuoti da colmare. Inevitabilmente, una tale situazione suscita apprensione, tensione e concorrenza reciproca tra gli studenti, e tende a rinforzare l'insoddisfazione e l'alienazione. Queste circostanze gettano a loro volta una fosca ombra sulla vita studentesca e possono fomentare la ribellione.
Di conseguenza, gli interrogativi che l'università odierna si trova di fronte sono: è possibile creare un migliore equilibrio tra il numero annuale di laureati e il numero di posti disponibili e adeguati? è possibile ristrutturare i curricoli così da offrire ai laureati un corso di studi più flessibile, meno specializzato, e quindi capace di aumentare la loro idoneità a un'occupazione adatta? è possibile fare di più, all'interno dell'università, per andare incontro, oltre che ai bisogni di istruzione degli studenti, ai loro bisogni umani e psicologici? è possibile ricreare - presumibilmente all'interno delle componenti minori dell'università - un nuovo senso comunitario nel contesto di una così enorme massa di studenti? A nessuno di questi interrogativi è facile rispondere. Dietro di essi sta un problema ancor più fondamentale. La grande università odierna - scientifica, orientata sulla ricerca, sempre più specializzata - è diventata uno strumento efficace per l'addestramento di professionisti abili e altamente specializzati. Ma un tratto del suo sviluppo è stato che, se si prescinde dall'occupazione, le potenzialità dell'istruzione superiore in fatto di sviluppo e soddisfazione personale sono state trascurate; e un'educazione di base più elastica è stata quindi erosa dall'incessante progresso della specializzazione. Ciò che è ancor peggio, la maggior apertura dell'accesso all'università ha rivelato una riserva di talenti e ambizioni umane che eccede di gran lunga la disponibilità di posti di lavoro. Ora, respingere e frustrare i giovani dotati e ambiziosi è una cosa terribile non soltanto per le persone coinvolte, ma anche per la società nel suo insieme.
Man mano che si è progressivamente evidenziata la mancanza di un'occupazione adatta per molti laureati, si è naturalmente sostenuto che bisognerebbe sottoporre l'accesso all'università a nuove e maggiori restrizioni. Senonché, a parte i suoi aspetti sociali e morali, una tale politica appare mal consigliata anche sul piano economico. Può sembrare logico assumere che i decenni che hanno visto la crescita dell'università e della popolazione studentesca siano stati l'effetto della concomitante crescita economica nella maggior parte dei paesi del mondo, e quindi sostenere che un prolungato periodo futuro di ristagno economico - che naturalmente comporta scarsezza di posti di lavoro per i laureati - dovrebbe condurre a una concomitante contrazione dell'università e della popolazione studentesca. Ma il punto della questione sta nel fatto che, probabilmente, coloro che si vedessero negare l'accesso all'università rimarrebbero comunque senza lavoro, sicché si avrebbero semplicemente non-studenti disoccupati anziché laureati disoccupati. La verità è che l'università di massa del nostro secolo assolve nella maggioranza dei paesi un vitale compito economico e sociale, che ha un collegamento soltanto marginale con l'istruzione. L'odierna università di massa da un lato strappa gli studenti dal loro ambiente familiare (il che è un desiderio sia delle famiglie sia dei giovani) e dall'altro tiene gli studenti lontani da un mercato del lavoro già in via di saturazione. In altre parole, una contrazione del numero degli studenti vuol dire un aumento della disoccupazione tra i giovani, i quali vedrebbero poi, col passare del tempo, compromesse le loro possibilità di occupazione appunto a causa della mancanza di una formazione universitaria. Il futuro dell'università odierna sembra risiedere dunque in un migliore adattamento ai bisogni delle nuove masse studentesche piuttosto che in un ritorno a dimensioni ridotte e a restrizioni all'accesso.
c) Gli standard accademici
Il problema degli standard qualitativi all'interno dell'università di oggi è lungi dall'essere risolto. D'altra parte, se si pensa a tutte le università di recente fondazione, alle legioni di nuovi arrivati che hanno ingrossato le file del corpo docente, a tutti i nuovi corsi di studio specializzati e infine all'entità delle masse studentesche oggi presenti nelle università di tutto il mondo, è giocoforza concludere che una così poderosa combinazione di espansione e di frantumazione non può non avere abbassato gli standard accademici rispetto al passato. Sarebbe chimera realizzare gli elevatissimi standard del passato in mezzo a un così grande processo di espansione e di differenziazione. In generale, tuttavia, l'abbassamento degli standard - o la loro virtuale abolizione - non ha ancora sortito l'effetto di svalutare l'università nel mondo, sebbene grande sia ancora il rischio che ciò possa accadere in futuro. È nella differenziazione che bisogna vedere la ragione principale che ha impedito il crollo degli standard accademici a un comune livello infimo non appena ebbe inizio la grande espansione dell'università di massa.
La differenziazione ha assunto due forme: da un lato, abbiamo avuto la fondazione di università interamente nuove; dall'altro, la frantumazione dei curricoli in nuovi subcurricoli più altamente specializzati. Ogni volta che si è realizzata, questa differenziazione ha offerto sia alle nuove università sia ai nuovi curricoli e subcurricoli la possibilità di fissare e conseguire all'inizio alti standard qualitativi; ed è precisamente ciò che in molti casi è accaduto. Un simile risultato sarebbe stato non difficile ma impossibile se l'intero processo di espansione avesse avuto luogo unicamente all'interno delle università o dei curricoli esistenti. Non c'è dubbio, tuttavia, che ci sia stato in tutto il mondo un abbassamento evidente degli standard accademici, e una delle grandi sfide cui l'università odierna deve rispondere consiste nell'adattarsi alle sue nuove caratteristiche pur risollevando gli standard o almeno impedendo un loro ulteriore abbassamento.
A questo proposito, un grande motivo di speranza sta nel fatto che nelle società più ricche e tecnologicamente più avanzate ci sono università che non hanno raggiunto dimensioni troppo grandi e hanno mantenuto standard elevatissimi sia nell'insegnamento sia nella ricerca. Finché una simile situazione perdura, queste istituzioni possono funzionare (e di fatto funzionano) come metro sul quale le altre possono essere misurate e come modelli qualitativi verso i quali le altre possono indirizzare le loro aspirazioni. Un altro motivo di speranza è fornito dai governi e dalle altre fonti esterne di finanziamento, che debbono insistere sull'esigenza di standard elevati come l'unica giustificazione per continuare a investire nell'università. L'alta qualità è in parte una questione di volontà e di capacità, ma anche una questione di costi. È impossibile raggiungere standard elevati quando migliaia di studenti debbono lavorare in impianti progettati per un numero molto inferiore e quando non è disponibile un'attrezzatura adeguata e aggiornata. È anche vero che una certa variazione negli standard è legittima: i criteri di qualità per un corso di studi puramente tecnologico sono legittimamente diversi da quelli di un curricolo di natura più teorica. In un periodo in cui non si prospetta alcuna ulteriore crescita immediata, l'università odierna ha la possibilità di riguadagnare standard più elevati. Basti per il momento riconoscere che un prezzo significativo è stato pagato, in termini di abbassamento degli standard, per la trasformazione dell'università in un'istituzione di massa.
d) Concorrenza per la ricerca
Se da un lato la ricerca è diventata una così fondamentale caratteristica dell'università odierna, dall'altro l'università non detiene nella società il monopolio della ricerca (o della scoperta) e proprio nel mantenere la sua capacità di accordare priorità assoluta alla ricerca incontra numerose difficoltà. L'origine di tali difficoltà sta nei dispendiosi finanziamenti necessari per condurre la ricerca; esse travalicano però il problema dei costi per toccare aspetti essenziali della missione dell'università. Abbiamo già notato che l'università odierna ha puntato tutto sull'intreccio inseparabile di ricerca e insegnamento, sul fondamento che soltanto chi sia attivamente impegnato nell'indagine scientifica ha la miglior qualificazione per insegnare, e che il processo di apprendimento si attua nel migliore dei modi quando comprende una componente di ricerca che coinvolga lo studente in un'indagine specifica. Un simile impegno da un lato implica che la ricerca dev'essere condotta all'interno dell'università (se si vogliono evitare conseguenze negative sulla vitale funzione dell'insegnamento); dall'altro, fornisce all'università il migliore argomento per promuovere la stessa attività di ricerca: l'università addestra cioè persone competenti a condurre la ricerca, e svolge questo compito per tutte le sfere della società che abbisognino di questo tipo di formazione. Senonché, una società ad alto sviluppo tecnologico può non avere, per i risultati diretti della ricerca nell'università, il grande interesse che comunemente si suppone. Nella maggioranza dei casi la ricerca nell'università acquista rilevanza sociale solo quando i suoi risultati vengano resi applicabili a prodotti e processi in laboratori industriali e tecnologici che sono fuori dell'università stessa. D'altra parte, questi laboratori sono efficienti soltanto con dipendenti che abbiano una formazione universitaria. La società tende dunque a essere più interessata alla capacità dell'università di addestrare ricercatori che abbiano familiarità con gli strumenti e le tecniche più recenti che non ai risultati stessi della ricerca condotta nell'università.
I costi della ricerca, comunque, si vanno facendo sempre maggiori in termini assoluti, cioè al netto dell'inflazione. Le attrezzature sofisticate - e dispendiose - generano attrezzature ancor più sofisticate e dispendiose. Se i laboratori contengono ancor oggi recipienti di vetro e tubature, sono però incompleti senza laser, microscopi elettronici, elaboratori, spettroscopi, scanners, ecc. La conseguenza è che l'università ha già cominciato a sperimentare la difficoltà di acquisire una strumentazione in via di costante perfezionamento, senza la quale, d'altra parte, la ricerca scientifica e tecnologica sarebbe nel migliore dei casi sorpassata e nel peggiore impossibile. Sino a un certo punto, questa difficoltà è stata elusa attraverso la cooperazione dell'università con laboratori extrauniversitari, che assicurano un flusso costante delle più aggiornate attrezzature specializzate, che si tratti di laboratori di istituti di ricerca patrocinati dallo Stato o di impianti di imprese per la ricerca industriale. Una tale collaborazione tra università e laboratori extrauniversitari riduce i costi e presenta vantaggi per entrambe le parti; è dunque ragionevole attendersi ch'essa continui a svilupparsi. Non mancano però i rischi per l'università. Può accadere, per esempio, che i costi delle attrezzature in certi campi s'impennino talmente che l'università possa diventare totalmente dipendente, nei campi in questione, da attrezzature appartenenti ad altri; rimane inoltre vero che anche il migliore o meglio addestrato dei laureati abbisogna di un certo addestramento aggiuntivo sul campo prima di raggiungere una piena efficienza come dipendente di laboratori extrauniversitari. In tali circostanze non è inconcepibile che gli istituti o le imprese che gestiscono questi laboratori richiedano, e ottengano, la facoltà di rilasciare diplomi. Se ciò accadesse, essi cesserebbero di essere partners dell'università per diventare suoi concorrenti. Se l'università fosse nuovamente ridotta alla sua missione storica di istruzione e di formazione - fosse cioè privata della capacità di condurre la ricerca in modo adeguato - si avrebbe una trasformazione altrettanto grande di quella che ha innalzato la ricerca alla sua attuale preminenza e il nostro secolo perderebbe una delle caratteristiche fondamentali che ha così recentemente acquisito. Un simile risultato sarebbe l'effetto di sforzi coronati da successo da parte dello Stato o dell'industria, o di entrambi, per sottrarre all'università i migliori ricercatori: è quanto già si vede occasionalmente in alcuni paesi. Ironicamente, il miraggio che attira i ricercatori appassionati è meno il vantaggio economico personale che la possibilità di accesso alle attrezzature più recenti e perfezionate, che sono proprio ciò che l'università è meno in grado di fornire. Di conseguenza, la missione di ricerca dell'università odierna è bensì vitale, ma non interamente esente da pericoli.
e) La formazione di gruppi di élite
Una questione interessante che sorge dalla trasformazione dell'università odierna in università di massa riguarda il suo ruolo rispetto alla formazione di gruppi di élite, richiesti sia dalle società nazionali sia dalla comunità internazionale. Anche in passato l'università non deteneva il monopolio della formazione delle élites. Nella maggioranza dei paesi, per es., i futuri capi delle forze armate erano, e sono tuttora, addestrati in speciali accademie, che in certa misura si sostituiscono all'università, ma in misura ancor maggiore perseguono unicamente i loro scopi particolari. In paesi come la Francia, l'élite dirigente della burocrazia nazionale può frequentare o non frequentare l'università, ma viene in ogni caso formata nelle Grandes Écoles costituite appunto a questo scopo. Negli Stati marxisti l'élite dirigente del partito unico può, di nuovo, frequentare o non frequentare l'università, ma riceve comunque una formazione specifica in apposite scuole o accademie di partito. Resta il fatto che l'università formava, e forma tuttora, i candidati a professioni come il sacerdozio, il diritto, la medicina, l'architettura, l'ingegneria, e più recentemente i candidati alle nuove professioni scientifiche e tecnologiche, per tacere degli stessi docenti universitari. Negli Stati Uniti nuove scuole sono apparse in anni recenti, fuori dell'università, per preparare ad altre professioni ancora, come le scuole che formano managers commerciali e industriali o le scuole di giornalismo, che formano leaders nel campo delle comunicazioni.
La questione connessa con l'emergenza dell'università di massa (le cui componenti hanno anch'esse acquisito grandi dimensioni) è se e in qual misura essa rimanga capace di formare, oltre al pubblico di massa, anche gruppi di élite. Nella misura in cui l'élite è semplicemente selezionata tra i migliori studenti dell'università in determinati campi, non sembrano insorgere difficoltà rilevanti, a meno che gli standard nell'università di massa crollino a tal punto che neppure la qualità degli studenti migliori possa considerarsi buona, ovvero ch'essi siano così svantaggiati dal peso di standard scadenti da risultare inadeguati. In taluni casi, comunque, la formazione di élites richiede corsi di studio speciali e, come reazione alla nuova università di massa, il bisogno e la domanda di siffatti curricoli elitari sono suscettibili di incremento. Con tutta probabilità, speciali programmi elitari si aggiungeranno ai normali programmi universitari, verosimilmente sotto la forma di corsi speciali per laureati (di cui si vedono già esempi).
Se, viceversa, la formazione di élites dovesse trovare attuazione, sotto varie forme, al di fuori dell'università, ciò porrebbe, sulla lunga distanza, problemi gravi all'istituzione stessa. Per la massima parte della sua storia l'università ha funzionato come un'istituzione elitaria. Ad onta delle difficoltà, essa si è adattata alla trasformazione in una università di massa, ma ciò non vuol dire che si sia adattata - o che possa facilmente adattarsi - a essere un'istituzione di massa contrapposta a una o più nuove istituzioni elitarie rivali, insediate proprio nei campi di studio che sono stati il dominio dell'università. Per il momento, una conclusione preliminare è che l'università, nella sua forma attuale, continuerà a funzionare, sia come istituzione di massa sia come istituzione elitaria, sinché rimarrà la fonte primaria della formazione dei professionisti in campo scientifico e tecnologico. Se però il potenziale in materia di ricerca dovesse indebolirsi gravemente e se andasse perduta la capacità di produrre leaders in campo scientifico e tecnologico, allora l'università potrebbe verosimilmente decadere sino a raggiungere lo status di semplice scuola superiore, e le sue tradizionali funzioni di formazione di élites sarebbero gradualmente assunte da nuove istituzioni, che non possiamo ancora raffigurarci né nel loro principio né nella loro struttura.
f) La libertà accademica. Dipendenza e dissenso
È curioso che l'università odierna, liberata - a opera della scienza e per cagion d'essa - dalla vecchia ortodossia predominante, si sia in genere mostrata incline a un maggior conformismo che in altri momenti della sua storia passata. Una tale asserzione esige una spiegazione attenta e dettagliata. Essa risulterebbe, per esempio, imprecisa se applicata agli studenti dell'università anziché unicamente all'istituzione, intesa - in senso stretto - come un raggruppamento di facoltà specializzate. In tutti i tempi gli studenti universitari hanno mostrato un forte potenziale di anticonformismo, senza però ricevere, in genere, il sostegno dell'università come istituzione. In realtà, i recenti movimenti studenteschi in molti paesi si sono in larga misura rivolti contro l'università stessa come istituzione, sia ch'essa fosse il bersaglio primario o esclusivo, sia che fosse un sostituto di altre autorità costituite. Per ragioni già discusse in precedenza, la ribellione delle masse studentesche costituisce una costante minaccia potenziale nell'università di massa odierna; ma, giacché non gode in genere del sostegno dell'università e può essere anzi diretta contro di essa, per il nostro scopo si può escludere che sia un fenomeno riguardante l'università come istituzione.
Inoltre, e nuovamente in armonia con le considerazioni precedenti, bisogna riconoscere che il conformismo assume un carattere assai diverso in assenza di un'ortodossia prevalente. In molti paesi non marxisti, e forse in modo specialissimo negli Stati Uniti, il dissenso e la controversia sono talmente diffusi, in assenza di un consenso prevalente su molti argomenti, che il dissenso da parte dell'università sembra essere una manifestazione di conformità alla norma altrettanto che un distacco da essa. Per esempio, quando la leadership delle università americane si pronunciò infine contro la guerra nel Vietnam (gli studenti l'avevano già fatto da molto tempo e la guerra volgeva ormai al termine), questa posizione era condivisa da tanta parte della società americana che non era chiaro se, in questo caso, l'università guidasse o seguisse un'opinione pubblica già maggioritana nella società. Negli Stati marxisti l'adeguamento all'ideologia predominante - intervenga o non intervenga la costrizione - è per l'università una necessità basilare, se vuol sopravvivere. Negli Stati non marxisti e non totalitari, la facoltà (duramente conquistata) dei singoli professori di esprimersi liberamente è per lo più un dato acquisito, anche se forse scarsamente avvertibile nel turbine della discussione pubblica. Negli Stati marxisti e nelle dittature, invece, la libertà di espressione è soggetta a restrizioni, e università e professori non hanno una posizione privilegiata a questo riguardo.
L'affermazione che l'università odierna sembra essere più conformista che non l'università del passato riguarda dunque principalmente il fatto che la sua dipendenza dal sostegno esterno - e dunque dall'accettazione esterna - è sostanzialmente maggiore che in passato. È vero che nessuna università potrebbe esistere senza un decisivo grado di sostegno e di accettazione esterni, cioè pubblici (e le cose sembrano essere andate sempre in questo modo). Ma l'università odierna ha dimensioni tali ed è così dispendiosa che la sua dipendenza dal patrocinio esterno è decisamente maggiore di un tempo. Per questa ragione l'istituzione è piuttosto cauta quando si tratta di assumere atteggiamenti rischiosi rispetto all'opinione pubblica. Senza sostegno non c'è denaro, senza denaro non c'è scienza e senza scienza l'università odierna si considererebbe impotente o svuotata di contenuto. L'università di massa odierna si situa, in generale, all'interno e non al di fuori dell'ordine costituito predominante. Anche l'identificazione delle università con il nazionalismo (in situazioni che le collegano col dissenso contro l'autorità repressiva) è talmente radicata nel forte sentimento nazionalistico prevalente che opera nel senso di mantenerle all'interno dell'opinione maggioritaria (anziché nel senso di trascinarle al di fuori).
Rimane ora da dire che la grande scienza è prodotta unicamente dalla libera ricerca. Dato che la grande scienza è l'attributo più prezioso dell'università nel nostro secolo, ne segue che le università più ammirate e rispettate sono oggi quelle che vivono in un clima sociale favorevole alla libertà d'indagine e d'espressione.
g) I rapporti con le comunità locali
Una speciale menzione meritano ora taluni mutamenti intervenuti nei rapporti tra le università odierne e le comunità locali al cui interno vivono. L'università di massa odierna - di grandi dimensioni, diversificata e complessa - è, per la comunità che la circonda, un vicino ancor più ingombrante di quanto non fosse in passato. Naturalmente, la tensione si avverte soprattutto nei rapporti tra studenti e popolazione. Certo, la presenza delle nuove masse studentesche è motivo di timore per qualunque città che si trovi a ospitare un'università. In una prospettiva più positiva, tuttavia, la comunità urbana circostante ha dovuto riconoscere che la presenza dell'università di massa, con la sua scienza e la sua ricerca, è qualcosa che difficilmente poteva essere in passato, cioè un grosso vantaggio economico. Una università è oggi un grande datore di lavoro, e i suoi dipendenti vivono in città, dove spendono gran parte dei loro salari. L'università attira visitatori, cioè turisti; acquista servizi; impiega abitanti del posto; consuma servizi pubblici: è insomma un grosso affare e non è quindi esclusivamente un elemento negativo a causa dei suoi studenti.
Si aggiunga che l'università odierna - particolarmente in quanto grande riserva di talenti in campo scientifico, tecnologico e medico - costituisce una risorsa non soltanto sul piano nazionale, ma anche, almeno potenzialmente, sul piano locale. Nel passato, l'università tendeva in larga misura a condurre una vita separata dai suoi vicini, per i quali, comunque, poteva difficilmente costituire un motivo d'attrazione. Al giorno d'oggi, la scienza, la tecnologia, la medicina e le altre risorse dell'università sembrano avere un'assai maggior rilevanza anche sul piano locale e regionale, oltre che nazionale. Ne consegue che l'università è forzata a riconsiderare i suoi rapporti con la comunità locale, e positive interazioni vanno sviluppandosi tra università da un lato e governo, commercio e industria locali dall'altro. Parlando dell'università odierna, il riferimento alla torre d'avorio appare sempre meno appropriato: l'interesse locale verso la scienza e la tecnologia è certamente maggiore di quel che non fosse verso le discipline accademiche più tradizionali.
h) Il vuoto al centro
Tutte le difficoltà e tutti i problemi suaccennati sono forse meno importanti rispetto al vuoto effettivo che si è ormai determinato al centro dell'università odierna. In realtà, il modo di affrontare tutti gli altri problemi e difficoltà dipende dall'interrogativo se questo vuoto sia o non sia destinato a durare; ovvero, in altre parole, dalla possibilità di ridar vita al centro dell'università. La vecchia università - più piccola, più collegiale, più tradizionale, più omogenea - è ora diventata un'immensa macchina scientifica e tecnologica, che è impegnata anzitutto ad applicare la ragione umana alla soluzione di problemi e deve soddisfare i bisogni di un pubblico di studenti assai più ampio e diversificato che in passato. Molto si è guadagnato con questa trasformazione, ma alcune cose sono andate perdute, e fra queste la più importante è forse il consenso circa la struttura di valori della società e l'università stessa in quanto comunità. Non è questo, com'è naturale, tanto il caso delle università nelle società marxiste o governate da dittature, e neppure delle università impegnate a perpetuare, a rafforzare e a dar voce ai nazionalismi etnici. In tutti questi casi l'università sussiste al servizio di una causa nazionale, e non importa se questa causa sia imposta rigidamente dall'esterno o abbia invece spontaneamente la priorità nella mente della maggioranza o di tutti coloro che lavorano nell'università. Ma persino le università di questo tipo sono anch'esse per lo più abbastanza grandi da risultare impersonali, e anche al loro interno si è verificata la frantumazione delle discipline, il senso comunitario si è attenuato se non estinto, e la scienza e la tecnologia hanno acquisito il predominio. Dal canto loro, le università che operano essenzialmente nella tradizione liberale ottocentesca sembrano aver fatto di ogni materia di fede, d'impegno e di principio una materia contestabile.
Sebbene sia molto difficile essere precisi a questo proposito, si può però dire che l'università del Novecento è soggetta a forze centrifughe affatto straordinarie, che hanno respinto il suo vigore e il suo spirito alla periferia delle sue componenti, sino al punto da creare un vuoto al centro. Non esiste oggi un unico spirito, da tutti condiviso, che animi l'università nel suo insieme. Da un lato, certamente l'università esiste, enorme e più imponente che mai; la gente nutre naturalmente attaccamento verso di essa e ne parla come della ‛sua' università, si tratti di docenti, di studenti o di impiegati. D'altro lato, l'università - nella sua aggregazione - è troppo grande per avere una fisionomia riconoscibile, ed è legittimo chiedersi se, di fatto, l'università sia realmente qualcosa di più che la semplice somma delle sue parti. Ogni università conserva ancora, evidentemente, una sua identità: esiste sotto una particolare forma in un particolare luogo. Ogni università ha caratteristiche peculiari: ognuna ha il suo proprio insieme di discipline e raggiungerà l'eccellenza in certi campi piuttosto che in altri. Ma ogni università ha per questo una sua personalità? In qual modo potrebbe una tal personalità essere espressa, e da chi? Questi interrogativi suggeriscono che l'università odierna, al servizio della scienza e della tecnologia, si sia trasformata da organismo sociale - qual era in passato - in una macchina.
Un tale assunto conduce a chiedersi se gli obiettivi umani, per il cui conseguimento l'università è stata fondata, possano essere oggi adeguatamente serviti dall'università meccanizzata dei nostri giorni, nella quale tutto ciò che non sia interamente razionale appare in qualche modo fuori posto, e persino incongruo. Una macchina non ha spirito, né anima, né emozioni, né sentimenti. Forse, di queste cose non c'è più bisogno nell'università; ma, se invece ce n'è ancora, nuove vie debbono essere scoperte per ripristinarle. L'università alberga una tal quantità di pensiero che, cartesianamente parlando, si deve dire che esiste; ma, come Gertrude Stein disse una volta di una città americana: ‟There's no there there". Indicare la soluzione di questi problemi eccede l'ambito del nostro articolo; a titolo semplicemente descrittivo, è però legittimo concludere che il vuoto che si riscontra al centro dell'università è bensì percepito, ma non ben compreso. C'è un certo disagio a questo proposito, ma la macchina funziona, dopo tutto, e c'è molto da fare.
4. Sguardo sul futuro
A parte la trasformazione subita nel nostro secolo e i problemi che ne derivano, l'università odierna si trova dinanzi almeno due nuove sfide capitali, suscettibili di produrre un altra trasformazione nel secolo avvenire. Il nostro esame non si propone di anticipare il futuro; ma, dato che sono già visibili e hanno anzi una massiccia consistenza, queste sfide ricadono a giusto titolo nell'ambito di questo articolo.
a) La società delle comunicazioni
La prima sfida consiste nell'adattamento dell'università alla nuova tecnologia delle comunicazioni, che si è ormai imposta negli ultimi tre o quattro decenni. Basata sull'elettronica e sull'estensione dell'attività umana allo spazio, la nuova tecnologia delle comunicazioni solleva per l'università nuovi problemi, che diventano più urgenti man mano che successive riduzioni nei costi e nelle dimensioni tendono a rendere la nuova tecnologia onnipresente e universalmente accessibile. I suoi prototipi sono l'elaboratore e il tubo a raggi catodici, che possono visualizzare simboli e immagini provenienti da una così impressionante varietà di fonti da sfidare ogni rassegna. L'elaboratore e il tubo a raggi catodici funzionano già insieme, ed è possibile cominciare almeno a delineare alcune delle loro attuali applicazioni. Naturalmente, le nostre considerazioni non si concentreranno sul loro uso nella ricerca e nell'insegnamento in sè presi, ma piuttosto sul modo onde influenzano l'università come istituzione, cioè nella sua aggregazione globale.
L'elaboratore, per esempio, non soltanto rende possibili, e a grande velocità, calcoli immensamente complessi; esso è anche capace di immagazzinare dati e quindi di reperirli automaticamente, di nuovo, a velocità altissima. Ora,una semplice conseguenza di questa facoltà è che gli elaboratori possono immagazzinare ogni fatto conoscibile suscettibile di essere inserito nei loro programmi e quindi reperire tali dati all'istante (in termini di velocità umana), con tutta la ricchezza di particolari e l'esattezza desiderabili. In altre parole, questo nuovo strumento elettronico è il più straordinario sussidio per la memoria che sia mai stato escogitato, dato che mette potenzialmente a disposizione di ogni singola mente umana tutta la conoscenza immagazzinata. I fatti - tutti i fatti noti - saranno messi a disposizione, ma in tal numero e con tal ricchezza di particolari che di questa disponibilità potrà fare un uso efficace soltanto chi sappia di quali fatti ha bisogno e per quale ragione ne ha bisogno. Le implicazioni di questa tecnologia per il processo di apprendimento sono naturalmente enormi. Per la massima parte della storia umana, l'apprendimento è consistito nello sforzo, da parte della mente dell'uomo, di acquisire, comprendere, memorizzare e quindi utilizzare fatti, cioè dati. L'acquisizione e la comprensione potranno mutare o non mutare; certamente muteranno la memorizzazione e l'utilizzazione dei fatti. Forse, in futuro sarà necessario memorizzare soltanto ciò che la mente ha bisogno di memorizzare, dato che l'elaboratore può richiamare i fatti con una precisione, una ricchezza di particolari e una velocità che eccedono le possibilità umane. Per quanto riguarda l'utilizzazione dei fatti, l'elaboratore consente di utilizzarne una quantità di gran lunga maggiore e a una velocità fulminea. Se ciò è vero, l'apprendimento è certamente destinato a mutare, nel senso che si concentrerà in ultima analisi sulla memorizzazione di ciò che si ha bisogno di memorizzare e sull'utilizzazione, a sostegno del pensiero, di tutti i dati immagazzinati disponibili. L'elaboratore è già oggi presente nell'università, ma la questione della sua reale incidenza sull'apprendimento - e quindi sui curricoli e sulla lunghezza dei corsi di studio - è stata appena sfiorata.
In modo analogo, l'elaboratore eserciterà certamente il suo influsso sulla biblioteca, sinora l'unico elemento dell'università odierna che ha subito nel nostro secolo mutamenti minimi, salvo che per le dimensioni. Come dice il suo stesso nome, una biblioteca consiste di libri: la base dell'apprendimento durante tutto il millennio della vita dell'università. Ora, in qual modo la capacità dell'elaboratore di immagazzinare fatti e di reperirli automaticamente, nonchè di visualizzarli sul tubo a raggi catodici o di stamparli rapidamente e a basso costo, inciderà sul bisogno e sull'uso dei libri? È destinata la biblioteca a diventare sempre più un museo della carta stampata, o si trasformerà nel centro di comunicazioni dell'università, forse riacquistando in tal modo una centralità nell'istituzione che ora le manca?
Il problema è complicato dalla parte grandissima che l'immagine occupa oggi - e ancor più occuperà domani - nella tecnologia delle comunicazioni. Vedere e udire - con i colori e il movimento della vita - immagini non solo della realtà presente ma anche del passato ricostruito, del futuro immaginato, della fantasia creativa o di un corso audiovisivo è un'esperienza non solo percettiva, ma anche emotiva. Anche questo è un fenomeno che incide sul processo di apprendimento. Nel corso di tanti secoli l'umanità si è talmente abituata a equiparare l'apprendimento con la lettura, che si tende a dimenticare che tale equiparazione non è inscritta nella natura delle cose, ma è frutto, appunto, dell'abitudine. Ciò che sappiamo della vita umana nei tempi passati ci è stato trasmesso in massima parte mediante la scrittura; ma sappiamo anche che c'era una volta una grande tradizione orale che dava voce alla storia della comunità attraverso le generazioni, e che immagini e illustrazioni possono combinarsi con la scrittura per ottenere un effetto più incisivo. Già semplicemente il ruolo della televisione nell'apprendimento sia di bambini sia di adulti non è stato affatto - sinora - pienamente compreso. I popoli stanno forse entrando in un'era in cui le immagini si accingono a diventare, per l'apprendimento e per il pensiero, uno strumento più potente delle parole (o delle parole usate da sole). Se ciò è vero, la piena portata di un tal fenomeno è per il momento incalcolabile; è però certo che l'università dovrà adattarvisi quanto qualsiasi altra istituzione, e anzi in misura ancora maggiore se il fenomeno inciderà sulla sostanza dei processi di apprendimento e di insegnamento.
Al di là di simili speculazioni, c'è poi il fatto - anche questo ormai stabilito - che l'odierna tecnologia delle comunicazioni ricorre allo spazio per scavalcare ogni confine ed è in grado di raggiungere attraverso gli oceani persone - individui o gruppi - nelle case e negli uffici, o persino in movimento nelle loro automobili o altri veicoli. Per l'università esiste già oggi la possibilità di non vincolare più l'insegnamento a un certo spazio fisico, dato che gli studenti possono essere raggiunti nelle case, nei luoghi di lavoro e in realtà ovunque. In verità, la tecnologia ha cessato di rendere indispensabile (se rimanga o non rimanga desiderabile, è un'altra questione) che gli studenti si rechino personalmente all'università per iscriversi, ascoltare le lezioni o sostenere esami. Le telecomunicazioni possono ‛portare' gli insegnanti ovunque: nell'università come in qualunque altro luogo in cui ci siano uno o più studenti.
Esiste dunque la prospettiva che il concetto di studente si estenda sino a includere - potenzialmente - la totalità dei cittadini e che lo studio si trasformi da occupazione a full time in ruolo a part time (concepito come temporaneo o permanente). E può quindi mutare anche il concetto di università: da quello di una sempre maggiore aggregazione fisica di individui a quello di un centro di comunicazioni che si rivolge a un pubblico più disperso, essendo in grado di raggiungere i suoi destinatari attraverso la città, la regione, la nazione, il globo: sino allo spazio. Il ruolo dell'università nel ‛parcheggiare' i giovani lontano dalla famiglia e dal lavoro potrà assumere una nuova rilevanza e un'articolazione esplicita, o potrà invece scomparire se i giovani verranno ‛parcheggiati' altrove, in modo diverso, e attingeranno il loro apprendimento a centri di comunicazione lontani, individualizzati, in parte computerizzati. Non intendiamo fare della futurologia. È sufficiente osservare che l'umanità - col nostro secolo - si è tuffata in una nuova era delle comunicazioni, e che l'università odierna, in quanto istituzione della società umana, partecipa anch'essa, inevitabilmente, a questo tuffo. Il processo di adattamento nei confronti della società delle comunicazioni non è forse neppure cominciato, ma è inevitabile. La questione non è ‛se' un tal processo trasformerà ancora una volta l'università, ma riguarda piuttosto il modo, la profondità e la velocità della trasformazione.
b) La società del tempo libero
È intervenuto nella condizione umana un altro mutamento, che è già avvertibile e comincia, sia pure embrionalmente, a sortire i suoi effetti sull'università. Una società che abbia raggiunto un alto livello di sviluppo tecnologico è in misura sempre maggiore una società del tempo libero. Il tempo libero implica l'esistenza di tempo ed energie di cui disporre a discrezione, ovvero di tempo ed energie che, non richiesti dalla sopravvivenza o sussistenza, possono essere spesi liberamente, a proprio piacimento. In passato, il tempo libero - l'opportunità di starsene in ozio o di scegliere a proprio piacimento una diversione dall'ozio - era riservato unicamente agli individui molto giovani o molto vecchi, oppure era uno dei privilegi più rari della condizione umana, appannaggio unicamente dei pochi fortunati che, beneficiando del lavoro altrui, potevano concedersi il lusso del tempo libero. Al giorno d'oggi, la stremante fatica un tempo richiesta per provvedere cibo, alloggio e indumenti, e mantenere singoli e famiglie, va scomparendo nelle società tecnologiche più altamente sviluppate. Ci sono le macchine che lavorano, e il giorno della robotica è arrivato. Nella società tecnologica il tempo che gli esseri umani devono spendere in lavoro si va contraendo e, ciò che è ancor più importante, e sempre minore l'energia fisica richiesta dal lavoro. Ne consegue che in una tale società gli individui hanno a loro disposizione sia tempo sia energie in eccesso rispetto al ‛bisogno'. Il tempo libero è dunque alla portata di tutti. Si può osservare che, in simili circostanze, l'adagio biblico ‟l'uomo lavorerà col sudore della propria fronte" non trova più applicazione. Si è già costituita invece tutta una nuova industria diretta a creare le opportunità di ‛sudare', di fare sport, di dare sfogo all'energia fisica.
Di conseguenza, col progredire della tecnologia, il tempo libero diventerà un elemento sempre più importante della condizione umana da un capo all'altro del globo. Anche in questo caso le implicazioni del fenomeno eccedono di gran lunga la nostra immaginazione e l'ambito di questa discussione. Si può tuttavia affermare che, se gli individui hanno la possibilità di spendere liberamente il proprio tempo e le proprie energie, il tempo libero può minare le società che esigano la conformità a una norma e può corrompere le società che siano inclini all'autoindulgenza. Il tempo libero reca con sé la minaccia della noia ed è interessante osservare come nelle società tecnologicamente più avanzate sia emersa una nuova élite sociale di professionisti dell'intrattenimento: un'élite che riceve compensi più alti di qualsiasi altra (sotto l'aspetto economico come sotto quello della pubblica adulazione) proprio perché serve a divertire, ad alleviare la noia. Ma il punto che ci interessa è che la crescente disponibilità di tempo libero dischiude all'università un'opportunità che - è vero - è sempre esistita, ma di rado è stata sfruttata nel nostro passato recente. Quest'opportunità ci riporta all'idea che l'apprendimento - l'istruzione - ha altre potenzialità, oltre a quelle sfruttate per la preparazione professionale. L'apprendimento per il proprio piacere, l'apprendimento per se stesso o a scopo di arricchimento culturale, civico e personale al di là del vantaggio economico è sempre stato possibile all'interno dell'università, è sempre esistito in una qualche misura; ma, certo, non è su di esso che ha battuto l'accento negli ultimi decenni.
Al giorno d'oggi, la gente comincia a entrare nell'università perché ha l'agio di farlo: non soltanto per accrescere le proprie opportunità professionali, ma per migliorare la qualità della propria vita. Esiste invero la possibilità che l'apprendimento per se stesso - storicamente appannaggio dell'aristocrazia, di cui alcuni membri sceglievano la via degli studi non per bisogno ma per il proprio piacere - diventi una scelta popolare per evitare l'ozio e la noia. Una simile tendenza, associata alle nuove possibilità di accesso all'apprendimento consentite dalla tecnologia delle comunicazioni, può creare un nuovo pubblico per l'università. A parte l'apprendimento permanente a scopo di perfezionamento professionale, potrà esserci sempre più un apprendimento permanente volto a intensificare il godimento del tempo libero. La gente ricercherà gli strumenti offerti dall'università non per conseguire diplomi, ma per arricchire il proprio tempo libero. Considerando che una nuova industria si è già creata per favorire il dispendio di energia fisica da parte di uomini e donne, diventerà forse l'università parte di un'industria volta a favorire il dispendio di energia mentale? In paesi come gli Stati Uniti è precisamente questa l'evoluzione che si va delineando. L'università non diventerà forse un fattore di intrattenimento, ma può ben darsi che, nel suo ruolo di insegnamento, debba affrontare un nuovo pubblico alla ricerca di stimoli, più che di preparazione professionale, e dell'apprendimento per se stesso più che dei vantaggi economici dell'apprendimento.
Terminando con simili riflessioni, questa discussione porta a concludere che l'università del nostro secolo è da un lato immensamente diversa rispetto alle precedenti fasi della sua storia e, dall'altro, che è tuttora in via di rapida evoluzione verso un futuro non ancora delineabile. Sia nel suo concetto sia nelle sue strutture istituzionali, l'università odierna non ha ancora padroneggiato le forze che hanno prodotto la sua trasformazione. I suoi problemi attuali sono gravi, e alcuni sembrano per il momento senza sbocco. Ma la condizione delle idee e delle istituzioni umane non è mai pienamente afferrabile con un'istantanea; perciò questa discussione ha tentato di snodarsi piuttosto come un film, sebbene un film senza una conclusione. I problemi attuali dell'università saranno avviati a soluzione in un futuro diverso dal presente, un futuro con potenzialità e tendenze - già visibili - che offriranno nuove e immense opportunità. Il ruolo dell'università nella società è mutato nel XX secolo e, man mano che il secolo volge al termine e il prossimo s'annuncia, questo ruolo è evidentemente destinato a mutare ancora, e probabilmente in misura più radicale. Ciò che appare comunque dimostrato è che la società ha bisogno dell'università, anzi, non solo ne ha ‛ancora' bisogno, ma ne ha bisogno più che in passato, come è anche dimostrato che l'università ha una straordinaria capacità di adattarsi al mutamento. L'università è dunque - nel suo concetto come nelle sue strutture istituzionali - più resistente di quanto non sia fragile; più flessibile di quanto non sia tradizionale; più mutevole di quanto non sia stabile; e, infine, più arricchita dalle sue prospettive future di quanto non sia impoverita dai suoi attuali problemi.
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