universo (sost.)
L'u. dantesco si configura, nelle sue linee generali, secondo uno schema che assimila originalmente le dottrine aristoteliche e neoplatoniche, in particolare il neoplatonismo procliano (conosciuto in massima parte nel Medioevo attraverso gli scritti areopagitici e il Liber de Causis) e quello arabo di estrazione soprattutto avicenniana.
Per quanto riguarda l'u. aristotelico, esso è costituito da una gerarchia di realtà, che sono tutte, a gradi diversi, dei composti di materia e forma. Ogni realtà serve da substrato e da grado alla realtà superiore, che la sorpassa per il suo atto proprio. Così ogni forma sostanziale trova nella materia che le è esteriore la condizione della sua realizzazione, e nella forma superiore la ragion d'essere e il principio d'intelligibilità. La forma assolutamente pura, alla quale si arriva gradualmente per eliminazione progressiva dell'elemento materiale e della potenza, non ha bisogno di una materia preesistente per realizzarsi: essa ha come condizione soltanto sé stessa, è la realtà per eccellenza, che dà a tutti gli altri esseri l'esistenza e l'intelligibilità, è Dio, causa formale e intelligibile, che contiene in sé tutti gli altri intelligibili. Esso è inoltre causa finale, sommo Bene, attrazione universale, oggetto ultimo dell'amore e del desiderio, poiché tutti gli esseri aspirano nelle loro attività a imitare la vita eterna e perfetta che è Dio stesso. Dio inoltre, come atto puro è anche il Motore primo, eterno, immobile, che muove immediatamente, in quanto causa efficiente, la sfera delle Stelle fisse, imprimendole un movimento uniforme, continuo ed eterno. Le altre sfere a contatto tra di loro, sia direttamente, sia attraverso le sfere intermediarie, sono animate da un movimento che è anch'esso eterno e continuo, ma che tuttavia non è più uniforme, a causa del numero crescente d'intermediari che le separano dal primo Motore. Così di grado in grado ha luogo la degradazione del movimento fino alla sfera del mondo sublunare, nella quale la rivoluzione circolare lascia il posto alle trasformazioni dei quattro elementi e ai movimenti degli esseri animati e dell'uomo.
Semplificato al massimo, l'u. aristotelico-tolemaico si presenta come una sfera finita e perfetta suddivisa in due zone, delle quali la prima è formata dai corpi terrestri, costituiti dai quattro elementi primordiali (fuoco, aria, acqua, terra, Gener. II 3-8), aventi ognuno un posto determinato intorno al globo terrestre (Meteor. II 2, 354b 23-25) e animati da un movimento rettilineo: la terra e l'acqua tendono naturalmente verso il basso, mentre l'aria e il fuoco tendono verso l'alto. Oltre a questi movimenti propri, gli elementi, in base alla posizione che occupano nell'u., subiscono, soprattutto a opera dei corpi celesti, altri movimenti: così ad esempio il fuoco si muove anche circolarmente nella sua sfera, perché mosso dalla sfera celeste superiore ad esso, il cui moto naturale è appunto circolare. La seconda zona, costituita dai corpi celesti, è formata da un quinto elemento materiale, l'etere, di natura diversa da quella dei quattro elementi, poiché eterno, ingenerato, incorruttibile (Coel. I 3, 269b 12-14). Il movimento dei corpi celesti è circolare (cioè il più perfetto, in quanto non ha principio né fine ed è in sé compiuto), poiché è l'unico confacente alla loro essenza che non è soggetta né a generazione, né a corruzione, né ad alterazione, né a diminuzione, né ad aumento. Il complesso dei cieli è formato di più sfere cave e concentriche, contenute le une nelle altre e contigue le une alle altre (Coel, II 4, 287a 3-11) e in cui sono incastonati i vari pianeti o ‛ stelle erranti '. Esse sono: la sfera della Luna, quella di Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e, infine, la sfera delle Stelle fisse, formata dagli astri più lontani dalla Terra la cui posizione reciproca - diversamente dai pianeti - rimane invariabile e fissa e che è chiamata da Aristotele Primo Cielo o Primo Mobile, mosso direttamente dal primo Motore immobile (Metaph. XII 7), mentre le altre sfere sono mosse da altri motori (cap. 8). In seguito alla scoperta della precessione degli equinozi, dovuta a Ipparco di Bitinia, Tolomeo, per giustificare il lento moto retrogrado delle Stelle fisse, attribuì alla sfera delle Stelle fisse un moto inverso a quello diurno, e introdusse un nono cielo senza astri, in maniera che il moto risultante da quello impresso da tale cielo al cielo delle Stelle fisse e dal moto proprio di questo ultimo cielo rendesse ragione sia del moto diurno sia della precessione degli equinozi. Il nono cielo introdotto da Tolomeo assume così il ruolo di Primo Mobile, ruolo che conserva presso D., dal quale è anche chiamato cielo Cristallino. Per quanto concerne il rapporto tra il Primo Motore (che agisce direttamente sul Primo Mobile) e i motori delle altre sfere, problema questo discusso dalla maggior parte dei commentatori e aperto a soluzioni divergenti in base agli stessi testi aristotelici, è da rilevare che Aristotele concepisce i motori come formanti una gerarchia, poiché " se ci sono più movimenti circolari, devono esserci più cause di essi, ma esse tutte devono in qualche modo dipendere da un solo principio " (Gener. II 10, 377a 20 ss.) e " che i motori siano dunque delle sostanze e che uno di essi sia il primo, l'altro il secondo... questo è chiaro " (Metaph. XII 8, 1073b 1-3).
In parte tale concezione si trova in D., la cui dottrina dell'u. si struttura anche sullo schema neoplatonico della deduzione della molteplicità dall'uno, soprattutto nella formulazione proposta da Avicenna e dall'autore del De Causis. Avicenna concepisce la produzione del mondo da parte di Dio come una successione necessaria che si realizza attraverso una serie gerarchica di esseri tutti dipendenti dall'essere supremo di Dio. Dio, causa prima, produce il primo causato, atto riflesso dell'essenza divina, cioè la prima Intelligenza necessaria in virtù della sua Causa. Questa prima Intelligenza, pensando in primo luogo Dio, genera la seconda Intelligenza separata; pensando sé stessa come necessaria per la sua causa, genera l'anima della sfera celeste e, infine, pensando sé stessa come possibile, produce il corpo della sfera celeste. Ugualmente procede la seconda Intelligenza, e così di grado in grado fino all'ultima Intelligenza, dalla quale procede l'anima della sfera più bassa, nonché l'Intelligenza che presiede al mondo della generazione e della corruzione, chiamata dal filosofo dator formarum, appunto in quanto la sua funzione consiste nell'irraggiare le forme intelligibili che, imprimendosi nella materia, generano gli esseri individuali.
L'u. si configura perciò secondo una gerarchia di sfere, animate ciascuna da un principio vitale e mosse da altrettante Intelligenze separate, di cui la superiore è causa dell'inferiore. In base alla distanza dalla Causa prima, varia sia la perfezione delle Intelligenze motrici, sia quella delle sfere stesse. Tale dottrina, proprio per il suo rigoroso presupposto emanantistico, non poteva essere accettata integralmente dagli scolastici, assertori al contrario della creazione ex nihilo.
Più accettabile, secondo il Nardi, la concezione dell'autore del De Causis, il quale, " pur mantenendo la gerarchica derivazione degli esseri dall'Uno, mediante un primum causatum, detto anche creatum primum riteneva che le cause seconde non agissero se non in virtù della causa prima, onde sembrerebbe che questa sola fosse veramente creatrice " (Saggi di filosofia dantesca, p. 17).
Per quanto riguarda D., è da rilevare che se egli da un lato accetta lo schema generale del neoplatonismo come gerarchica disposizione di esseri, dall'altro se ne distacca con la sua originale concezione riguardante l'azione creatrice di Dio, che immediatamente ha creato soltanto l'atto puro o forma pura, cioè le Intelligenze separate, la pura potenza o materia informe, cioè il substrato comune delle cose generabili e corruttibili (mentre la loro forma è prodotta dalla virtù informante dei cieli), e il composto incorruttibile di materia e forma, ossia le sfere celesti (Pd VII 130-138, XXIX 22-36).
Creazione dell'Universo. - Opera della divina intelligenza e dell'eterno amore, l'u. fu creato dal Padre nel Figlio tramite lo Spirito Santo. Per D. la creazione dell'u., in quanto esplicazione di potenza, è distinto attributo del Padre, ma si fa ordine e provvidenza nel Figlio, dal quale attinge le idee archetipe in un eterno atto di amore, lo Spirito Santo (Pd X 1-6). Dio tuttavia, nell'infinità dei suoi attributi, non poté imprimere a tutti gli esseri costituenti l'u. il suo proprio ‛ valore ', cioè la sua potenza creativa, operante secondo le norme del Verbo, senza che il suo Verbo restasse infinitamente superiore (non poté suo valor sì fare impresso / in tutto l'universo, che 'l suo verbo / non rimanesse in infinito eccesso, XIX 44), cosicché l'u., nella sua totalità, è solo un vestigium quoddam della bontà divina: cum totum universum nichil aliud sit quam vestigium quoddam divinae bonitatis (Mn I VIII 2). È un vestigium poiché le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l'universo a Dio fa simigliante (Pd I 105, ma v. anche Mn I VI 1), quoddam poiché appunto nell'u. finito non si può realizzare totalmente e compiutamente l'infinità degli attributi divini. La dottrina della creazione, e l'esplicito uso di termini quali vestigium e simigliante, è espressione, in chiave poetica, della tradizionale teoria dell'esemplarismo di origine platonico-agostiniana, comunemente accettata ai tempi di D., secondo la quale le idee, cioè gli esemplari, forme aventi l'esistenza al di fuori delle cose stesse, si trovano nel Verbo tramite il quale Dio crea il mondo che, in quanto esemplato, resta sempre inferiore all'esemplare.
Tale teoria, com'è noto, è utilizzata anche da Tommaso per spiegare come la diversità delle cose finite possa preesistere nella semplicità divina, e forse D. può averla desunta, nelle sue linee generali, dall'Aquinate stesso. Secondo questo infatti (Sum. theol. I 44 4), " Respondeo dicendum quod Deus est prima causa exemplaris omnium rerum. Ad cuius evidentiam considerandum est quod ad productionem alicuius rei ideo necessarium est exemplar, ut effectus determinatam formam consequatur... manifestum est autem quod ea quae naturaliter fiunt determinatas formas consequuntur. Haec autem formarum determinatio oportet quod reducatur, sicut in primum principium, in divinam sapientiam, quae ordinem universi excogitavit, qui in rerum distinctione consistit. Et ideo oportet dicere quod in divina sapientia sunt rationes omnium rerum: quae supra diximus ideas, idest formas exemplares in mente divina existentes "; e più oltre (I 47 1): " Ad secundum dicendum quod ratio illa teneret de exemplato quod perfecte repraesentat exemplar, quod non multiplicatur nisi materialiter. Unde imago increata [scil. Verbum], quae est perfecta, est una tantum. Sed nulla creatura repraesentat perfecte exemplar primum, quod est divina essentia et ideo potest per multa repraesentari "; e ancora (Contra Gent. I 66, n. 544): " Deus cognoscit alia a se per suam essentiam in quantum est similitudo eorum quae ab eo procedunt... Sed cum essentia Dei sit infinitae perfectionis... quaelibet autem alia res habeat esse et perfectionem terminatam: impossibile est quod universitas rerum aliarum adaequet essentiae divinae perfectionis ".
Struttura dell'universo. - La luce interna di Dio, il Verbo, si propaga e diffonde nell'u. per mezzo di una luce intellettuale, il raggio divino, la gloria divina, sì che la gloria di colui che tutto move / per l'universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove (Pd I 2), e ‛ in omnibus partibus universi resplendet ', sed ita ut ‛ in aliqua parte magis, et in aliqua minus ' (Ep XIII 53).
Il significato di tali passi (per cui cfr. anche il discorso di Cv III VII 2 ss., ove si afferma che la divina bontade in tutte le cose discende, e... diversamente si riceve, secondo più e meno, da le cose riceventi... Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli... e altrimenti da l'anima umana... e altrimenti da li animali... e altrimenti da le piante, e altrimenti da le minere; e altrimenti da la terra), è spiegato nella stessa Ep XIII nella quale D., per dimostrare che la gloria di Dio risplende per tutto l'u., si serve di due argomenti: uno di ragione, dal quale deduce, in base alla distinzione tra essere avente l'esse per se (Dio causa di tutte le cose, più alto grado della gerarchia degli esseri) e l'essere avente l'esse ab alio (essere partecipato, tale è per eccellenza l'intima realtà dell'u.: Si ergo accipiatur ultimum in universo, non quodcunque, manifestum est quod id habet esse ab aliquo; et illud a quo habet, a se vel ab aliquo habet, Ep XIII 55) che tutto ciò che è, riceve, mediate vel immediate, l'essere da una causa prima, cioè da Dio; un altro di autorità, costituito da una citazione del Liber de Causis (§ 57). Il raggio divino dunque ‛ per universum penetrat et resplendet ': penetrat, quantum ad essentiam; resplendet, quantum ad esse (§ 64).
Come afferma il Nardi (Saggi di filosofia dantesca, p. 103), D., " dopo aver dimostrato che la realtà o esistenza effettiva delle cose dipende, mediatamente o immediatamente, da una causa prima, parla ora [a proposito di penetrat] della loro causalità ideale, ed afferma che tutto quello che viene all'esistenza è causato, mediatamente o immediatamente, da un'intelligenza. La forma o essenza delle cose, dalla quale dipende poi la loro capacità ad agire, prima di essere una realtà effettiva è un'idea, un " essemplo intenzionale " che esiste in una mente, e su questa idea essa è modellata nel venire all'esistenza. Ora, fra la Mente divina e gli esseri del mondo inferiore sono frapposte da Dante le intelligenze motrici dei cieli. Le intelligenze inferiori sono quasi specchi che riflettono la luce dell'intelligenze superiori su quello che è sotto di loro ". Che la gloria divina penetri e risplenda in una parte più e meno altrove e che la luce divina è penetrante / per l'universo secondo ch'è degno, / sì che nulla le puote essere ostante (Pd XXXI 23), per l'autore habet veritatem in manifesto; quoniam videmus in aliquo excellentiori gradu essentiam aliquam, aliquam vero in inferiori; ut patet de coelo et elementis, quorum quidem illud incorruptibile, illa vero corruptibilia sunt (Ep XIII 65).
La luce intellettuale dunque, splendore divino che rende visibile il creatore alla creatura (Pd XXX 100-102), è l'Empireo (v.) nel quale Dio si rivela nella sua prima e più alta opera, è il cielo uniforme e immobile che più riceve della luce divina (Ep XIII 69, Pd I 4), che contiene tutte le cose (sed in naturali situ totius universi, primum coelum est omnia continens, Ep XIII 70), ed esercita la sua influenza sul Primo Mobile, il cui moto deriva appunto dall'attrazione che il decimo cielo esercita sul cielo Cristallino. Questo a sua volta, uniforme, e mosso di moto unico, velocissimo e semplicissimo, ha nella sua virtù l'esser di tutto suo contento, e rapisce nel suo movimento tutto il resto dell'u.: Dunque costui che tutto quanto rape / l'altro universo seco, corrisponde / al cerchio che più ama e che più sape (Pd XXVIIII 71), ed è origine della causalità esercitata dalle sfere inferiori concentriche ad esso, sì che esso, come Morale Filosofia... ordina a noi l'altre scienze... ordina col suo movimento la cotidiana revoluzione di tutti li altri, per la quale ogni die tutti quelli ricevono [e mandano] qua giù la vertude di tutte le loro parti. Che se la revoluzione di questo non ordinasse ciò, poco di loro vertude qua giù verrebbe o di loro vista... ma tutto l'universo sarebbe disordinato, e lo movimento de li altri sarebbe indarno (Cv II XIV 14-17). Il paragone tra il Primo Mobile e la filosofia morale s'inserisce nel più vasto discorso riguardante la classificazione delle scienze corrispettiva alla gerarchia dei cieli. Secondo la concezione dantesca, ai sette pianeti corrispondono le sette scienze tradizionali del Trivio e del Quadrivio, al firmamento la fisica e la matematica, al Primo Mobile la morale (XIII 14). Per quanto riguarda l'analisi e il significato di tale tesi, e le interpretazioni divergenti proposte dal Gilson (D. et la philosophie, p. 107) e dal Nardi (Nel mondo di D., pp. 212-213), v. CIELO; fisica; metafisica; scienza.
Il cielo Stellato a sua volta, non più uniforme nella sua sostanza, poiché avente una diversità materiale di parti più o meno condensate, e contenente una molteplicità di principi formali quante sono le stelle, moltiplica e distingue l'influenza universale e indistinta del Primo Mobile, mentre le sfere inferiori, determinando e limitando sempre più queste influenze, le dispongono a lor fini e lor semenze (Pd II 120). L'ultima di queste sfere, quella della Luna, che agisce sulla materia creata immediatamente da Dio, possiede un principio formale intrinseco come virtù derivante dall'Intelligenza motrice dell'orbe ed è immagine ed esemplare attivo del molteplice generabile e corruttibile. All'ultimo posto di questa gerarchia discendente vi è la Terra al centro della quale siede Lucifero: ... onde nel cerchio minore, ov'è 'l punto / de l'universo in su che Dite siede (If XI 65), centro che coincide con il centro dell'intero u.: cum centrum terrae sit centrum universi (Quaestio 7). Così, per questa serie di esseri subordinati attraverso i quali l'inferiore agisce per l'influenza del superiore, la divina bontade in tutte le cose discende (Cv III VII 2). L'u., nella sua totalità, è dunque frutto del bene, questo bene che secondo l'assioma dionisiano e più generalmente neoplatonico (bonum est diffusivum sui) si estende a tutte le cose esistenti: " ad omnia existentia extendit bonitatem. Etenim sicut noster sol, non ratiocinans aut praeeligens, sed per ipsum esse, illuminat omnia, partecipare lumine ipsius secundum propriam rationem valentia, ita quidem et bonum, super solem, sicut super obscuram imaginem segregate archetypum, per ipsam essentiam omnibus existentibus proportionaliter immittit totius bonitatis radios. Propter ipsos substiterunt intelligibiles et intellectuales omnes et substantiae et virtutes et operationes " (De divinis nominibus IV 1, Patrol. Graec. III 693b).
L'effetto continuo di questo bene che si espande nelle nature determinando il loro essere, è ricevuto diversamente non solo da un livello all'altro dell'essere, ma anche da individuo a individuo. Questa capacità maggiore o minore di accoglienza del bene determina l'ordine dell'u. che nella visione metafisica di D. si realizza appunto attraverso una gerarchia di gradi la cui continuità è espressione della diffusione incessante del bene: E però che ne l'ordine intellettuale de l'universo si sale e discende per gradi quasi continui da la infima forma a l'altissima [e da l'altissima] a la infima (Cv III VII 6).
Tale teoria, della quale si è già sottolineata la matrice neoplatonica e in particolare dionisiana, trova il suo coronamento nella concezione dantesca dell'unità divina, che nella sua infinita sopraeccellenza compendia in sé, unificandole, tutte le cose che nell'u. sono moltiplicate e divise: Nel suo profondo vidi che s'interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l'universo si squaderna (Pd XXXIII 87). Ancora una volta è evidente il sottinteso riferimento a Dionigi, che infatti afferma: " Manet autem nihil minus illud [scil. bonum] unum in multiplicatione et unitum in processione et plenum in discretione, eo quod ab omnibus existentibus supersubstantialiter segregatum est et quod ab ipso unitive tota deducantur et quod non minoratur effusio non minorabilium ipsius distributionum " (De divinis nominibus II 11, Patrol. Graec. III 649 b-c).
Il termine u. occorre inoltre in Cv I III 3, III V 3, III Amor che ne la mente 72 (costei pensò chi mosse l'universo, ripreso in VIII 22 e XV 15), dove il richiamo alla definizione aristotelica corrente di Dio come motore immobile è evidente, e ancora in Mn I VII 1 e 2, III XV 2, in Quaestio 47 e 76, in If V 91, VII 18, XXXII 8 e in Pd XXVII 5. Per quanto riguarda Cv II XV 12 dico e affermo che la donna di cu' io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia, a parte la notazione riguardante l'origine pitagorica del nome ‛ filosofia ', comune ai tempi di D. (v. PITAGORA), importa rilevare la denominazione della filosofia chiamata figlia de lo Imperadore de lo universo. Essa è figlia di Cristo, Imperatore dell'u.: Ma noi semo di ciò ammaestrati da colui che venne da quello, da colui che le fece, da colui che le conserva, cioè da lo imperadore de l'universo, che è Cristo (Cv II V 2; cfr. Paul. I Corinth. 15-27, Coloss. 1, 12 ss. e anche Matt. 28, 18), poiché studia e contempla l'u. che ha origine dall'idea divina, cioè dal Verbo. Per quanto attiene la presenza del termine in Mn II VI 4, v. FORMA; NATURA; in If XII 41, v. EMPEDOCLE, e in Pd XXXIII 23, v. LACUNA.
Bibl. - B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944; J. de Tonquedec, Questions de Cosmologie et de Physique chez Aristote et Saint Thomas, Parigi 1950; B. Nardi, D. e Pietro d'Abano, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, 40-63; ID., Le citazioni dantesche del " Liber De Causis ", ibid., 81-110; ID., La dottrina dell'Empireo nella sua genesi storica e nel pensiero dantesco, ibid., 167-215; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1972.