Urbanistica e architettura
di Marco Bussagli
Urbanistica e architettura
In tutte le epoche e in tutte le culture la forma con cui sono concepiti abitazioni, templi, città e villaggi sottende motivazioni di carattere simbolico, che, per l'urbanistica, riguardano la volontà di distribuzione planimetrica della città o del villaggio secondo un modello antropomorfico e, per l'architettura, rimandano a forme di analogie strutturali tra elementi architettonici e corpo umano.
L'irrinunciabile propensione dell'uomo a essere un 'animale simbolico', per usare la definizione di E. Cassirer (1944), ha prodotto la sovrapposizione di significati simbolici e metaforici alle ragioni eminentemente pratiche che hanno determinato la nascita di abitazioni individuali o collettive (talora con carattere sacro) e l'aggregazione di queste in un ordine predeterminato. Così, tanto l'urbanistica quanto l'architettura, attraverso i secoli e sia pure in modo difforme, appaiono rispondere all'esigenza di conservare all'uomo un ruolo di fulcro che lo pone al centro dell'Universo reale e simbolico antropizzato. Una simile posizione deriva dalla convinzione, condivisa da diverse culture, che l'Universo e l'uomo abbiano la stessa forma, secondo un processo di antropomorfizzazione del cosmo basata sulla constatazione di un'analogia strutturale fra l'Universo, che contiene tutte le forme viventi (piante, animali, fenomeni atmosferici e quant'altro sembri essere dotato di vita) e l'uomo, che dei viventi è l'espressione più completa. Grazie alla sua capacità proiettiva e con la mediazione del mito (v.), l'uomo finisce dunque per leggere il mondo circostante a propria immagine e somiglianza. Il mito permette all'individuo e al gruppo di contestualizzarsi in un ambiente che, proprio grazie al mito stesso, diviene amico e propizio.
Questo processo è particolarmente evidente nelle culture dette etnologiche, dove il mito ha la funzione di ricordare non solo "i riti di ricostruzione del mondo e di propiziazione delle forze vitali, ma anche gli aspetti stagionali e le tecniche della caccia, dell'orientamento territoriale, delle attività di trasformazione. La ricreazione del paesaggio riassume quindi, con la mediazione del mito, un'attività architettonica globale [...] in quanto garanzia di poter incidere attivamente (come gruppo) su un determinato territorio" (Guidoni 1975, p. 11). Nelle culture etnologiche (che possono darci una pallida idea della complessità delle civiltà neolitiche), le planimetrie dei villaggi e, talora, le strutture architettoniche o le piante delle case sono spesso conformate su uno schema antropomorfico. Esempi particolarmente illuminanti sono quelli dei fali (Camerun) e dei dogon (Mali), per i quali il processo di antropomorfizzazione architettonica e urbanistica interessa tanto la planimetria del villaggio quanto l'abitazione individuale o collettiva o, ancora, particolari strutture come quelle per la conservazione del grano. I fali dividono il territorio di residenza in quattro aree occupate da altrettanti gruppi appartenenti alla medesima etnia, i quali si dispongono in maniera antropomorfica corrispondente "alle diverse posizioni che l'uomo-microcosmo assume nell'atto della procreazione" (Guidoni 1975, p. 136). La planimetria del villaggio rispecchia l'ordine macrocosmico della Terra nella quale s'individuano quattro parti (testa, tronco, arti superiori e arti inferiori), cui si aggiunge un centro rappresentato dal sesso. Questo, nella disposizione del villaggio corrisponde al granaio centrale, mentre le altre parti del corpo-villaggio assumono diverso valore sessuale, giacché le camere corrispondenti alla zona della testa sono maschili, mentre il resto è considerato femminile.
Per i dogon il villaggio "deve distendersi da nord a sud come un corpo d'uomo che giaccia supino" (Griaule 1966, trad. it., p. 116): a settentrione della piazza principale, che simboleggia il campo primordiale, sono poste la casa del consiglio, che corrisponde alla testa, e la fucina; le grandi case delle famiglie segnano il petto e l'addome, mentre gli altari comuni, a meridione, rimandano idealmente ai piedi come fondanti l'intera struttura simbolico-architettonica; all'esterno delle mura del villaggio sono poste le abitazioni per le donne in stato mestruale, equivalenti delle mani e degli arti superiori; nell'area corrispondente alla zona genitale, infine, sono sistemate le pietre per schiacciare i semi di Lannea acida, da cui si ricava olio commestibile e che alludono al sesso femminile, mentre quello maschile è simboleggiato dal verticale altare di fondazione del villaggio, generalmente posto accanto a esse. Il medesimo processo di antropomorfizzazione interessa pure la casa dei dogon, la cui planimetria, con la cucina rotonda al posto della testa, le dispense in corrispondenza delle braccia e l'entrata che rimanda al sesso, risulta, di nuovo, una proiezione del macrocosmo.
In civiltà più complesse, come per es. quella indiana, si assiste da una parte a un processo di astrazione dell'immagine urbana e architettonica, dall'altra a un affinamento dell'esposizione del mito cosmogonico nello strumento letterario. Sarà infatti appena il caso di ricordare che la letteratura vedica e quella upanishadica individuano nel Purusha l'uomo cosmico, il macrantropo, dal cui sacrificio nascono le singole componenti del cosmo, le quali contengono anche il tempo e l'alternanza del giorno e della notte, nasce la Terra e si prefigura anche lo stato sociale con la relazione fra le caste. Dal sacrificio creatore poi viene l'idea stessa di sacerdozio che, attraverso il rito sacrificale, riesce a cogliere nuovamente l'unità del cosmo. Non è infatti un caso che l'altare vedico simboleggi Prajapati, altro aspetto - più mitologico - dell'uomo cosmico; né è un caso che esso sia composto di 360 mattoni che equivalgono ai giorni, mentre altrettanti simboleggiano le notti e l'intera costruzione costituisca l'anno. L'identità fra Atman e Purusha, Atman e Brahman, documentata dai testi letterari delle Upanishad, apre la strada a ulteriori considerazioni: la rappresentazione antropomorfa di Brahman come divinità maschile a quattro teste, che indicano le direzioni ortogonali dello spazio, costituisce il presupposto indispensabile per comprendere il valore di tutti i processi di quadripartizione dello spazio presenti nella cultura indiana o in quelle affini. Si pensi, per es., alla forma del tempio-mandala classico, denominato sarvato-bhadara, "fausto da tutte le parti", che ha quattro porte ai punti cardinali, numerosi pinnacoli disposti intorno a quello centrale (che simboleggia l'asse dell'Universo) e terrazze che simboleggiano i quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) e si capirà bene che l'intera struttura è figlia di un processo di astrazione che abbandona progressivamente l'iniziale forma antropomorfa del macrantropo per arrivare a una sistematizzazione dello spazio in termini geometrici che, però, rispecchia l'identica impostazione originaria. Il sacerdote, percorrendo le terrazze, purifica di volta in volta quella parte del suo spirito (e della comunità) che corrisponde a quell'elemento. In questa maniera si rinsalda la corrispondenza fra essere umano, tempio e cosmo, possibile unicamente se quest'ultimo - rappresentato dal tempio - ha la medesima forma del primo.
Pure in altre culture, come l'egizia o la mesopotamica, si crea una virtuale relazione fra tre termini di paragone che si spiegano riferendosi al legame analogico fra cosmo, anno e uomo; elemento di mediazione per tale relazione è la disciplina astrologica, ma essa ha alla base - in maniera più o meno esplicita - l'idea del macrantropo cosmico. La cultura mediorientale aggiunge alla triade analogica cosmo, anno, uomo un altro termine di paragone: il tempio. L'uomo, infatti, fa parte di "un universo unificato dalle omologie: vive in una città che costituisce una imago mundi, nella quale i templi e le ziqqurat rappresentano 'centri del mondo' e, di conseguenza, garantiscono la comunicazione con il cielo e con gli dei" (Éliade 1975-78, trad. it., 1° vol., pp. 96-97). Nell'ambito dell'ebraismo, la costruzione del tempio viene espressamente dettata da Dio a Davide, il quale, a sua volta, si premura di trasmettere la volontà del Creatore a Salomone (I Re, 6). In questo modo, è Dio stesso che si rivela architetto e costruttore. Il suo tempio è, per forza di cose, immagine di sé stesso, ma anche dell'uomo che di Dio è immagine, come esplicitamente affermato nella Genesi (1, 27).
Nel mondo grecoromano va rilevata la continuità di un pensiero che tende a unire analogicamente cosmo, uomo e città. Il centro del mondo veniva identificato nell'omphalòs di Delfi (v. ombelico), che si configurava come luogo privilegiato da porsi in relazione con l'anima del mondo, con la sua essenza più intima. La struttura urbanistica delle città greche o grecizzate, che ruota intorno al centro dell'agorà oppure si sviluppa dall'epicentro dell'acropoli, segue lo schema organizzativo del mondo di per sé: la città greca è perciò un 'micromondo' connesso con il cosmo per la ripetizione e l'individuazione di un centro. D'altra parte è opportuno rammentare che la religiosità grecoromana, basata sulla concezione e sulla rappresentazione antropomorfica delle divinità (v. antropomorfismo), portava a considerare la perfezione del corpo umano come la rappresentazione più adeguata degli dei. È in base a questa concezione che Vitruvio nel 3° libro del De architectura, dissertando del concetto di symmetria, in rapporto alla costruzione del tempio ricorre alla famosa immagine dell'homo ad circulum e dell'homo ad quadratum: i due diagrammi spiegano che, come nel corpo umano le singole membra devono armonizzarsi all'intera figura, altrettanto deve accadere nella costruzione del tempio. L'accostamento appare indicativo se si pensa che il tempio è il luogo che palesa la divinità, la quale a sua volta ha aspetto antropomorfo. Vitruvio, quindi, scegliendo nell'immagine dell'uomo quella che più si avvicina alla rappresentazione degli dei, e stabilendo una relazione precisa fra la prima e due delle figure geometriche più utilizzate in ambito architettonico, ammette implicitamente che la figura umana è, se non il modello formale, almeno quello nel quale si compiono e si concretizzano quegli assunti teorici che egli stesso andava perseguendo e promulgando.
Altre volte nel mondo grecoromano il legame fra la figura umana e l'architettura o l'urbanistica è impostato, più semplicemente, in termini di imitazione. Si pensi, per es., alle cariatidi dell'Eretteo sull'Acropoli di Atene (5° secolo a.C.), oppure al fatto che il termine astragalo indica tanto l'osso dell'articolazione tarsotibiale che connette il piede alla gamba, quanto la modanatura semicircolare (che in sezione riprende la medesima forma dell'osso), che concorre a costituire la base della colonna. Naturalmente, la scelta del nome risiede proprio nella volontà d'istituire un paragone fra la colonna e l'uomo che, talora - come si può vedere, per es., nel caso dell'Eretteo - arriva alla completa sostituzione. Per quanto riguarda l'urbanistica, invece, si assiste piuttosto a una sorta di 'cosmizzazione' della planimetria della città o di organizzazioni pseudourbane. Sempre Vitruvio, nel 1° libro del De architectura, precisa che tanto le strade larghe (plateae) quanto quelle strette (angiporti) devono essere orientate verso le regioni celesti. Successivamente aggiunge un lungo elenco di venti la cui azione disturbatrice deve essere neutralizzata dal giusto orientamento delle vie cittadine. Tuttavia, così facendo, finisce per collocare la città in un contesto di tipo cosmologico, come risulta dalla citazione della Torre dei Venti edificata da Andronico di Cirro (1° secolo a.C.) ad Atene e la cui funzione era praticamente quella di un planetario. In questo modo, il testo vitruviano si snoda su un doppio registro: quello delle indicazioni pratiche, ma anche quello che vuole inserire il progetto della città entro le medesime coordinate che regolano il mondo, in modo che la prima finisca per essere specchio del secondo.
Con l'avvento, la diffusione e la sistematizzazione del pensiero cristiano, buona parte degli aspetti della cultura grecoromana filtrò nella speculazione del nuovo credo. Il modello cosmologico di riferimento è quello della tarda antichità, come dimostra, per es., la Ruota dei venti miniata nel De natura rerum di Isidoro di Siviglia (9° secolo; Laon, Bibliothèque Municipale, ms. 422, f. 6r), dove i venti non solo conservano un'iconografia tardoantica, ma, come nella visione tramandata da Plinio, sostengono il mundus. Nell'ottica cristiana, però, il mundus viene identificato con il Cristo, come appare chiaramente nell'affresco di Piero di Puccio (14° secolo) conservato nel Camposanto monumentale di Pisa. È Cristo il macrantropo della nuova età, colui che accoglie dentro di sé l'intero creato.
Una concezione siffatta è alla base dell'opera di Opicinus de Canistris, provetto astrologo e cosmografo che, verso il 1350, realizzò ad Avignone una serie di carte geografiche, oggi conservate presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (cod. Pal. lat. 1993), che sovrappongono alle terre allora conosciute interpretazioni antropomorfiche delle coste europee gravitanti sul Mediterraneo e di quelle africane (f. 20v). A loro volta, queste sono inserite all'interno di uno schema cosmologico che vede nel Cristo il macrantropo e in Adamo il microcosmo (f. 2r). La riflessione sull'Universo antropizzato proietta poi il Cristo macrocosmo sulla fascia zodiacale (f. 24r). In questo modo Opicinus sottolinea l'unità del disegno divino e spiega il progetto di salvazione dell'uomo, raccordando la dimensione cosmica con quella geografica e addirittura con quella antropica. La dimensione cosmica del Cristo spiega anche le implicazioni cosmologiche insite nella scelta delle planimetrie cruciformi degli edifici ecclesiastici. Con il cristianesimo la forma del tempio viene profondamente modificata rispetto alla classicità: dopo l'adozione della pianta basilicale, derivata dal vocabolario architettonico romano, la chiesa e la cattedrale si fanno cruciformi per ricordare, in muratura, il simbolo fondamentale della nuova religione. Ma la crux è anche simbolo cosmico per eccellenza, che unisce in sé le principali direttrici dello spazio connettendo indissolubilmente l'Universo e l'uomo. Ora se a questo si aggiunge il fatto che la cattedrale riassume in sé l'idea del percorso di salvazione, quella dell'unità del cosmo e quella del pellegrinaggio terrestre verso l'aldilà, appare evidente che la scelta cruciforme è assai più profonda di quanto non si pensi in genere. In definitiva, infatti, essa assomma in un'unica immagine la rappresentazione antropomorfica dell'Universo cristianizzato, quella del Cristo salvatore che si sacrifica sulla croce e quella del 'corpo' della Chiesa e della sua gerarchia.
Nel corso del Rinascimento vari trattatisti e architetti ripresero e svilupparono istanze vitruviane, rimaste vive grazie alla tradizione medievale. La serie della trattatistica rinascimentale è aperta dal De re aedificatoria, pubblicato da L.B. Alberti nel 1452. La concezione dell'architettura albertiana si basa sull'idea che l'edificio sia un tutto organico: "come nell'essere animato ogni membro si accorda con gli altri, così nell'edificio ogni parte deve accordarsi colle altre [...]. Inoltre nel conformare le membra, la semplicità della natura è l'esempio da seguire [...] in ogni caso è mio costume raccomandare di non cadere in quel difetto per cui l'edificio sembra un corpo deforme con le spalle e i fianchi sproporzionati [...]" (1, 9, 14). Alberti estende l'organicità dell'edificio all'intera città affermando che "la città è come una grande casa e la casa, a sua volta, una piccola città", sicché il criterio applicato all'edificio, implicitamente, vale anche per un piano urbanistico. Ancora più esplicito è il Trattato di architettura (1460-65) del Filarete, il quale non solo si preoccupa di precisare che tutte le misure e figure geometriche sono derivate dall'uomo, perché questo, essendo creato da Dio, è sicuramente la più proporzionata e più bella delle forme, ma spiega che l'edificio, proprio come l'uomo, deve avere una gestazione di nove mesi per formarsi completamente e sopravvivere ai genitori. Anche le riflessioni teoriche di Francesco di Giorgio Martini devono essere poste in relazione con l'opera vitruviana (che l'architetto senese conobbe nell'editio princeps del 1486, a cavallo fra le due stesure del suo Trattato di architettura civile e militare, 1479 e 1481) oltre che con quelle di Alberti e del Filarete. Francesco di Giorgio scelse la forma umana come punto di riferimento inalienabile sia per i singoli edifici sia per la planimetria urbanistica. In questo modo, tanto gli uni quanto l'altra brilleranno di luce riflessa e, grazie all'analogia con il corpo umano, si porranno in diretta relazione con la bellezza assoluta di Dio. Per rendersi conto di quanto questa relazione sia puntigliosamente perseguita da Francesco di Giorgio, si possono citare due passi del suo trattato. Il primo passo spiega come "havendo le basiliche misura e forma del corpo umano siccome el capo dell'omo è principal membro di esso, così la maggior cappella formarsi debba come principale membro e capo del tempio [...]. Similmente la quadratura dell'ampio petto alla tribuna s'attribuischi, le braccia le croce d'esso, le palme delle mani le due circonferenti cappelle", descrizione puntualmente illustrata con espliciti disegni i quali inscrivono la figura umana nella pianta dell'edificio religioso (Firenze, Biblioteca Nazionale, Codice Magliabechiano, II. I. 141, f. 42v). Il secondo passo, invece, si riferisce alla città e, dopo aver insegnato come si disegna una città (la quale ha "ragione, misura e forma nel corpo umano") partendo dall'immagine della figura umana, precisa che "quando in essa città rocca da far non fusse, il luogo d'essa alla cattedral chiesa s'attribuischi, con la sua antiposta piazza dove il palazzo signorile abbi corrispondenza. E dalla opposita parte e ritondità dell'imbellico la principal piazza. Le palme e piedi e altri tempi e piazze da costituir sono. E così come gli occhi, urecchi, naso e bocca, le vene intestina e l'altre interiora e membra che dentro e intorno al corpo organizzati a la necessità e bisogno d'esso, così nella città osservar si debba [...]". Esiste dunque una corrispondenza fra città e corpo che riguarda anche la gerarchia delle membra e la conseguente collocazione degli edifici in funzione di essa. Per questo motivo quando Francesco di Giorgio disegna a margine del Codice Saluzziano (Torino, Biblioteca Reale, Codice Saluzziano 148, f. 3r) la suggestiva planimetria di una città fortificata antropomorfa, si preoccupa di collocare l'eventuale rocca al posto della testa, la chiesa nel petto e la piazza principale intorno all'ombelico.
Il fascino della relazione fra architettura e antropomorfismo non si esaurì nell'ambito della ristretta cerchia degli architetti del 15° secolo. Basterà in questo senso rammentare, al di là della diffusione di cariatidi e telamoni o di protomi umane più o meno ornamentali, casi particolari d'impiego della figura umana deformata, quali compaiono nell'Orco del Bosco Sacro di Bomarzo (Viterbo) della fine del Cinquecento e sul fronte di Palazzetto Zuccari in via Gregoriana a Roma. Si può poi ricordare che l'impiego degli ordini architettonici, prendendo le mosse da Vitruvio, a cominciare dalla sistematica esposizione di S. Serlio nelle sue Regole generali di architettura sopra le cinque maniere degli edifici, pubblicato a Venezia nel 1537, rispecchiava caratteri morali di chiara derivazione antropomorfica. In altri termini, l'ordine dorico veniva considerato maschile e quindi adatto a edifici d'impiego bellico o austero o anche celebrativi di martiri e santi cristiani; quello ionico era ritenuto femminile e perciò adatto a edifici più delicati, mentre il corinzio, verginale, si adattava a templi dedicati a Maria o a figure di specchiata moralità.
Con il 17° secolo gli aspetti connessi al rapporto fra architettura e antropomorfismo vennero in parte ripresi da quella corrente ermetica che attraversò l'ordine gesuita e che ebbe in padre A. Kircher, e in J.B. Villalpando gli esponenti di spicco. In particolare gli studi di quest'ultimo sulle reali proporzioni e sulla struttura architettonica del Tempio di Salomone lo portarono, affiancando Vitruvio all'autorità della Bibbia, a fare del tempio una sorta di universo in muratura con tanto di corrispondenze astrali e antropometriche, come per es. nel caso della disposizione dei pilastri e delle colonne dei portici.
Vi sono due celeberrime applicazioni pratiche e simboliche della concezione antropomorfica dell'architettura nel Seicento. La prima è costituita dal colonnato di S. Pietro, costruito da G.L. Bernini per papa Alessandro VII, il cui andamento curvilineo allude a un abbraccio simbolico dal momento che, come spiega Bernini stesso, "essendo la chiesa di S. Pietro quasi matrice di tutte le altre doveva avere un portico che per l'appunto dimostrasse di ricevere a braccia aperte i Cattolici per confermarli nella credenza, gl'heretici per riunirli nella Chiesa, e gli infedeli per illuminarli nella vera fede". La seconda è la facciata dell'Oratorio dei Filippini, sempre a Roma, costruito da F. Borromini fra il 1637 e il 1640. Nell'Opus architectonicum, scritto nel 1647 ma pubblicato postumo (1725), Borromini illustra il significato di quel prospetto affermando che "nel dar forma a detta facciata mi figurai il Corpo Umano con le braccia aperte, come che abbracci ogn'uno che entri; qual corpo con le braccia aperte si distingue in cinque parti, cioè il petto in mezzo, e le braccia ciascheduno in due pezzi dove si snodano; che però nella Facciata vi è la parte di mezzo in forma di petto, e le parti laterali in forma di braccia"; l'attenzione di Borromini si spinge fino all'imitazione architettonica delle articolazioni, mentre l'aggetto del corpo centrale della facciata imita l'espandersi del petto nell'atto di abbracciare.
L'Oratorio dei Filippini costituisce una delle ultime consapevoli interpretazioni antropomorfiche dell'architettura. Per ritrovare altrettanta consapevolezza, ma con presupposti ben diversi, bisognerà aspettare il modulor di Le Corbusier e l'interpretazione della figura umana in funzione della sezione aurea (v. norma), secondo la quale l'architetto francese costruì lo spazio integrato delle 'unità di abitazione' di Marsiglia, ultimo scampolo di un'architettura che per millenni aveva posto l'uomo al centro dell'Universo.
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