URBANO VII
Giambattista Castagna nasce, il 4 agosto 1521, a Roma dal nobile genovese Cosimo e da sua moglie, la nobildonna romana Costanza di Giulio Ricci e Maria Iacobacci, sorella questa di Domenico, cardinale dal 1517. Già segnata dalla porpora del prozio materno - che sarà conferita, nel 1536, anche ad un altro Iacobacci, Cristoforo, di Domenico cugino - la destinazione alla carriera ecclesiastica di Giambattista, nella quale si sta già affermando Girolamo Veralli, il futuro cardinale, il quale pure è suo parente, in quanto figlio di Giulia, sorella di sua nonna materna e, quindi, cugino di Costanza, sua madre. È, appunto in vista dell'avvio al "cursus honorum" curiale, predisposto l'itinerario di studi del futuro papa. Dopo una prima formazione di tipo letterario-umanistico, gli studi giuridici all'Ateneo di Perugia, poi presso quello patavino e infine conclusi a Bologna - dove stringe amicizia col condiscepolo Gabriele Paleotti - colla laurea "in utroque", munito della quale torna a Roma. Qui Veralli, dall'8 aprile 1549 cardinale, l'accoglie in casa propria, da un lato addestrandolo, dall'altro utilizzandolo a mo' di segretario personale, di auditore. Ha così modo di seguire da vicino il lungo e contrastato conclave finalmente, il 7 febbraio 1550, elevante al soglio Giulio III e poi d'accompagnare, in veste di datario, il proprio protettore nella missione del 1551 in Francia, quivi sperimentando "propriis oculis" come basti l'insediamento dell'ambasciatore inglese col suo seguito perché l'ambasciata si trasformi in un centro di propaganda ereticale. Promosso quindi da Giulio III referendario della Segnatura di Giustizia, di lì a poco - grazie alla rinuncia a suo favore, del 1° marzo 1553, dell'arcidiocesi di Rossano da parte di Paolo Emilio Veralli (nipote di Girolamo che, arcivescovo della stessa dal 24 marzo 1550 al 16 marzo 1551, gliel'aveva, a sua volta, ceduta), fatta propria da Giulio III - assume, in un sol giorno, il 30 marzo gli ordini tanto minori quanto maggiori per mano di Filippo Archinto, vescovo di Saluzzo e vicario di Roma, essendo poi, il 4 aprile, consacrato, in casa del cardinale Veralli, coll'assistenza del vescovo di Castro e maestro di cappella pontificia Gerolamo Maccabeo de Toscanella e del vescovo della sede corsa di Accia Pietro de Affatati, arcivescovo, appunto, di Rossano, che così beneficia - sono parole di Giulio III - d'un prelato dotato di "veste sacerdotale, in età legittima", laureato "nell'uno e nell'altro diritto", distinto "per onestà di vita e di costumi, provvido nelle spirituali come nelle temporali" faccende. Fin scontato però che Giambattista - altrove e in altro impegnato - più che tanto non potrà fare il pastore "in loco". Quando se ne interessa, lo fa da lontano. E frutto del suo interesse le indulgenze plenarie ottenute da Paolo IV guadagnabili nella festività della Madonna Achiropita (questo il nome di un'immagine miracolosa della Vergine nella cattedrale), la fondazione di diverse cappellanie di giuspatronato arcivescovile, la collocazione nel campanile nel 1554 di una grossa campana, la promossa fondazione, nel 1556, del Monte di Pietà al quale versa - primo sottoscrittore - 200 ducati. Governatore per pochi mesi a Fano - del 14 giugno 1555 il breve di Paolo IV annunciante alla città d'averla destinata all'ecclesiastico romano - prima che sia assegnata al cardinale Carlo Carafa, ha modo di raggiungere successivamente la sua remota arcidiocesi calabra quivi dandosi ad un'intensa predicazione. Ma interrotto questo sussulto di zelo episcopale dal rientro a Roma. Governatore, dal marzo del 1559 all'aprile del 1560, di Perugia e dell'Umbria, caratterizza il suo governo, che inizia coll'arresto del predecessore, il vescovo di Caiazzo Fabio Mirto Frangipani, con piglio decisamente energico specie nel procedere "severamente contro frati scandalosi" (donde il carcere ai due carmelitani "ritrovati in una camera del monastero con una donna", ad un francescano errabondo), nella riscossione dei tributi, nell'esercizio delle proprie prerogative ancorché disponga di pochi "fanti". Saggio nel comporre le controversie confinarie insorte tra Terni e Spoleto, non lo è altrettanto quando - alla morte, del 18 agosto (appresa a Perugia il 19), di Paolo IV, nel timore d'un colpo di mano sulla stessa Perugia da parte d'Ascanio della Cornia (che, peraltro, recuperata Chiusi, subito assicura di non covare intenti aggressivi) spalleggiato da Cosimo de' Medici - dispone che cento nobili armati presidino costantemente, notte e giorno, la città. E nell'assenza di pericolo dall'esterno, quel che è in pericolo è la quiete interna visto che circolano armate anche "altre quadriglie" non solo di nobili, ma di popolani. Sicché Castagna - che incautamente aveva promosso il costituirsi del presidio nobiliare a difesa contro un'insussistente minaccia da fuori - si vede costretto a vietare con un bando il "cacciar mano all'arme sotto pena di rebellione e confiscatione di tutti li beni". Ma non può cancellare l'improvvido precedente di cui è stato responsabile. Di fatto - preso dal panico per quel che avrebbe potuto fare della Cornia - promuovendo l'armarsi dei cento "primi et più nobili" perugini, ha indotto all'"armi" pure il "popolo". Donde - così, tra il critico e l'ironico, il cronista cinquecentesco locale Pompeo Pellini - l'abitudine perugina d'impugnarle coll'occasione-pretesto della sede papale vacante. Ben altro rilievo assume, invece, l'assidua costante - unica pausa la distensiva visita alle riviere gardesane, del 19-23 settembre 1562, cogli amici Paleotti e il vescovo di Pesaro Giulio Simonetta, fratello di Ludovico, il cardinale legato - partecipazione di Castagna alla fase finale del concilio di Trento, ove giunge il 14 novembre 1561 rimanendovi sino alla conclusione. Piena la fiducia in lui di Pio IV, per conto del quale il cardinale nipote Carlo Borromeo scrive, il 23 maggio 1562, al legato conciliare Simonetta perché faccia sapere a lui, a Paleotti, al vescovo di Vieste Ugo Boncompagni (il futuro Gregorio XIII) che il pontefice "tiene" di loro "particolar memoria" e che, coll'occasione, "recipient" adeguata "mercedem". Uomo di fiducia, "zelante" del "pubblico bene" Castagna, per il papa e Borromeo, il quale ultimo raccomanda, il 20 giugno 1562, a Simonetta che non gli dia "licentia" d'assentarsi perché se ne "ha troppo gran bisogno". È come dire al legato di non staccarsi da lui. E lo conferma una lettera, del 7 dicembre 1562, a Borromeo del vescovo di Viterbo Sebastiano Gualterio, ove questi assicura che Castagna assieme a Boncompagni - entrambi sono consiglieri del legato - stanno talmente addosso a Simonetta che si può dire "lo governano". Pilotante e sin arginante, par di capire, il fiancheggiamento dell'arcivescovo di Rossano. In effetti si conta a Roma sulla sua capacità di controllo, di avvertita vigilanza su quel che è l'andamento dei lavori. Ma lungo questi riconoscibile e visibile l'intervenire deciso e netto di Castagna, il quale esprime il punto di vista romano e anche le convenienze romane; ma non con la servizievole petulanza del prelato cortigiano a tutto disponibile in vista della carriera, bensì coll'intima convinzione di chi si sta battendo - e in ciò profondendo un argomentare canonistico e istituzionale - nel giusto e per il giusto. Gigantesca mostruosa manipolazione, da parte d'una Roma in mala fede, delle attese conciliari degli uomini di fede e in buona fede il Tridentino sino all'esito della loro antitetica distorsione nella Storia di Sarpi. Ma indicativa la stima del servita - che avrà la ventura di conoscere "adolescens" Castagna non senza aver modo d'interrogarlo sulla vicenda conciliare e non senza insistere perché gli chiarisca discrepanze e discordanze tra, nei decreti conciliari, le prefazioni che precedono e i testi che seguono (e Castagna in fatto di dettato è spesso intervenuto perché una formulazione "accomodetur melius in lingua latina"; così, ad esempio, nella congregazione del 13-20 ottobre 1562 sul sacramento dell'ordine, quando insiste, "ubi dicitur totam sacramenti rationem", che si elimini "totam"; è evidente che la forma dell'enunciazione può essere questione di sostanza) - proprio per l'arcivescovo di Rossano, pur così allineato colla Santa Sede, pur così collegato con preoccupazioni ed esigenze romane. Implicito riconoscimento - si può azzardare - la stima sarpiana che Castagna, a Trento, ha operato personalmente in buona fede, in coscienza, secondo coscienza. Udibile e visibile, in ogni caso, l'ecclesiastico romano a Trento e distinguibili i suoi interventi, le sue prese di posizione: è contrario a che l'"abbas polonus" - ossia Stanislaus Falescensius - sia ammesso al voto anche "pro aliis" sedici assenti di cui è "procurator"; è intransigente oppositore alla concessione del calice ai laici sino a trascendere con quanti, invece, propendono all'assenso, in accuse di cedevolezza, per fiacco cattolicesimo, ad una richiesta satura di malizia ereticale. Sicché, implicitamente, il rimbrotto rimbalza a denuncia di collusione coll'eresia nei confronti del re di Boemia Massimiliano. Rocciosamente tetragono sulla negazione del calice, su altri punti Castagna è, invece, empirico, duttile, sensibile ai suggerimenti del buon senso: sull'espellibilità o meno, ad esempio, dai conventi dei frati indisciplinati - laddove il vescovo di Nicastro Giovanni Antonio Facchinetti, il futuro Innocenzo IX, si pronuncia contro accampando la sussistenza tra monastero e professo d'una sorta d'indissolubile vincolo matrimoniale - Castagna, per quel che lo concerne, ritiene che i cattivi soggetti siano cacciabili. Il rapporto si configura, per lui, a mo' di quello tra padre e figli. Forse che il primo non può mandar via di casa il figlio ribelle e discolo? A volte il buon governo domestico l'esige. E lo stesso criterio viga nel convento: i buoni dentro, i cattivi fuori. Va da sé che, così argomentando, il nostro ha in mente la quiete del convento, non l'ordine pubblico, per il quale i frati e fratacci a spasso sono elemento di turbativa. Evidentemente a Trento non si porta dietro quelli che, pur, devono essere stati i suoi crucci di governatore. È alla Chiesa che a Trento pensa, non allo Stato, nemmeno allo Stato pontificio. Pienamente validi - laddove c'è chi tende addirittura a negarli o altri vorrebbero, senza tirare in ballo l'invalidità o la validità, delegittimare le persone a contrarli - per Castagna i matrimoni clandestini, come sostiene il 24 luglio 1563 forte di s. Tommaso e di Tommaso de Vio. E, l'11 novembre, approva sì il testo sul sacramento del matrimonio, ma, per il decreto "de clandestinis", consegna una sua "cedula", perché sia registrata. Da considerare "rationem sacramenti", aveva insistito ancora l'11 agosto: se le leggi civili deprecano e annullano i matrimoni clandestini, quelle ecclesiastiche, anche se li deprecano, non li annullano. Quanto al contrastatissimo decreto della residenza - "questo benedetto decreto", sospira, logorato dal discutere in proposito il vescovo di Zara Muzio Calini -, Castagna, che con una sua "sentenza" in proposito "diede occasione di tumulto", come riporta sempre Calini in una sua lettera del 27 agosto 1562, vorrebbe, a costo di troncare il dibattito che non accenna a finire, limitarlo alla definizione della obbligatorietà. Premesso - così il 3 dicembre 1562 nella congregazione generale sul sacramento dell'ordine - che la "iurisdictio episcoporum descendit a papa" e la "potestas autem ordinis a Deo", ecco che, nella congregazione generale del 10 dicembre, insiste sull'accantonamento del contenzioso, sì da chiudere e concludere: "Abstineo [...]" - queste le sue parole - "a quaestione quo iure sit residentia" affermando "necessitatem residentiae". Di per sé, a concilio finito, Castagna dovrebbe trasferirsi anima e corpo in quel di Rossano ad esemplare la residenza episcopale ché - "iure divino" o meno che sia il vescovo - questa è ben un dovere sancito anche col suo concorso. Ma a Trento è stato troppo prezioso alla Santa Sede perché questa non lo utilizzi con incarichi di rilevanza. Sicché, dopo una puntata rapida nella sua arcidiocesi, eccolo destinato alla Nunziatura di Spagna. E, il 20 agosto 1565, Pio IV scrive a Filippo II che gli invia a rappresentare la Santa Sede Castagna "doctrina tum vitae ac morum honestate et integritate insignem". A lui non resta che obbedire e - forte del passaporto rilasciatogli il 28 - partire. A Bologna il 18 settembre, il 19 si mette in viaggio per Barcellona che raggiunge il 24 ottobre, donde si sposta a Madrid. E quivi insediatosi, invia il suo primo dispaccio il 18 dicembre, così avviando i suoi quasi sette anni di Nunziatura. Tra i suoi compiti quello d'affiancare il cardinale legato Boncompagni per districare lo spinoso nodo della "causa toletana", ossia il braccio di ferro tra l'Inquisizione spagnola e quella romana in merito alla competenza di giudizio sull'arcivescovo di Toledo Bartolomeo Carranza di Miranda arrestato, con l'accusa d'eresia, dalla prima ancora il 22 agosto 1558. La questione è di principio. E, anche per merito di Castagna, del suo perorare, l'arcivescovo viene scarcerato il 1° dicembre 1566 e fatto partire, "insieme col suo processo", alla volta di Roma. Una volta tanto rispettata l'"autorità" della Sede apostolica da parte d'una monarchia tendenzialmente prevaricante in fatto di "iurisdittione ecclesiastica": molti, infatti, gli "aggravii" cui la sottopongono i "ministri secolari"; propensi i "consigli reali" a "metter mano in qualunque causa ecclesiastica", sin erigendosi a "giudici di appellationi et di recorsi" da indirizzarsi "solamente al papa". Arduo per Castagna fronteggiare, volta per volta, l'incessante riprodursi d'attriti, laddove - così gli scrive, il 21 luglio 1568, il cardinale Alessandrino, ossia Michele Bonelli - è Filippo II che sembra "voler esser papa" nel suo Regno. Ma lo stesso - è Castagna costretto a farlo presente più volte - "sta con grandissimo dispiacere", ché convinto sia, invece, il pontefice colui che "li voglia togliere quel che ha". Si riserba, al più, di leggere le lamentazioni romane riassuntegli per iscritto dall'arcivescovo di Rossano. Ma, quando questi fa circolare - senza suo permesso - la revoca papale delle "bolle" emanate dai prelati di Spagna, avvampa di sdegno furente e fa dire al nunzio - così questi un po' spaventato il 25 aprile 1570 - da due consiglieri regi che l'"havrebbe fatto patire et pentire dell'errore", che il suo "poco rispetto" gli sarebbe costato caro. Granitico il cattolicesimo del re Cattolico, ma concomitante all'"usurpatione" giurisdizionale a Napoli e in Sicilia, ma simultaneo ad un'"authorità ecclesiastica" duramente "tribolata hoggidì" in tutti i domini spagnoli "da per tutto" e anzitutto "anchora qui", in Ispagna, dove "patisce molto". Roma può sì pubblicare, con gran clamore, nella Pasqua del 1568, la bolla In coena Domini. Ma nel frattempo le "persone ecclesiastiche" risultano "maltrattate" sin "in le Indie" lontane, nel frattempo all'autorità pontificia - di per sé applicabile "sopra tutte le stampe in ogni luogo" - si frappone quella regia che, di fatto, fa "stampare e proibisce nelli regni suoi come gli piace". Continui gli avvisi a Castagna sul "poco conto" che si fa del clero, sulle "giurisdittioni spirituali usurpate", invase, vilipese dai "ministri regii". Magra consolazione, per il nunzio, l'esposto scritto nella fiducia che il re non lo cestini. Per lo meno sulla lettura dei suoi promemoria può contare. Per lo meno può attestare che Filippo II "suole leggere ogni scrittura che se li dà per longa che sia". Senza requie, allora, da parte di Castagna l'inoltro di puntigliosi riepiloghi dove si precisano violazioni, esorbitanze. "Io non ho lasciato [sospira ogni tanto] di continuo operarmi" in difesa della "iurisdittione ecclesiastica" così periclitante. Proliferanti le occasioni di frizione, di scontro. E - par di capire - Castagna avrebbe gradito, a Milano, un arcivescovo un po' più cauto di Carlo Borromeo, un po' più attento a non suscitare "controversie" col Senato, col governatore. Quanto al clero spagnolo il nunzio è costretto a tener conto del suo radicamento, delle sue abitudini, del suo orgoglio nei confronti di Roma, della sua soggezione all'autorità politica. Non è che sia particolarmente scattante nell'allinearsi alle disposizioni romane che egli trasmette. Da proibire - in applicazione del decreto tridentino sui duelli - "le caccie dei tori", sorta di "duelli più brutti", come si scrive a Castagna da Roma l'11 luglio 1567. Ma come ottenere la proibizione quando - come informa lui medesimo l'8 marzo 1568 - il francescano Antonio di Cordova va sostenendo, con diffusi consensi, che l'"agitatio taurorum nullum sit peccatum"? e, come, d'altronde, applicare il Tridentino, quando - così Castagna il 6 maggio 1566 - sono i canonici ad insorgere contro i "decreti" dei sinodi provinciali? Ben chiaro, comunque, al nunzio che i contrasti di giurisdizione e l'attuazione della normativa tridentina sono faccende interne ad un Regno che resta pur sempre il baluardo del cattolicesimo, sua fortezza, suo propugnacolo. Sono, allora, moti d'assestamento d'una compagine sostanzialmente sana. È l'eresia il tremendo pericolo. Perciò mette in guardia Filippo II nei confronti dell'arrivo dell'ambasciatore inglese, perciò l'esorta ad aiutare la regina di Scozia, perciò insiste reiteratamente perché si porti di persona a domare le Fiandre ribelli. E illuso per un po' Castagna quando pare il re sia intenzionato a farlo, quando, se non altro, ostenta gran preparativi in tal senso. Ma ben presto deluso il nunzio: Filippo II "dice di voler andare", però rimanda la partenza. È in atto "la maggior fictione del mondo" oppure non sa mettere in atto "il disegno suo"? Perplesso, sconcertato Castagna: "non andando [così in una lettera del 1° settembre 1567], è difficile a comprendere se il re ha simolato l'andata sua o se pure per altra causa non la metti in esecutione". Di fatto non si sente d'esprimere una pesante condanna. Sa quanto immani siano i problemi gravanti sul sovrano. Intuisce che a Roma s'esagera quando da lui si pretende l'impresa di Ginevra. Intende l'umana sofferenza del padre sottesa alla "ritentione" inflitta a don Carlos, il figlio riottoso; non è insensibile ai lutti che lo colpiscono; e non si sente di dargli tutti i torti se si irrita pel conferimento (nel 1569 da parte di Pio V che poi incorona, il 5 marzo 1570, Cosimo a Roma) del titolo granducale a Cosimo de' Medici. Filospagnolo Castagna, intimamente solidale colla fatica sotto la quale s'incurva la cupa pensosa solitudine regale. Epperò deciso nell'incalzare il sovrano perché aderisca - dopo che ha ben schiacciato la sollevazione dei "mori di Granata"; e nessuna pietà in Castagna, per questi, ma solo orrore per la loro sollevazione - al "santissimo desiderio" di Pio V a che, con egli in testa, "li principi christiani si sveglino et si riscotino contra" il Turco. S'avvia, anche con Castagna, la paziente tessitura del "negocio della lega", ancorché, ad ogni suo "caldo officio", il re replichi raggelante che "adesso" non è "tempo", che deve pensare alle Fiandre, che è impensabile la Francia - con tutti i suoi travagli interni - possa essere coinvolta. Lungi dallo scoraggiarsi il nunzio batte e ribatte sullo stesso tasto. "Generale dell'armata regia", il 29 ottobre 1567, don Giovanni d'Austria. Non è "conveniente", non è decoroso - sottolinea Castagna nelle udienze - sia a capo d'una flotta che "si sta riposando", neghittosa, inerte. Urge agire. Esiziale il dissidio tra Gian Andrea Doria - e deprecabile la defezione di questi - e Marcantonio Colonna. Perciò - così il nunzio pungolante - Filippo II si decida a troncarlo con nette perentorie istruzioni che distinguano le competenze dei due. Diffidente, sospettoso il re della Serenissima, timoroso addivenga ad un "accordo" colla Porta. Ragion di più per accelerare la stipula d'una lega vincolante. E merito anche delle pressioni madrilene di Castagna se questa vien, finalmente, conclusa a Roma il 19 maggio 1571. Si tratta, ora, di renderla operativa, combattiva. E alle sue insistenze s'aggiungono quelle del cardinale legato Alessandrino che arriva a Madrid a fine settembre. Esultante, ovviamente, il 30 ottobre anche Castagna nell'apprendere del trionfo, del 7, cristiano a Lepanto. E "sconsolato" il nunzio quando, il 27 aprile 1572, viene avvisato dell'"infermità" di Pio V. Spentosi il papa di lì a poco, il 1° maggio, sembra a lui non sopravvivere il fervore della crociata antiturca. Bloccato a Messina don Giovanni d'Austria, mentre Filippo II paventa mosse inglesi, sospetta della Francia e si cruccia pel peggiorare della situazione nelle Fiandre. Subentratogli nella Nunziatura Nicolò Ormaneto, Castagna, all'inizio d'agosto può partire e - di passaggio il 20 ottobre per Torino - rientrare a Roma, dove, a tutta prima, pare lo si voglia destinare al governo di Bologna. Una carica prestigiosa, che però preferisce evitare. Gregorio XIII è bolognese e condizionante presenza quella dei suoi parenti a Bologna; ivi governatore Castagna si sentirebbe colle mani legate. Meglio, allora, altre incombenze. E opportuno, intanto, rinunciare all'arcidiocesi rossanese. Scrupoloso Castagna nel porsi il problema della residenza, rispettoso dei dettami tridentini. E non cacciatore di prebende, non avido di denaro. Sicché non pretende alcun "reservatum", alcuna pensione. E a lui affidata da Gregorio XIII - accantonata l'idea di valersi del nostro come visitatore del Patrimonio apostolico -, con breve del 15 giugno 1573, la Nunziatura di Venezia. Appena ricevuta la relativa Istrutione, del 18, del segretario di Stato cardinale Tolomeo Galli, il 20 Castagna parte ed il 4 luglio è a Venezia. Suo compito trasmettere a Roma le notizie - dalle Fiandre, da Genova, dal Levante specie da Costantinopoli, dalla Polonia - a Venezia abbondanti e, anche, in anticipo rispetto ad altri centri della penisola. Suo dovere vigilare su presenze e di eretici e di suggestioni ereticali in una città più esposta d'ogni altra in Italia al pericolo, ché popolata, ché praticata e, quindi, "aperta" all'andirivieni delle merci, degli uomini, delle idee, delle tentazioni, delle trasgressioni, nonché, proprio perché editorialmente fiorente, sempre sospettabile della stampa di "libri pieni di errori"; e ciò sostenendo il ruolo e la funzione del Sant'Uffizio, ciò in costante contatto coll'azione inquisitoriale. Suo impegno adoperarsi - forte della capitolazione cui, a suo tempo, Giulio II ha costretta la Serenissima; ma questa non la ritiene valida - a che la giurisdizione adriatica non sia esercitata con pienezza a danno dei mercantili pontifici e della navigazione da e a i porti, specie Ancona, pontifici. Suo obbligo presidiare, di contro all'inveterata mentalità e alla plurisecolare prassi giurisdizionalistiche della Repubblica, l'immunità e l'autorità ecclesiastiche. E in proposito c'è sempre di che questionare ora perché è in ballo l'assegnazione d'un canonicato, ora perché l'autorità laica processa un cavaliere di Malta mandante d'un tentato assassinio. E sempre fomite d'attrito le "cose del patriarcato d'Aquileia", il cui patriarca Giovanni Grimani è in urto colla Repubblica. E da rimettersi al papa la "causa" del vescovo di Veglia Pietro Bembo già oggetto d'un "processo criminale" da parte del Consiglio dei Dieci. Innumeri - di per sé - "le cause" nelle quali a Castagna tocca "contrastare"; continui i "travagli" al "foro ecclesiastico", a difesa del quale il legato profonde le sue energie. "Io vado difendendo quanto posso", assicura. Ma più che tanto non può: si scontra con una "pretendentia" giustificata come "antica consuetudine", con un'"ostinatione" che affonda nei secoli, con una durezza inscalfibile, categorica "nel mantenere che non sia derogato alli ius patronati de' laici", con un'"antiqua infirmità" - quella degli "impedimenti" alla giurisdizione ecclesiastica - che non accetta cure. Non "vi è legge, né canone" che valga a correggerla, ché "basta loro", ai Veneziani, "dire così si è fatto [...] queste sono nostre leggi et consuetudini, così hanno supportato gli altri, così vi avete a quietar ancor voi", ossia pure il nunzio, pure il rappresentante d'una Roma postridentina, quindi tendenzialmente più esigente e interferente. Quasi surrogatorio, tuttavia, quest'irrigidirsi marciano sul terreno giurisdizionale della pieghevolezza nei confronti delle "conditioni" imposte dalla Porta per arrivare alla formalizzazione conclusiva della pace separata del 7 marzo 1573. E Castagna trasmette i sensi della "compassione" romana nel veder la Repubblica costretta a sperimentare la "durezza" e la "perfidia" ottomane, anche lungo le logoranti trattative per l'"accordo", anche in assenza di "guerra aperta". Disposto sì Gregorio XIII ad "aiutare in tutto quello che potrà". Ma, poiché può poco, Venezia deve cavarsela da sola. Comunque, del suo scollegarsi dalla Sacra Lega non si pente. Tant'è che - così il nunzio il 16 ottobre 1574 - "tutti", nel governo, "concordano" sul punto del mantenimento della "pace" colla Porta, anche i più "dolenti e sdegnati" per le sue onerosissime condizioni. E in vista degli accordi che le precisano, per quanto questi siano pesanti, la città, reduce dalla guerra antiturca, è pur sempre in grado di gioire di quel che comporta la "desiata pace". Frutto della fine dell'incubo bellico la sua voglia di vita, di divertimento che, il 17-27 luglio 1574, si scatena nell'accoglienza splendida ad Enrico di Valois rientrante dalla Polonia per assumere la Corona di Francia. La città tutta si trasforma in strepitoso spettacolo, s'impenna in tutta la sua capacità di fasto. E, con soddisfazione di Castagna, ne è gratificato pure il legato papale ad hoc, il cardinale di S. Sisto Filippo Boncompagni, nipote di Gregorio XIII, che quattro "galere [...] molto belle" con a bordo un gran numero di senatori "vestiti di cremesino" si recano a "levare" a Chioggia per condurlo a Venezia. Questa è "tutta" immersa "in feste et piaceri", sinché durano i quali non c'è modo di "negotiare", annota Castagna quasi dispiaciuto. È troppo abituato ad impegnarsi per abbandonarsi ai divertimenti. Solo che di lì ad un anno, è la peste ad intercettare la sua attività diplomatica. Tra i primi a segnalare il "sospetto" d'epidemia, è costretto, suo malgrado, a farsi cronista del procedere di questa: prima, tra fine luglio e ottobre del 1575, lo stillicidio dei morti "dentro di Venetia", poi, in novembre, la "peste formale", la "peste vera". Vano il minimizzare del governo marciano. "Chi dice hoggi [così Castagna il 10 dicembre] non sia nessuna peste in Venetia, dice una gran eresia". E falcidiante il suo imperversare nel 1576. "Le cose di Venetia non possono hormai andar peggio", mancandovi sin la "terra" a "coprire li cadaveri", scrive il 27 luglio, da Luvignano, presso Padova, dov'è appena riparato. E da qui, il 2 agosto, si trasferisce negli immediati pressi di Vicenza, scampata, "con tutto il suo territorio", come testimonia lui medesimo il 10 settembre, "per gran favore di Dio", al "mal contagioso" che attorno stermina "debbaccando" mortifero. Senza più tornare a Venezia ove si continua a morire, Castagna, scritta il 15 dicembre una lettera di commiato al doge, parte il 18 da Vicenza raggiungendo, il 22, Bologna. E in questa si ferma ché, dopo la "legatione" lagunare, l'attende il "governo" della città - conferitogli con apposito breve da Gregorio XIII; e, questa volta, non può schivarlo -, di cui prende ufficialmente "possesso" il 5 gennaio 1577. E l'arcivescovo Paleotti - che sa quanto, anche nella pontificia Bologna, proprio da chi provvede al "governo" possano nascere "impedimenti et grandi" a che "il vescovo" faccia l'"officio suo", sicché questi dispone sì della mitra, ma non del correlato bastone per l'esercizio pieno dell'autorità episcopale, da Paleotti, peraltro, intesa in termini talmente estensivi, da essere accusato di voler "fare il padrone a Bologna" -, di Castagna amico e in Castagna fidente, si premura di fargli avere un memoriale prospettante la feconda collaborazione tra direzione spirituale e temporale. Ma quegli rimane a Bologna poco più d'un anno, troppo poco perché quanto auspica Paleotti si realizzi. E pare lo si richiami a Roma, d'altronde, proprio perché giudicato governatore di poco polso, non sufficientemente energico, forse troppo condizionato dal protagonismo di Paleotti. E, invece, in Ispagna e a Venezia è stato valido rappresentante della Santa Sede. È la veste di nunzio quella che si addice a Castagna. E l'indossa per la terza volta, quando Gregorio XIII - accogliendo un'indicazione spagnola, che, di rimbalzo, irrita Rodolfo II - lo designa, così le generiche istruzioni del 29 agosto 1578, a "rappresentare", in quel che sarà il "convento", pel momento ancora vago e aleatorio, "per la pacificatione di Fiandra", il genuino spirito di "carità" del pontefice. Accorato questi dalle "turbolenze" di Fiandra, desidera ardentemente che alla "sospension" d'armi segua lo "stabilimento della pace". E poiché la mediazione sarà imperiale, di fatto a Castagna è affidato il compito di controllare che, pur di conseguirla, non si transiga in fatto di "religione". Lasciata Roma il 9 settembre, raggelante per lui apprendere, il 23, a Trento dal cardinale Ludovico Madruzzo che, se la sua missione è quella d'"assistere" - investito d'"autorità papale" - continuatamente "a tutte le trattative del negotio", non è affatto scontato possa farlo adeguatamente: molto "difficilmente" l'imperatore vorrà "sia admesso con gli elettori al trattato". Per quanto scoraggiato Castagna prosegue il suo viaggio e, passando per Innsbruck, il 26 ottobre è a Praga. Freddo con lui, sin dalla prima udienza, Rodolfo II: a Castagna che insiste essere il "principal punto" della negoziazione che questa non comporti il benché "minimo preiudicio della religione cattolica", quello replica che - in una situazione in cui "le cose della religione in quelle parti sono già in pessimi termini" - per arrivare e pur di arrivare alla pace è da "tentar ogni via". E non è - questo è sottinteso - che intenda avviare i propri tentativi avendo a fianco il nunzio come mentore e tutore. Imbarazzante per Castagna essere giunto a Praga quando nessuna trattativa è realmente in corso e senza che, comunque, sia ipotizzabile qualcosa di surrogatorio per giustificare la propria venuta. Sicché non sa che fare né che fingere di fare. Non gli resta che constatare, scrivendo a Roma il 10 novembre, "che il negotio è tanto acerbo che si meravigliano molti come la mia mossa di Roma sia stata così intempestiva et di repente senza haver prima certa notitia che il trattato fusse per seguire et quando". E nel frattempo poco lume gli reca quanto gli scrive, il 25 ottobre, il cardinale Galli: "molte cose riescono diversamente da quello che si era presupposto qui", a Roma; e, allora, veda d'arrangiarsi, "sappi", insomma, "proveder agli accidenti et pigliar consilium in arena". Nell'andar "differendosi" del "convento imperiale" per l'"accomodamento" delle "cose di Fiandra" Castagna rimane a Praga sino al 28 febbraio 1579. Di qui raggiunge, il 18 marzo, Augusta e, quindi, Monaco, ad "intendere il parere" del duca di Baviera Albrecht V per poi portarsi, il 1° aprile, a Colonia sede dell'imminente "congresso", nel quale sta ai commissari imperiali, tutti "principi dell'impero", tradurre la loro funzione arbitrale nella stesura degli "articoli" e "capitoli" fissanti il "trattato di concordia". Presa dunque stanza, presso i Certosini, a Colonia - e perché "sia cattolica", a giudizio di Castagna, necessiterebbero la cacciata dei maestri di lingua francese, tutti propagandanti il calvinismo di soppiatto, il divieto delle "conventicole" in "case private", un più severo controllo dell'Università, l'intensificazione della predicazione, il rafforzamento della presenza gesuitica ancorché malvista dal "clero" locale; e da lui minimizzati i sospetti sull'arcivescovo Gerhard von Truchsess e sospettabili d'eresia, semmai, a suo avviso, i canonici -, Castagna evita "destramente" d'enfatizzare il "capo della religione" ad evitare non si imputino alla Santa Sede responsabilità dirette. Solo che vorrebbe da Roma "un qualche ordine", una qualche precisa istruzione. Ma Galli non sa che dirgli: "non possiamo darle altro aiuto se non di pregar Dio", gli scrive il 13 giugno. Certo che, sfumando l'obiettivo della "concordia", è inutile s'adoperi a premere perché "la voglia di questa benedetta pace" non induca a cedimenti sul terreno religioso. Della "pace generale" oramai "non se ne parla più", constata il 23 ottobre. Al più confidabile, visto che il "convento" si scioglie senza aver "conseguito il fine", le "conditioni et capitoli qui", a Colonia, redatti "da principi dell'imperio non interessati" al conflitto, non parte in causa di questo, possano fare in futuro da riferimento. Un'osservazione formulabile anche da Roma, senza portarsi - come ha fatto Castagna; e non per colpa sua, ma in obbedienza a quanto ordinatogli - a Colonia. Inutile, di per sé, il suo portarvisi. Castagna "si potrà consolare" - così agrodolce Galli il 28 novembre - pensando che, sia pure a vuoto, ha servito Dio e il suo vicario e che la sua missione, ancorché vana, gli sta fruttando la "scienza" di rigidi climi, sì da saper, quanto meno, stabilire "se sia più freddo" l'Elba "o vero" il Reno. Non gli resta che rientrare. Lasciata, il 2 dicembre, Colonia, ci mette un mese - ragioni di sicurezza impongono un itinerario tortuoso - ad arrivare, il 2 gennaio 1580, ad Augusta donde, il 4, scrive a Filippo II, che, approfittando del buon rapporto instaurato "con l'eletto arcivescovo di Colonia", l'ha costantemente consigliato "che si stringa quanto può nella servitù con Vostra Maestà". Filospagnolo Castagna, è convinto così di guadagnarsi la benemerenza del re. Ipotizzabile che, alla luce delle successive vicende di Truchsess, di questa sua incauta lettera abbia avuto modo di pentirsi. Di nuovo a Roma, è dei diciannove cardinali creati senza consultare il Collegio dei porporati, il 12 dicembre 1583, da Gregorio XIII; e lo contraddistingue la titolarità della chiesa di S. Marcello da lui assunta il 13 gennaio 1584. Già "arcivescovo di Rossano" - come lo indica nel dar notizia dei neoporporati l'ambasciatore veneto presso la Santa Sede Lorenzo Priuli -, Castagna è ora il cardinale di S. Marcello. Cardinal legato a Bologna, morto, il 10 aprile 1585, Gregorio XIII, partecipa al conclave - e, in prima battuta, figura tra i papabili favorito com'è dai due nipoti del defunto pontefice - che il 24 elegge, con Sisto V (della cui candidatura, comunque, Castagna non figura tra i promotori), il successore. Confermato legato a Bologna, membro della Congregazione dell'Inquisizione - e dedicatario del Repertorium inquisitorum pravitatis haereticae (Venetiis 1588) -, di quella dei Vescovi, di quella degli Affari dello Stato ecclesiastico, non è, però, nelle grazie di papa Peretti. È Castagna, comunque, il revisore, l'8 giugno 1585, della minuta del cardinale datario Matteo Contarelli, sicché è da considerare anche di suo pugno il testo della sentenza di condanna contro Enrico di Navarra pronunciata dal papa il 27 nella seduta solenne, al Quirinale, dei cardinali dell'Inquisizione e resa pubblica il 9 settembre. Morto, il 27 agosto 1590, Sisto V e iniziato, il 7 settembre, il conclave per l'elezione del successore, la sconfitta dell'ambiziosa autocandidatura del cardinale Marcantonio Colonna avvantaggia Castagna la cui affermazione si fa consistente. La contrasta, però, il cardinale Alessandrino, ossia Michele Bonelli, non senza - così il rappresentante veneto Alberto Badoer, informatissimo da fuori su quel che avviene dentro - riesumare presunte colpe che ne avrebbero macchiato il passato. "Mentre era scolaro a Bologna" avrebbe ammazzato un tale. Da una sua relazione con una donna gli sarebbe nata una figlia attualmente sposata "nella terra d'Acquapendente". Ma subito deterse le due macchie: da escludere assolutamente l'esistenza d'una figlia naturale di Castagna; negato pure l'assassinio allegando "un breve assolutorio da ogni irregolarità". Par di capire che ci dev'essere stato un fatto di sangue, dal quale però non sono emerse responsabilità tali da farlo condannare. Forse s'è trattato di legittima difesa. Fastidiosa, comunque, la manovra intercettante del cardinal Bonelli (già determinante nell'elezione di Sisto V, ora s'affanna a caldeggiare il cardinale Aldobrandini, il futuro Clemente VIII), ma anche sventata. Pericoloso rivale per Castagna il cardinale di S. Severina Giulio Antonio Santori, ché, in sede di votazione, pare, per un po', contendergli i voti. Ma giocano a suo favore l'appoggio del cardinale Francesco Sforza e il gradimento allargato di cui gode. "S. Marcello" - così Badoer il 14 settembre - è "favorito sopra tutti gl'altri" dal granduca di Toscana, "non lasciato da spagnoli" e "desiderato" dal duca di Mantova. Nel contempo a lui guardano "volentieri" i cardinali veneti; e la "fattione gregoriana" - i cardinali, cioè, che, come lui, debbono la porpora a Gregorio XIII - lo vota compatta, "tutt'unita". Sbloccate le residue difficoltà - il cardinale Federico Corner convince il cardinale Ludovico Madruzzo a dar via libera al confluire dei voti su Castagna; già liberati a suo favore i voti pilotati dal cardinale Montalto, ossia Alessandro Peretti, pronipote di Sisto V; s'aggiunge l'assenso, con un sospiro, del cardinale Ascanio Colonna -, il 15 viene elevato al soglio col nome di Urbano VII. Un'elezione che, da un lato, conferma la linea di tendenza in virtù della quale vengono preposti al culmine della Chiesa non più prelati di potente famiglia romana e palesemente sostenuti dalle grandi corti o espressione d'una sola, bensì personalità dalla formazione giuscanonistica collaudata da carriera curiale; e che, dall'altro, è indicativa d'una presa di distanza, sin d'un'inversione di rotta nei confronti dei criteri ispiranti il pontificato del predecessore. E sin rottura colla prassi da questi instaurata le primissime disposizioni di Castagna, specie quella revocante la sistematica oppressione fiscale. E subito animato U. da voglia di fare: "ha già principiato [informa il 22 Badoer] a far poner mano alle cose di dataria havendo fatto datario" monsignor Lucio Sasso e "deputati quattro cardinali" alla riforma della Dataria. E uno di questi è il cardinale Ippolito Aldobrandini, il futuro Clemente VIII. E subito sollecito dei poveri e anche magnanimo col cardinale Bonelli, che pur con accuse - se non calunniose, non sufficientemente fondate - aveva tentato di stornare il convergere su di lui dei suffragi. E subito indifferente allo scatenarsi degli appetiti dei parenti il neopontefice. E come rasserenata dalla sua nomina e in lui fiduciosa la stessa città di Roma. Ma ciò per pochissimo. Già il 18 l'aggredisce una febbre a carattere malarico; e i medici non riescono a ricacciarla. Sicché s'aggrava sino a stroncarne la vita il 27, "ante hora XII". Roma piomba nel lutto. E Sarpi - che a Roma, nel 1588, come procuratore dell'Ordine dei Serviti aveva avuto con lui frequenti incontri; si può parlare di stima reciproca e anche d'amicizia; e se Micanzio, l'amico e biografo di Sarpi, attribuirà a U. "mansuetudine più che umana", risente, evidentemente, d'un giudizio che è stato di Sarpi -, nell'apprendere della repentina scomparsa, avrebbe esclamato: "ideo raptus est, ne malitia mutaret intellectum eius". Un riconoscimento delle qualità di U. morto giusto in tempo per serbarle integre: troppo pochi i dodici giorni di pontificato per essere guastato da una carica che Sarpi considera inquinante. Tumulato dapprima a S. Pietro e quivi oggetto, il 6 ottobre, d'un'orazione funebre di Pompeo Ugonio, le sue spoglie saranno trasferite, il 21 settembre 1606, nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, sede della Confraternita dell'Annunziata alla quale U. - nelle sue disposizioni testamentarie - aveva destinato i 30.000 scudi dell'asse paterno. E, nella cappella a lui dedicata, è la statua eseguita da Ambrogio Buonvicino a fissarne col marmo l'immagine. Fonti e Bibl.: A.S.V., Segr. 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