RATTAZZI, Urbano
RATTAZZI, Urbano. – Nacque ad Alessandria il 30 giugno 1808 da Giuseppe Giacomo, notaio, e da Isabella Bocca, sposata in terze nozze.
Gli antenati di Rattazzi emigrarono dalla riva lombarda del lago Maggiore. Giunsero nell’Alessandrino all’inizio del XVII secolo, radicandosi professionalmente nel capoluogo e acquistando via via proprietà terriere anche nel poco distante borgo agricolo di Masio. Ad Alessandria e a Masio esercitarono funzioni di giureconsulti e notai. Il bisnonno Giuseppe Maria allargò l’ambito di attività alla sfera pubblica, entrando a far parte nel 1732 del Consiglio generale e decurionale di Alessandria. Il padre di Urbano ereditò tale carica e assunse altresì quelle di segretario del Consiglio di giustizia e di cancelliere del tribunale. Lontani cugini di Urbano furono i fratelli Alessandro, avvocato, e Urbano, medico, discendenti da un altro ramo della famiglia Rattazzi (disgiunto fin dall’inizio del Settecento) e coinvolti con funzioni politiche di primo piano nei moti antisabaudi e antiaustriaci del 1821.
All’epoca dell’insurrezione costituzionale Rattazzi era un tredicenne dedito agli studi ed estraneo alla vita politica.
Ebbe vari fratelli e sorelle, ma mantenne un legame intenso solo con il fratello Giacomo. La madre, specie dopo la morte del padre avvenuta nel 1822, rappresentò un punto di riferimento insostituibile per Rattazzi, che si sposò in età avanzata, il 4 febbraio 1863, con Marie Laetitia Wise Bonaparte (cugina di Napoleone III), con la quale ebbe una figlia che chiamò Isabella Roma. Divenuto dopo il 1848 parlamentare e influente politico, Rattazzi aiutò Giacomo nello sviluppo della carriera negli uffici demaniali e finanziari (culminata nel 1867 con l’incarico di direttore della seconda divisione del ministero della Real Casa), e fu vicino al di lui figlio, l’amato nipote Urbanino, che sarebbe divenuto nel 1892 ministro della Real Casa con Umberto I.
Dal 1822, quattordicenne, Rattazzi andò a vivere a Torino come borsista del Collegio delle Province, la fondazione universitaria situata nella piazza Carlo Emanuele II voluta fin dal 1720 da Vittorio Amedeo II per aiutare i giovani provinciali meritevoli e vincitori di apposito concorso. In tale collocazione frequentò la «facoltà di leggi», superando lodevolmente gli esami di magistero nel 1824, di baccellierato nel 1825 e laureandosi sempre cum laude il 9 maggio 1829 in diritto civile ed ecclesiastico. Attese quindi agli studi per ottenere la cosiddetta laurea di cooptazione, necessaria per essere ammesso come dottore aggregato al «collegio di leggi» (premessa per un’eventuale carriera accademica alla quale il giovane era interessato). Passò brillantemente l’esame il 16 giugno 1836 con una dissertazione dedicata ai temi dell’usura, del mandato, dei fanciulli abbandonati e dei crimini ecclesiastici.
Dal 1832 Rattazzi esercitò la funzione di «ripetitore degli studenti», proseguendo nel contempo l’apprendistato pratico per l’attività forense. Nel periodo formativo effettuò letture storiche, di cui avrebbe riferito nella sua biografia la moglie Marie Laetitia; tra queste, lesse i volumi della Histoire universelle del conte Louis Philippe de Ségur (1753-1830), storico ‘camaleontico’ e illuminista impegnato nella Rivoluzione francese, poi dignitario napoleonico, membro del Corpo legislativo e del Senato borbonico, infine partigiano della rivoluzione orleanista del 1830. Lo studente Rattazzi si orientò seguendo coordinate ideologiche flessibili, ma vicine all’humus culturale in cui avevano avuto radici nel Settecento le idee illuministe.
Nel 1837 si aprì per il giovane causidico la prospettiva creata dall’istituzione albertina del ‘senato’ a Casale Monferrato, sede giurisdizionale assimilata alla corte d’appello. In tal modo Carlo Alberto promuoveva un’apertura al progresso, lanciando un messaggio alla borghesia casalese e all’élite degli avvocati del cosiddetto altro Piemonte, il territorio che – unitamente ai suoi ceti produttivi agricolo-economico-professionali – si poneva in posizione critica rispetto alla classe politica aristocratica e codina della capitale torinese. Tale circostanza convinse Rattazzi a incardinare la propria carriera di avvocato nel ‘senato’ casalese, abbandonando la prospettiva accademica torinese. Di fatto, l’antica capitale del Monferrato divenne dal 1837 la nuova città in cui egli esercitò la professione fino all’inizio degli anni Cinquanta. In tale comunità egli trovò nell’amicizia con personaggi come Giovanni Lanza, Filippo Mellana, Ferdinando Pio Rosellini, un forte e approfondito sodalizio umano e culturale in cui maturò il passaggio all’attività politica.
Il giovane Rattazzi non volle raccogliere l’eredità cospiratrice e insurrezionale dei lontani cugini, che aveva dimostrato la sua impercorribilità. Crebbe in lui, al contrario, una volontà politica riformatrice più gradualistica, capace di far avanzare concretamente la nuova borghesia, con l’appoggio della monarchia e dell’aristocrazia più aperta alle esigenze economiche e sociali dell’epoca che chiudeva la Restaurazione. Sulla scorta dell’esperienza casalese, venendo a contatto attraverso la professione con proprietari terrieri di confine che avevano possedimenti anche nel regno Lombardo-Veneto e che, pertanto, manifestavano istanze di superamento dell’immobilismo sabaudo e di unione con la Lombardia, Rattazzi giunse a rappresentare gli interessi politico-economici dell’‘altro Piemonte’.
Suoi colleghi e amici politici furono – dapprima sotto la spinta di Lanza – all’origine del congresso agrario tenuto nel 1847 a Casale, in cui fu lanciato il significativo grido ‘Viva l’Italia!’ a sostegno dell’iniziativa indipendentistica neoguelfa di Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. Quel congresso segnò il momento di svolta per la maturazione di una coscienza liberale e nazionale.
L’avvio della vicenda politica e parlamentare di Rattazzi si inquadrò nella Sinistra democratica liberale casalese e alessandrina nel periodo immediatamente precedente e successivo al 1848. Nelle elezioni parlamentari seguite all’emanazione dello Statuto (4 marzo 1848) fu eletto nel primo collegio di Alessandria venendo sempre riconfermato, per la Camera subalpina fino al 1860 e per quella italiana fino al 1873, a testimonianza di un rapporto di fedeltà dell’elettorato alla sua figura, che ne fece il ‘deputato di Alessandria’ per antonomasia.
Come parlamentare, Rattazzi si rivelò oratore potente, efficace, dotato di forza retorica sobria, ma comunicativa e persuasiva. Le centinaia di discorsi parlamentari che pronunciò sono da considerare la fonte principale per lo studio del suo pensiero politico. Dai banchi della Sinistra, si mise in luce nel corso della prima guerra d’indipendenza, sia per la cura di misure istituzionali ai fini della trasformazione del regime da assoluto in costituzionale (problemi dell’eleggibilità dei giudici e della dotazione finanziaria del Parlamento), sia per l’attività di relatore della commissione parlamentare referente sulla legge per l’unione con la Lombardia e le province venete.
Tale esperienza ne mise in evidenza la capacità di rappresentare a un tempo le istanze politiche della Sinistra liberale e di trattare con la Destra moderata, tanto da essere indicato come l’uomo giusto per entrare il 27 luglio 1848 – dopo le dimissioni del ministero Balbo – nel nuovo ministero di Gabrio Casati come ministro per la Pubblica Istruzione e, per pochissimi giorni, dell’Industria Agricoltura e Commercio. Da tali incarichi si dimise dopo l’armistizio Salasco (9 agosto) e le dimissioni di Casati del 10 agosto, sostenendo con i democratici la necessità della ripresa della guerra, mentre si sviluppava nel Nord, pur nella fase armistiziale, la resistenza guidata da Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Daniele Manin alle truppe austriache. Dopo alcuni mesi di opposizione, Rattazzi rientrò al governo con il ministero Gioberti nel dicembre del 1848 come ministro di Grazia e Giustizia e poi dell’Interno. Provocatane la caduta nel febbraio 1849 con la sua opposizione al progetto giobertiano di rimettere sul trono il granduca di Toscana contro i democratici, fu l’uomo forte del ministero Chiodo. In quanto ministro dell’Interno, Rattazzi dichiarò e organizzò la ripresa della guerra il 23 marzo 1849 e, dopo la sconfitta di Novara, dovette darne il drammatico annuncio alla Camera, assumendosene senza colpe tutto il peso.
La «fatal Novara» liquidò le speranze dei democratici di influire per l’immediato sulla nuova stagione politica nel Regno sardo. Fu con l’affermarsi, tra il 1849 e il 1850, della personalità politica e ministeriale del conte Camillo Benso di Cavour, in parziale opposizione a Massimo d’Azeglio, che si crearono di nuovo varchi di manovra per Rattazzi e i suoi amici. Traendo una lezione dalla sconfitta del radicalismo dell’Estrema Sinistra, a partire dall’ottobre del 1849 essi se ne distaccarono, occupando uno spazio di mediazione come ‘centro-sinistro’ dello schieramento politico subalpino e iniziando una collaborazione con il ‘centro-destro’ cavouriano, che culminò nel febbraio del 1852 con la dichiarazione del patto del ‘connubio’ durante il dibattito sulla proposta di legge sulla stampa. Questo passo fu ispirato, nel corso del 1851, da varie prese di posizione giornalistiche e parlamentari di Rattazzi e Cavour e preparato da Michelangelo Castelli e Domenico Buffa, quindi stipulato tra il dicembre e il gennaio del 1852 nel corso di una riunione a quattro dei due mediatori con Rattazzi e Cavour.
Il ‘connubio’ rivelò una contiguità ideale tra ‘centro-destro’ aristocratico liberal-imprenditoriale cavouriano e ‘centro-sinistro’ rattazziano borghese liberale: non fu un compromesso di potere tra partiti opposti ed eterogenei, ma una confluenza pratica e politica sulla base di programmi divenuti in gran parte comuni e finalizzati alla difesa delle libertà costituzionali, alla soluzione della questione finanziaria per il risanamento del Regno e alla sua preparazione per la battaglia nazionale dell’indipendenza italiana.
Il primo risultato del ‘connubio’ fu l’elezione di Rattazzi alla presidenza della Camera subalpina l’11 maggio 1852, dopo la morte del presidente Pier Dionigi Pinelli. Quest’operazione aprì lo scontro frontale fra il ministero d’Azeglio e il partito conservatore di Ottavio Thaon de Revel, da una parte, e il nuovo fronte liberale di Cavour e Rattazzi dall’altra, sostenuto anche dalla Sinistra. A quel punto d’Azeglio rassegnò le dimissioni. La crisi fu chiusa il 21 maggio con un secondo ministero d’Azeglio senza Cavour, che però durò pochi mesi e fu seguito il 3 novembre 1852 dal primo ministero Cavour che, con vari aggiustamenti, sarebbe durato fino alla fine del 1855. La modifica di maggior peso fu rappresentata dall’inserimento di Rattazzi come ministro di Grazia e Giustizia nell’ottobre del 1853 e dell’Interno nel marzo del 1854. Con tali responsabilità, egli proseguì con rinnovato vigore la politica di riforme giurisdizionali e laiche già iniziata dal ministro Giuseppe Siccardi. A tali passi Rattazzi era portato dalla sua stessa formazione di stampo giuridico e da una cultura sensibile all’eredità dell’illuminismo e del giurisdizionalismo settecentesco. Dopo aver fatto approvare la legge sul riordinamento dell’ordine giudiziario nel 1853, attraverso la quale fu introdotto uno svecchiamento burocratico, Rattazzi aprì il capitolo più importante delle riforme laiche, rappresentato dalla cosiddetta legge di ‘soppressione’ degli ordini religiosi contemplativi del 29 maggio 1855, detta comunemente anche ‘legge dei conventi’.
In verità, più che di soppressione degli ordini religiosi, non sottoponibile a legiferazione statale e in effetti non accaduta, ciò che fu soppresso per legge – ossia «cessato» – fu il riconoscimento a tali ordini contemplativi del titolo di enti morali dediti a compiti di assistenza e di educazione popolari, e quindi dei privilegi e benefici conseguenti da parte della legge civile in quanto non corrispondenti a un servizio sociale effettivamente prestato. Ma le medesime congregazioni restarono in vita, e la legge previde per loro stipendi e pensioni statali che, pur non pari ai benefici precedenti, bastavano al loro mantenimento.
La reazione del mondo cattolico tradizionalista e clericale fu di condanna e di mobilitazione nel biennio successivo, che si concluse con la vittoria nelle elezioni politiche del 1857 e con le dimissioni di Rattazzi dal ministero dell’Interno nel gennaio del 1858. Tuttavia, il filo laico dell’ispirazione rattazziana, che giustifica un’interpretazione del suo operato di statista sotto la prospettiva dell’impegno per un giurisdizionalismo temperato, liberale e laico, era destinato a essere ripreso nel 1867 quando, ritornato al potere, egli pose mano con la legge dell’agosto alla definizione delle questioni accantonate del matrimonio civile e, soprattutto, della liquidazione dell’asse ecclesiastico. L’estromissione dal ministero Cavour all’inizio del 1858 avviò un periodo conflittuale tra Rattazzi e Cavour, che conobbe punte di asperità dapprima con lo sfortunato episodio della malleveria prestata dall’alessandrino in favore della contessa di Mirafiori, la ‘bêla Rosin’, accusata da Cavour di infedeltà nei confronti del re; in un secondo momento, a causa della partecipazione di Rattazzi, come titolare dell’Interno, al ministero presieduto da Alfonso Ferrero della Marmora nel secondo semestre del 1859, dopo le burrascose dimissioni date da Cavour a seguito della firma dell’armistizio di Villafranca dell’11 luglio apposta dal re contro il suo parere. Ciononostante, fu Cavour stesso a raccomandare, in prima battuta, al monarca la presenza di Rattazzi, in quanto – a suo dire – unico statista competente a raccogliere momentaneamente la sua eredità a capo del ministero post Villafranca. L’acuirsi del contrasto fu dovuto, nei mesi successivi, al dissenso di Cavour sulle modalità e sui tempi osservati dal governo sulla questione dell’annessione delle regioni dell’Italia centrale e della sua nomina a plenipotenziario sardo nelle trattative culminanti nel trattato di Zurigo del 10 novembre 1859. In conseguenza, prese forma e consistenza in Cavour – il quale dava invero un giudizio più positivo per le realizzazioni amministrative rattazziane – il sospetto, insufflato come sostenne Castelli dai suoi più vicini collaboratori, che l’orientamento di Rattazzi si fosse contaminato in senso anticavouriano già all’inizio della crisi di Villafranca a causa di un indirizzo ‘cortigiano’, dettato dal re e dalla sua favorita, che tendevano a escludere il conte dal potere.
Tra il 1859 e il 1860, a questi elementi di dissenso si aggiunse in Rattazzi la formazione di una visione tattica nuova più orientata a sinistra, che divenne la cifra determinante della sua politica durante l’impresa dei Mille e negli anni Sessanta: l’obiettivo della conciliazione in un unico partito delle due fazioni ‘giustamente nazionali’ – gli eredi del ‘centro-sinistro’ e i democratici garibaldini – intenzionate a concorrere con metodi diversi alla finalità del completamento dell’unità nazionale dopo il 1861 sotto la bandiera monarchico-nazionale dei Savoia (con l’esclusione quindi di ogni posizione repubblicana o mazziniana). Tale indirizzo cercava nell’appoggio del monarca un puntello.
Pur escludendo un fondamento meramente ‘cortigiano’ nell’iniziativa di Rattazzi, occorre dire che egli non sempre sembrò consapevole dei rischi connessi alle iniziative segrete del re e della necessità di controllarne e limitarne l’impatto e lo svolgimento. Di conseguenza, talora il suo eccessivo adeguarsi alle direttive sovrane apparve come elemento di debolezza e finì per farne in occasioni cruciali uno strumento nelle mani del monarca, non sempre rispettose dell’autonomia statutaria del Parlamento e dei ministeri.
La strategia politica di Rattazzi negli anni Sessanta fu dunque rivolta costantemente al tentativo di fare di sé e della sua parte politica agenti di unione e di conciliazione con il movimento democratico e garibaldino, al fine di costruire una forza capace di imprimere nuovo dinamismo ed energia al moto risorgimentale a partire dal piano parlamentare, da lui ritenuto il terreno sul quale si giocavano, al pari di quello militare, le partite fondamentali. Ma tali tentativi, riusciti negli anni Cinquanta per il fatto di trovare in Cavour l’elemento catalizzatore e direttivo dinamico e potente, incontrarono difficoltà che si rivelarono insormontabili a unire i soggetti sopraddetti, in particolare Rattazzi e Garibaldi. Venne anzi allo scoperto l’incolmabile distanza tra loro, che si rivelò con effetti negativi drammatici nel corso dei due governi, durati pochi mesi, diretti da Rattazzi; nel 1862, quello caratterizzato dallo scontro di Aspromonte nell’agosto; nel 1867, quello concluso già il 17 ottobre, ma a cui si addebitò anche la crisi di Mentana, che venne invece gestita in novembre dal successore Luigi Federico Menabrea.
Sotto questi aspetti, il conflitto tra Rattazzi e i maggiori dirigenti cavouriani dopo la morte del conte (con Bettino Ricasoli e, soprattutto, con Marco Minghetti, con il quale nel 1863 si batté a duello ‘al primo sangue’) fu esiziale per la causa risorgimentale nel primo decennio dell’Unità. Esso mise a nudo la prima crisi seria del sistema monarchico-liberale, che fece emergere a più riprese l’impossibilità per l’Italia di trovare un juste milieu capace di promuovere quel ‘temperato progresso’ che tanto stava a cuore a Rattazzi. Egli comunque si impegnò, sul finire degli anni Sessanta, nella riorganizzazione della Sinistra attraverso l’opposizione alla tassa sul macinato, nella messa a punto laica dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa e nella questione della riforma dell’ordinamento statale all’insegna di un maggior decentramento politico-amministrativo.
Tale strategia fu interrotta dalla morte repentina avvenuta per grave malattia a Frosinone il 5 giugno 1873.
Fonti e Bibl.: Non esiste un fondo archivistico rattazziano organico, data la distruzione delle sue carte ministeriali e private dovuta all’incuria della moglie e dei suoi eredi; per una puntuale descrizione si rimanda a C. Pischedda, A proposito delle Carte Rattazzi, in Rivista storica italiana, LXXIII (1961), 1, pp. 133-146. Tuttavia, a fronte dei rari documenti giacenti presso l’Archivio centrale dello Stato, esiste una consistente presenza documentaria (in fondi vari, con diverse collocazioni e segnature) presso l’Istituto per la storia del Risorgimento di Roma - Museo centrale del Risorgimento, in parte raccolta grazie all’attività di Carlo Pischedda, promotore del tentativo di riunire quante più possibile carte rattazziane disperse, sulla cui base sono stati editi il primo e il secondo volume dell’Epistolario di U. R., a cura di R. Roccia, I, 1846-1861, Roma 2009; II, 1862, Roma 2013. Uno strumento fondamentale per la riscostruzione del pensiero e della cultura politica di Rattazzi sono i suoi Discorsi parlamentari, a cura di G. Scovazzi, I-VIII, Roma 1876-1880. Per notizie sulla famiglia Rattazzi: F. Cacciabue, Una famiglia borghese in un paese del Piemonte lombardo: i Rattazzi a Masio, in ‘L’alto di Masio atleta’. Studi su U. R. (1808-1873), la sua famiglia, il suo paese, Castell’Alfero (Asti) 2008, pp. 17-79; Id., La famiglia di U. R., in R. e gli statisti alessandrini tra storia, politica e istituzioni, a cura di F. Ingravalle - S. Quirico, Torino 2012, pp. 45-58. Sulla carriera universitaria di Rattazzi: M. Povero, Ricerche sull’attività e gli studi giuridici di U. R., ibid., pp. 59-90. Sulla categoria storiografica dell’‘altro Piemonte’: L’altro Piemonte e l’Italia nell’età di U. R., a cura di R. Balduzzi - R. Ghiringhelli - C. Malandrino, Milano 2009. Per la biografia di Rattazzi: M.L. Rattazzi, R. et son temps. Documents inédits, correspondance, souvenirs intimes, I-II, Paris 1881-1887; Garibaldi, R. e l’unità dell’Italia, a cura di C. Malandrino - S. Quirico, Torino 2011; C. Malandrino, Lineamenti del pensiero politico di U. R., Milano 2014; Camera dei deputati, Portale storico, http://storia.camera.it/ deputato/urbano-rattazzi-18100629#nav (8 giugno 2016).