Usain Bolt. Il velocista tutto d’oro
È l’unico corridore della storia ad avere vinto sia i 100 che i 200 metri in due Olimpiadi. 26 anni, giamaicano, ha ridato smalto all’atletica leggera, rivelandosi un modello di campione nuovo, disinvolto e anche un po’ svogliato.
In un tempo in cui l’atletica leggera, ovvero la disciplina che veniva giustamente definita la regina delle Olimpiadi, è stata offuscata da sport più telegenici secondo i gusti sempre più sincopati e compulsivi del pubblico televisivo, Usain Bolt irrompe sulla pista come il salvatore, il supereroe del riscatto, l’uomo-immagine che restituisce luce e gloria all’antico mondo della corsa a piedi.
Ma è davvero così? È questo il messia di cui avevamo bisogno? Procediamo per gradi. Innanzitutto il gesto atletico. Non è possibile capire come il velocista giamaicano arrivi a compiere le sue imprese, ancor meno comprensibile è la disinvoltura con cui gli riescono. Uomini con leve così lunghe mai erano stati in grado di sviluppare una simile velocità di punta (44,72 km/h), né di mantenere quell’assetto perfetto nella curva dei 200 senza cedere alla forza centrifuga.
Nessun esperto di biomeccanica sa darsi una spiegazione e può solo restare a bocca aperta insieme a noi mentre Bolt mette i suoi 41 appoggi sul tartan e taglia il traguardo dei 100 metri sempre più vicino ai nove secondi e mezzo.
A Londra il 5 agosto vince i 100 metri doppiando il successo olimpico di Pechino 2008. Lo fa senza spingere negli ultimi metri, mettendosi il dito davanti alla bocca nel gesto di zittire le voci che alla vigilia dei Giochi ne insinuavano una forma scadente. Quattro giorni dopo ottiene l’oro anche nei 200 metri con l’ennesimo split da androide (19”32), diventando l’unico velocista della storia ad aver vinto in due Olimpiadi sia i 100 che i 200. Ma non è finita: l’11 agosto compie un’impresa ancora più marziana contribuendo in modo decisivo a conquistare l’oro della staffetta 4x100 e a stabilire il nuovo record mondiale della specialità.
Il fatto è che Usain Bolt non è un androide né un extraterrestre. Bolt è un ragazzo dei Caraibi cresciuto a riso e pollo. Ama il calcio, la Ferrari, gioca alla playstation ed è piuttosto svogliato (cosa che pregiudica al momento la possibilità di allenarlo sui 400, distanza più congeniale alla sua falcata ma estremamente esigente verso l’atleta quanto a spirito di sacrificio). Insomma, parliamo di un ragazzo di 26 anni dotato di parametri fisici fuori dal comune, ma identico per gusti e comportamenti ai giovani che ci circondano in casa, per strada, in metropolitana.
È questo l’aspetto più interessante e al tempo stesso più controverso del fenomeno Bolt: la sua niente affatto scontata contemporaneità, la propensione a uno sport spettacolare, conforme alle esigenze dei media, capace di divertire con pantomime e numeri da circo. Uno sport che sa bucare lo schermo.
Ecco allora che la luce ritrovata dall’atletica grazie agli exploit del giamaicano rischiara uno stadio nuovo, caratterizzato da modi di espressione completamente inediti, rispondenti ai canoni della società odierna.
Le smorfie, gli scherzi, i messaggi mimati che hanno contraddistinto Usain Bolt sin dal suo esordio sulla scena internazionale (Atene 2004) sono stati subito imitati dalla maggioranza degli altri atleti.
Si è creata una tendenza all’estroversione e alla megalomania. Ora, quando la telecamera passa in rassegna i velocisti in piedi dietro i blocchi di partenza, non inquadra più otto volti concentrati, indecifrabili, chiusi nel proprio training autogeno.
Ora ci sono otto ragazzi che si adoperano per costruirsi un personaggio, mettendo in quei pochi istanti di mondovisione tutto quello che possono fare per essere ricordati: boccacce, baci, occhiolini, dichiarazioni col linguaggio dei segni. Campioni guasconi, campioni burloni, campioni buffoni.
Fine del soliloquio interiore, fine della trance agonistica. Ed è paradossale che ad aver portato la sottocultura del wrestling americano nella composta sobrietà dell’anello di atletica sia un ragazzo che, anche semplicemente provando qualche scatto di riscaldamento, trasmette tutta la poesia del gesto e di fatto rende omaggio allo sport che lo ha reso grande. Usain Bolt ha attirato i riflettori dello show business su un’atletica in stato terminale: il futuro ci dirà se ne valeva la pena.