Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Settecento il concetto di macchina tende a identificarsi sempre più con quello di “utensile” e la sempre maggior precisione richiesta dai componenti di macchine come gli orologi costringe al perfezionamento delle macchine usate per produrli. Le accademie scientifiche diventano il referente istituzionale per l’accertamento della pubblica utilità delle innovazioni industriali e sanciscono la nascita delle macchine della rivoluzione industriale.
La conoscenza delle arti
La nascita delle accademie delle scienze di Londra (1662) e di Parigi (1666) sancisce l’ingresso istituzionale della tecnologia come strumento di progresso. Le accademie diventano dunque il riferimento per gli accertamenti di “pubblica utilità” sulle innovazioni e le invenzioni industriali. Al tempo stesso, il processo di istituzionalizzazione garantisce il controllo da parte delle élite economiche e politiche della vivace realtà rappresentata da inventori e costruttori di strumenti, navigatori e tecnici agrari e minerari alla ricerca di fortuna e di accreditamento sociale. L’approvazione di una innovazione tecnica o di un procedimento industriale da parte di una Accademia nazionale costituisce spesso il preludio alla concessione di una patente per lo sfruttamento in esclusiva della scoperta stessa.
Nel 1735 Jean-Gaffin Gallon pubblica in sei volumi le descrizioni di tutte le Machines et inventions approuvées par l’Académie Royale des Sciences dépuis son établissement. Queste “macchine” sono il frutto di una politica attenta alla promozione dell’innovazione tecnologica e i “privilegi” accordati costituiscono un importante precedente nella storia dei brevetti industriali. Le 377 macchine presentate nei primi sei volumi, corredate di 432 tavole di disegni, sono lo specchio della nascente industria francese, attenta alle apparecchiature scientifiche e alle macchine più raffinate, ma anche desiderosa di risolvere i problemi della vita quotidiana per il benessere comune.
In questi volumi possiamo trovare le più famose macchine da calcolo, dall’abaque rhabdologique di Perrault alle machines arithmétiques di Lepine e di Pascal, ai diversi automi di Maillard. Accanto a esse ci sono metodi per la costruzione di carrozze, sistemi di chiuse, mulini, macchine per produrre carta, arti artificiali e persino strumenti per fare la punta alle penne d’oca.
Nel 1726 ha origine in Francia un curioso tentativo di avvicinare scienza e tecnica, ragione e lavoro. Il matematico Clairault, l’abate Nollet, fisico ed elettrologo, il musicologo Rameau, l’orologiaio Julien Le Roy, suo figlio Pierre, l’architetto Chevotet e altri artistes fondano una Societé des Arts per confrontare le loro particolari esperienze e “collaborare a un lavoro che sentivano comune”. L’idea massonica di creare un’enciclopedia delle scienze e delle arti – propugnata dal Ramsay sin dal 1737 – e i tentativi di tradurre in francese la Cyclopedia di Ephraim Chambers – concepiti da Sellius e Mills – sono tra i principali motivi che spingono il giovane Diderot a progettare uno studio sistematico delle arti e dei loro rapporti con la cultura del tempo.
Anche se l’operazione non ottiene i risultati previsti, gli enciclopedisti intendono documentare con verifiche dirette tutte le arti e i mestieri, in modo da raccogliere in un’unica opera tutto il sapere tecnico-scientifico del mondo occidentale.
Nel Discours di d’Alembert il richiamo di Bacon è forte ed esplicito: “In più punti abbiamo confessato che il debito principale per il nostro albero enciclopedico l’abbiamo col cancelliere Bacone”. E questo “debito” non si riferisce solo alla “divisione delle scienze” e al “sistema generale della conoscenza umana” (da cui sarà tratto il nuovo sistema figurato delle conoscenze), ma anche alla sua grande attenzione per i molteplici ruoli delle attività lavorative umane. La rivalutazione delle “arti meccaniche” e l’attenzione per l’uomo a un tempo faber e cogitanssono infatti alla base della moderna cultura delle macchine e del lavoro.
Accanto alle voci dei 21 tomi dell’ Encyclopédie, comprensivi di quattro Suppléments, 12 volumi del Recueil des planches sur les sciences, les arts libéraux et les arts méchaniques, anch’essi ripresi in più ondate editoriali di livraisons e suites. Il Recueil des planches viene annunciato nel 1759, per far fronte alla spaventosa concorrenza che le Descriptions des arts et métiers, sponsorizzate dall’Académie des Sciences, stanno conducendo contro l’opera di Diderot e D’Alembert.
Macchine per fare altre macchine
“Engine”, dal latino ingenium secondo la definizione riportata da Ephraim Chambers nella Cyclopedia (1728) “è una macchina o strumento complesso formato da elementi più semplici, come ruote, viti, leve, combinati assieme per sollevare, gettare o sostenere un peso, oppure per produrre altri considerevoli effetti per risparmiare tempo e forza”. Cinquant’anni più tardi Adam Smith non esita ad affermare che “è evidente a tutti quanto il lavoro venga abbreviato e facilitato dall’uso di macchine adatte”.
I trattati sul tornio di Charles Plumier (1701), di Hulot (1775), sino a quello di Bergeron (1816) segnano le tappe dell’evoluzione di una macchina che si trasforma da “ornamentale” a “utensile”, divenendo strumento indispensabile per il mécanicien. Se anche i sovrani la usano come un giocattolo per dilettarsi (famoso è il tornio à guillocher costruito da Mercklein nel 1780 per Luigi XVI), questa “macchina” permette di costruire con precisione orologi, strumenti scientifici e altre macchine.
I primi torni per filettare sono realizzati dall’inglese Jesse Ramsden intorno al 1770 ed è alla metà del XVIII secolo che appaiono i primi tentativi di razionalizzare i processi produttivi e le macchine utensili. Anche la produzione meccanica si adegua quindi alle nuove macchine. Il signor Nicolas Focq, “entrepreneur des machines à feu de Charleroy et de Condé”, nel 1751 propone di sostituire i corpi delle pompe utilizzati nella macchina di Marly – costruita per Luigi XIV nel 1686 – al fine di pompare l’acqua della Senna per le fontane di Versailles. I cilindri, costruiti in metallo colato, vengono allora sostituiti con altri in ferro battuto, più precisi e resistenti.
La precisione meccanica richiesta dai componenti per gli orologi costringe al perfezionamento delle macchine utensili. Ferdinand Berthoud, “horloger mécanicien du Roi et de la Marine”, oltre che abilissimo progettista e costruttore di orologi, è anche grande inventore di macchine utensili finalizzate alla propria attività. Tra le sue invenzioni appaiono “una macchina per modellare le lime per la lavorazione dei denti delle ruote, una macchina per smussare i pignoni e le ruote dentate e anche una macchina per lavorare i piani inclinati delle ruote a scappamento”.
La gnomonica, arte delle meridiane, diventa ormai una scienza del passato: è difficile scrivere qualcosa di nuovo sull’arte di tracciare gli orologi solari. Con la rivoluzione scientifica e con il forte impulso impresso alla meccanica fine, gli orologi a pendolo diventano veri beni di consumo e anche l’editoria si adegua ai progressi tecnologici. Così le Récréations mathématiques di Jacques Ozanam, nella loro terza edizione (Paris, 1735), appaiono “avec un traité des horloges élémentaires”; nel 1741 Thiout pubblica il suo Traité d’horlogerie ed è del 1763 l’Essai sur l’horlogerie dans lequel on traite de cet art relativement à l’usage civil, à l’astronomie et à la navigation, en établissant des principes confirmés par l’expérience di Ferdinand Berthoud. Nel 1775 Lepaute scrive poi un Traité d’horlogerie contenant tout ce qui est nécessaire pour bien connaître et pour régler les pendules et les montres. Le innovazioni tecnologiche dello scappamento a molla, del bilanciere e della conoide sono consolidate: l’orologio diventa sempre più piccolo e sempre più preciso.
Ancora nel Settecento Henry Cort, fornitore dell’ammiragliato inglese, mette a punto nuovi laminatoi che sostituiscono gli antiquati magli nelle operazioni di forgiatura.
James Watt costruisce per le ferriere di John Wilkinson un maglio a vapore pesante 120 libbre e capace di 150 colpi al minuto. Nel 1776 Boulton ottiene da Wilkinson una macchina capace di trapanare un cilindro di 1,27 metri di diametro, mantenendo il gioco tra lo stantuffo e la canna inferiore allo spessore di una moneta da uno scellino. Vengono inoltre inventate macchine speciali per la produzione di viti e chiodi.
L’uomo-macchina
Nel 1724, a soli quindici anni, Jacques de Vaucanson costruisce una navicella meccanica, ma è solo un’avvisaglia. L’anno seguente, novizio presso i Minimi di Lione, costruisce alcuni automi che fanno scandalo. Ritornato allo stato laicale nel 1727, Vaucanson comincia un’avventurosa peregrinazione attraverso la Francia. Inseguendo il progetto di costruire un “androide”, egli frequenta corsi di anatomia e medicina: nel 1732 costruisce il suo primo automa dalle fattezze umane. Negli stessi anni fabbrica anche un cigno artificiale, che sarà presentato all’Académie des Sciences dal meccanico Maillard, ma il primo androide che lo consacra alla fama è il suonatore di flauto: un’ anatomie mouvante, per un verso prodigio di meccanica orologiaia, per un’altra macchina da baraccone.
All’androide segue l’anatra meccanica: “un canard artificiel en cuivre doré qui bois, mange, coüasse, barbote dans l’eau et fait la digestion comme un canard vivant”.
L’interesse manifestato da Vaucanson per la meccanica e al contempo per la medicina si allinea alle più progressiste idee del Settecento ed è finalizzato a costruire automi in grado di riprodurre i movimenti e le funzioni degli esseri viventi. È proprio dello spirito ottimisticamente illuministico la progettazione di un uomo artificiale e la riduzione di tutte le funzioni vitali alle leggi della fisica.
Julien Offray de La Mettrie pubblica a Leida L’uomo-macchina, ma il volume viene pubblicamente bruciato per mano del boia nel 1748.
Julien Offray de La Mettrie
Movimenti regolari dei muscoli e del corpo
L’uomo-macchina
Ecco raccolti più fatti di quanti ne occorrano per provare in modo incontestabile che ogni piccola fibra o parte dei corpi organici si muove per opera di un principio che le è proprio e la cui azione non dipende dai nervi come i movimenti volontari, dal momento che i movimenti in questione si attuano senza che le parti che li manifestano abbiano alcun rapporto con la circolazione. Ora, se questa forza si fa notare fino nei frammenti di fibre, il cuore, che è composto di fibre singolarmente intrecciate, deve avere la stessa proprietà. La storia di Bacone non era necessaria per persuadermene; mi era facile giudicarne dalla perfetta analogia fra la struttura del cuore dell’uomo e quella degli animali, e dalla massa stessa del primo, nella quale questo movimento non si nasconde agli occhi se non perché vi è soffocato; e finalmente perché nei cadaveri tutto è freddo e afflosciato. Se le dissezioni si facessero su criminali suppliziati i cui corpi fossero ancora caldi si vedrebbero nei loro cuori gli stessi movimenti che si osservano nei muscoli del viso delle persone decapitate.
Il principio motore dei corpi interi oppure delle parti tagliate a pezzi è tale da produrre movimenti non sregolati, come si è creduto, ma regolarissimi; e ciò tanto negli animali caldi e perfetti quanto in quelli freddi e imperfetti. Non resta dunque ai nostri avversari alcuna risorsa, se non quella di negare migliaia di fatti che ognuno può facilmente verificare.
Se ora mi si domanda quale sia la sede di questa forza innata nei nostri corpi, rispondo che essa evidentissimamente, risiede in ciò che gli Antichi hanno chiamato il parenchyma, cioè nella sostanza propria delle parti, prescindendo dalle vene, dalle arterie, dai nervi, insomma dall’organizzazione di tutto il corpo; e che di conseguenza ogni parte contiene in sé delle molle più o meno vivaci, secondo il bisogno che ne hanno le parti stesse.
J. Offray de La Mettrie, L’uomo-macchina e altri scritti, a cura di G. Preti, Milano, Feltrinelli, 1973
Seguono l’esempio di Jacques Vaucanson Friedrich von Knaus, gli svizzeri Jaquet-Droz, padre e figlio, l’abate Mical e il barone von Kempelen. Gli automi, o meglio le bambole meccaniche di Pierre e Henri-Louis Jaquet-Droz, orologiai e meccanici – ancora oggi ammirabili nel Musée d’Art et d’Histoire di Neuchâtel – sono giocattoli che si muovono, danzano, scrivono al suono di dolci melodie di carillon: uno scrivano (1770) che, con penna e inchiostro, riproduce diverse frasi su di un foglio di carta, un disegnatore (1772) e una musicista (1773). Ma gli automi dei Droz trovano origine nell’abile tecnica dei mastri orologiai, piuttosto che nel mito di riprodurre artificialmente la vita.
Il barone Wolfgang von Kempelen, famoso per aver perfezionato uno strumento in grado di riprodurre la voce umana, passa alla storia per il “Turco, giocatore di scacchi”: una delle più famose truffe in nome della tecnica. L’automa da lui costruito è un uomo, vestito alla foggia di un turco, seduto davanti a un tavolo, su cui è collocata una scacchiera. Alle mosse dell’avversario umano, l’automa risponde in maniera sorprendente, vincendo quasi sempre. La messinscena dei “riti preparatori” e di ogni mossa serve per creare un’atmosfera di mistero attorno alla macchina. Ne fanno diretta esperienza Goethe, Paolo di Russia, Giuseppe II d’Austria, e persino Napoleone Bonaparte che, vinto, infierisce sulla macchina. Edgard Allan Poe, con una lucidissima analisi, ne svelerà i segreti, scoprendo la presenza di un operatore umano, abilmente dissimulato tra ruote e congegni.
La potenza del fuoco
Nel 1698 Savery mette a punto una macchina a vapore, senza stantuffo o elementi mobili, che permette di pompare acqua da un livello inferiore a uno superiore, creando una decompressione per raffreddamento del vapore all’interno di una camera stagna. La macchina, anche se richiede la sapiente opera di un addetto all’azionamento di tre valvole, viene subito impiegata nelle operazioni di drenaggio dell’acqua nelle gallerie delle miniere. Nella seconda metà del Seicento, le ricerche sul vuoto di Otto von Guericke, Robert Boyle, Robert Hooke, Christiaan Huygens e Denis Papin cominciano a dare risultati nelle applicazioni tecnologiche.
Nel 1702 Thomas Newcomen costruisce una tra le prime macchine a vapore a stantuffo. Anche questa si diffonde soprattutto nelle miniere della Cornovaglia che, grazie alle nuove tecnologie delle machines à feu, ricevono un significativo incremento produttivo. Nel 1709 a Coalbrookdale, nella contea inglese di Shropshire, Adam Darby riesce a fondere il ferro per mezzo del coke, prodotto ottenuto dalla distillazione del carbone fossile. In questo modo le leghe ferro-carbonio risultano più pure e non si contaminano con i composti di fosforo e zolfo presenti nel combustibile fossile. La richiesta di produzione di ghisa cresce, mentre si inizia a sentire la crisi indotta dalla mancanza di legname. Nel 1720 la sola Inghilterra produce annualmente 20-25 mila tonnellate di ghisa.
Sono anni di grande interesse per la metallurgia e nella stessa Francia, che non ha ancora avvertito la rivoluzione industriale, René-Antoine Ferchault de Réaumur – pur non essendo uno specialista di metallurgia – presenta una serie di memorie all’Académie des Sciences di Parigisulla produzione della ghisa e dell’acciaio (1720-1722).
Devono passare venti anni prima che Benjamin Huntsman metta a punto un nuovo sistema di produzione dell’acciaio fuso per mezzo del calore intenso, prodotto dalla combustione del coke con insufflazione forzata di aria.
È del 1747 il primo riferimento scritto all’impiego del coke nella fabbricazione della ghisa, ma gli altiforni a carbone di legna lasciano difficilmente il posto a nuove tecnologie. Nel 1760 in Inghilterra sono in funzione solo 17 altiforni a coke, altri 14 si costruiranno nel decennio seguente. Nel 1770 l’altoforno a coke delle ferriere di Carron viene dotato di un mantice a vapore e cinque anni più tardi, in Scozia, si costruisce l’ultima fornace a carbone di legna.
Già nel 1765 Smeaton, che comprende le enormi potenzialità della macchina di Newcomen, cerca di eliminare il bilanciere per svincolare questa macchina dalla esclusiva produzione di moto alterno, adatto solo a una pompa a stantuffo. John Wilkinson costruisce, poi, un’alesatrice in grado di lavorare internamente le canne dei cilindri. Anche con l’impiego di questa macchina Boulton e Watt mettono a punto un’efficiente macchina a vapore, in grado di porre in rotazione una puleggia. E proprio nelle officine di John Wilkinson viene installata la prima macchina a vapore per usi industriali (e non solo per pompaggio di acqua).
James Watt, “mathematical instrument maker to the university” a Glasgow, già famoso per la macchina a vapore a doppio effetto che ha inventato e brevettato, sviluppa una ricca serie di dispositivi atti ad aumentarne l’efficienza: i bilancieri, l’indicatore di pressione nel cilindro, sistemi a camme e diversi manovellismi.
Nel 1776 a Coalbrookdale la ghisa viene affinata in forni a riverbero e nel 1782 John Wilkinson introduce nella sua industria un maglio a vapore in grado di battere 150 colpi al minuto. Nel 1783 Henry Cort brevetta il puddelling e mette a punto le macchine per la laminazione dei lingotti di acciaio prodotti. Con il laminatoio di Cort, azionato a vapore, si ottiene così una produttività quindici volte superiore a quella dei tradizionali metodi al maglio. E nel 1785 Richard Crawshay introduce il metodo di Cort nelle sue fabbriche del Galles meridionale. Quattro anni dopo il brevetto di Cort cade in prescrizione.
Nel 1784 a Londra viene costruito un mulino con alberi, supporti e ruote dentate interamente in ghisa e due anni più tardi entra in funzione a Londra il primo mulino azionato a vapore, l’ Albion, che viene distrutto da un incendio nel 1792.
Per produrre una tonnellata di ghisa nel 1788 sono necessarie soltanto sette tonnellate di carbone (scenderanno a cinque già nel 1810).
Nel 1790 gli altiforni a coke in Inghilterra ammontano a 81, mentre i forni a legna scendono a 25. Oltre l’85 percento della produzione di ghisa si concentra nelle regioni dei bacini carboniferi. In Francia Augustin de Betancourt y Molina costruisce il primo motore a vapore con pistone a doppio effetto.
Nel 1791 la Carron Company sperimenta il puddelling, ma trova che esso, nonostante produca un acciaio di buona qualità, presenti un costo ancora troppo elevato.
Più leggero dell’aria
L’idea di librare in cielo un corpo “più leggero dell’aria” perché di minore densità è già presente nel Prodromo all’arte maestra (1670) dell’abate Lana Terzi. I palloni in carta di riso riempiti di aria calda non sono certo una novità nel Settecento, ma fino ad allora non riescono a sollevare che se stessi.
Solamente il 3 giugno 1783 ad Annonay, Joseph-Michel e Jacques-Étienne Montgolfier riescono a far volare una mongolfiera del volume di 616 m³. Un secondo esperimento con un pallone del volume di 28 m³ ripieno di idrogeno, la Charlière, viene effettuato il 17 agosto dello stesso anno dal fisico Jacques Alexandre César Charles e dai fratelli Robert. Finalmente il 21 novembre lo storico Jean Pilâtre de Rozier e il marchese d’Arlandes riescono a effettuare un viaggio della durata di 26 minuti, partendo dal Bois de Boulogne. Il primo dicembre dello stesso anno Charles e i fratelli Robert ripetono l’esperimento nel giardino delle Tuileries a Parigi e l’anno seguente Vincenzo Monti canta: “L’igneo terribil aere,/ che dentro il suol profondo/ pasce i tremuoti e i cardini fa vacillar del mondo” e dalla navicella “come larve appaiono, città, foreste e fiumi. Certo la vista orribile/ l’anime agghiacciar dovria”. In brevissimo tempo tutta l’Europa ne è informata: l’Accademia delle scienze di Torino ne riceve personalmente notizia da Condorcet. Il primo aeronavigatore italiano Paolo Andreani, che si libra in aria a Moncucco, presso Milano , il 13 marzo 1784; proprio a Milano, inoltre, viene pubblicato un “Giornale aerostatico”.
L’11 dicembre 1783 a Torino, Roberto de Lamanon, Carlo Antonio Galleani-Napione di Cocconato e Giuseppe Amedeo Corte di Bonvicino eseguono il primo esperimento aerostatico con un piccolo pallone, senza alcun equipaggio, che rimane in aria alla vista degli spettatori per 5 minuti e 54 secondi. A Milano volano invece i fratelli Gerli. Nel 1784 il veneziano Vincenzo Lonardi si libra nel cielo di Londra con un pallone dotato di un sistema di dirigibilità a pale: l’8 luglio del 1788 ripete l’esperimento a Roma e il 15 settembre dell’anno seguente a Napoli.
Il meccanico di Rouen, Blanchard, sorvola la Manica il 7 gennaio 1785. E per la prima volta nella battaglia di Fleurus (24 giugno 1794) due ufficiali francesi osservano il nemico dalla navicella del pallone frenato “Entreprenant”.
La rivoluzione silenziosa
Il “moulin de Piémont à strafins propre à organsiner les soies”, che compare nell’ Encyclopédie, è un punto fermo nell’evoluzione del torcitoio da seta e ne mantiene la struttura circolare, imposta da esigenze pratiche quando viene fatto girare da un operatore. Giunto in Piemonte dal Bolognese alla fine del XVII secolo, è la macchina che rende ricca questa regione subalpina, grazie alla produzione del filato da ordito detto organzino.
Famoso, oltre che per i suoi automi, per il tornio a lunetta mobile e a struttura metallica, Jacques Vaucanson è anche il progettista di un filatoio da seta destinato a rivoluzionare la tecnologia serica. Già nel 1749, Vaucanson presenta all’Académie Royale des Sciences de Paris una memoria su una macchina per la trattura della seta: “più complessa di quella piemontese” e dotata di un doppio sistema di incrociatura, essa consente di riunire i fili provenienti dai vari bozzoli “intimamente in un solo filato, più tenace, più tondo e più secco”.
Il torcitoio per organzinare la seta di Vaucanson è una macchina complessa e, rispetto alle macchine che lo precedono, rappresenta un salto di qualità nella struttura dei meccanismi. I rocchetti sono allineati su due file parallele e i fusi di ciascun ordine sono messi in movimento da una catena metallica senza fine che ingrana in una piccola ruota dentata, collegata alla base del fuso.
Inoltre, a ogni movimento del “va e vieni” le bobine su cui si avvolge il filo diminuiscono la loro velocità in modo da tener conto del loro aumento di diametro. Questo complesso movimento è ottenuto grazie a un’ingegnosa trasmissione, per mezzo di una molla elicoidale. La struttura del moulin è leggera e priva di grandi componenti in legno, presenti invece nel torcitoio a pianta cilindrica di origine bolognese-piemontese. Ma gli effetti innovativi di questa macchina si sentiranno soltanto nel XIX secolo.
Se la seta trova nel Settecento il compimento del primo e più importante capitolo della sua storia tecnologica, per la filatura e la tessitura delle altre fibre vegetali e animali occorrono invece le macchine della rivoluzione industriale.
Nel 1730 John Kay introduce sul telaio manuale la spola volante; questo dispositivo, lanciato da due cassetti posti ai lati dell’ordito, lo attraversa in velocità senza richiedere il passaggio manuale da parte del tessitore e consente, quindi, di raddoppiare la produttività. Il brevetto per questa invenzione è ottenuto nel 1733, ma la meccanizzazione dell’industria tessile è lenta. Nel 1740 si ha notizia che nella sua fabbrica Paul fila a macchina il cotone; nel 1748 egli brevetta poi la cardatrice meccanica.
Solo nel 1750, dopo molte reticenze, i tessitori di cotone adottano la spola volante e soltanto dieci anni più tardi la cardatrice meccanica viene introdotta diffusamente nel Lancashire. Nel 1764 James Hargreaves costruisce il primo prototipo di jenny a otto fusi che brevetta nel 1770: il disegno la descrive con 16 fusi. Nello Yorkshire compaiono le prime cardatrici a motore e Sir Richard Arkwright brevetta un filatoio idraulico per l’industria cotoniera. Nel 1779 Samuel Crompton unifica poi i principi della jenny e del filatoio idraulico in un filatoio intermittente (mule jenny). Le jennies intanto si diffondono velocemente e nel 1784 si ha notizia di modelli a 24 fusi. Quando scade il brevetto del filatoio di Arkwright (1785), anche questa macchina si diffonde rapidamente. Così per la macchina a vapore di Boulton e Watt, impiegata per la prima volta in uno stabilimento di filatura. Alle soglie del XIX secolo le jennies in uso nelle fabbriche conteranno sino a 120 fusi.
Perché la meccanizzazione si trasferisca alla tessitura si deve attendere il 1787: Edmund Cartwright inventa il primo – imperfetto – telaio meccanico, ma lo stabilimento che viene costruito a Doncaster fallisce due anni più tardi. Nel 1791 in un’industria di Manchester il telaio meccanico viene introdotto in via sperimentale; lo stabilimento viene però incendiato dai lavoratori che si oppongono alla nuova macchina.
Così il telaio Jacquard a schede perforate, ma a movimentazione manuale, è una macchina che troverà la sua versione definitiva soltanto nel 1805.