Uscire da Tangentopoli
Gli scandali dell’Expo e del Mose rivelano che i vecchi meccanismi della corruzione in Italia non solo sono sopravvissuti, ma si sono affinati con il moltiplicarsi delle leggi: il nostro paese vive il paradosso che il maggior numero di regole è sinonimo di illegalità diffusa. Eppure basterebbe imitare Germania o Francia.
Dal 2009, quando l’allora procuratore generale della Corte dei conti Furio Pasqualucci definì la corruzione «una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini», va avanti un dibattito surreale sulla dimensione del fenomeno. Il ministero della Funzione pubblica l’aveva quantificata in 60 miliardi l’anno, una cifra declassata poi dalla stessa Corte a semplice dato orientativo. Ma se pure le valutazioni ‘orientative’ fossero esagerate, che l’Italia abbia in questo campo un triste primato è fuor di dubbio. Basta rileggere le parole pronunciate nel 2012, a 20 anni esatti dalle inchieste di ‘mani pulite’, dal presidente della magistratura contabile Luigi Giampaolino: «Illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolmente presenti nel paese, le cui dimensioni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono, spesso faticosamente, alla luce».
Ciò che sorprende è la frequenza con cui allarmi simili vengono ripetuti, senza però risposte concrete. La corruzione continua a dilagare negli appalti pubblici, come stanno a dimostrare le inchieste della magistratura sull’Expo 2015 e sul Mose, il sistema di dighe mobili che dovrebbe difendere la città di Venezia dall’acqua alta.
Per individuare il gene che ha prodotto questo tumore all’apparenza invincibile è necessario tornare al 1993-94, quando in piena bufera di Tangentopoli si tentò di moralizzare quel meccanismo collaudatissimo del quale le pratiche illegali erano elementi fondanti almeno dall’inizio degli anni Settanta. Tra i vari paletti che la legge Merloni avrebbe voluto fissare ce n’era uno destinato a rafforzare enormemente la capacità di controllo su gare e licitazioni. Si trattava della drastica riduzione delle stazioni appaltanti dei lavori pubblici dalle attuali circa 30.000 a una ventina appena: una per Regione. Lì sarebbe stato concentrato il potere di bandire le gare, privando le amministrazioni locali, quindi la politica, di ogni tentazione.
Durante il dibattito parlamentare questa disposizione fu tra le prime a venire accantonata: nessuno voleva mollare il potere di gestire gli appalti. Da allora, anziché semplificarsi, il sistema è diventato sempre più complesso. Le leggi si sono susseguite alle leggi, alle circolari, ai regolamenti. Con il paradosso che il paese con il maggior numero di regole e norme è anche quello nel quale l’illegalità è più diffusa. Il tutto in una pressoché totale assenza di controlli, tanto a livello locale quanto centrale. Assolutamente inefficace si è rivelata anche l’azione dell’autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, istituita con la funzione di gendarme degli appalti ma ridotta a struttura con l’unica funzione di distribuire incarichi e poltrone. Al punto che il governo Renzi l’ha disciolta nell’Autorità nazionale anticorruzione affidata al magistrato Raffaele Cantone. Dopo Tangentopoli, insomma, i vecchi meccanismi del malaffare non soltanto sono sopravvissuti, ma si sono anzi affinati con la collaborazione dei legislatori nazionali e regionali.
Più i meccanismi si fanno complicati, più aumenta il numero dei soggetti che su ogni singola opera può esprimere diritto di veto (in qualche caso si è arrivati fino a 38), più cresce il potere di ricatto, più si allungano i tempi, più salgono i costi. Più si moltiplicano, di conseguenza, le occasioni di corruzione e concussione. Per non parlare della valanga di ricorsi, controricorsi, arbitrati e varianti in corso d’opera.
Nulla ha potuto neppure la famosa ‘legge obiettivo’ voluta all’inizio degli anni Duemila dal secondo governo Berlusconi, rivelatasi del tutto inutile per realizzare le infrastrutture in tempi e con costi certi.
Ma il quadro è ancora più diabolico.
Siccome le regole ordinarie sono così intricate da non fornire alcuna certezza, ecco allora il ricorso frenetico ai commissariamenti, alle concessioni, alle procedure straordinarie. Le quali consentono ampia discrezionalità nelle decisioni e a loro volta di nuovo, e forse ancora di più, spalancano la porta a illeciti di ogni tipo. Non è un caso che gli appalti dei Grandi eventi gestiti con le procedure di Protezione civile siano finiti nel mirino dei magistrati. Così come il Mose di Venezia, un’opera finanziata con miliardi pubblici e la cui realizzazione è stata affidata senza gara a un consorzio privato, e l’Expo 2015, dove il commissariamento non ha potuto evitare lo scandalo.
La diagnosi è dunque nota da sempre. Tutti conoscono la ricetta per stroncare la corruzione: trasparenza e semplificazioni. Ma nessun governo dei tanti che si sono succeduti dopo la stagione di ‘mani pulite’ l’ha mai voluta davvero adottare. Perché tutto il sistema, evidentemente, doveva continuare a funzionare così, in un impasto incestuoso fra politica, imprese e apparati burocratici. Con l’unica differenza che anziché finanziare prevalentemente i partiti, come un tempo, le bustarelle sono diventate funzionali agli interessi di lobby affaristiche, gruppi di potere, singole persone. Inquietante e significativo è il riemergere nelle inchieste sulle mazzette dell’Expo 2015 degli stessi personaggi già noti all’epoca di Tangentopoli.
Eppure per stroncare questo fenomeno indecente sarebbe sufficiente copiare quello che hanno fatto altri paesi. Basta osservare come funzionano le cose in uno stato federale come la Germania o centralista come la Francia. Tempi tassativamente certi per la conclusione dei negoziati fra i vari soggetti interessati: senza escludere nessuno, ma con decisioni prese a maggioranza senza diritti di veto.
Ricorsi giudiziari esauriti anch’essi in termini rigorosi e senza interrompere l’iter delle opere.
Progetti definitivi eseguiti con professionalità e accuratezza che impediscano lo stillicidio delle varianti in corso d’opera e dei contenziosi. Meccanismi per l’aggiudicazione delle gare che prescindano dal massimo ribasso rispetto alla base d’asta, privilegiando invece la reale concorrenza, la qualità dell’offerta e la serietà dell’impresa. Una riduzione drastica delle stazioni appaltanti, com’era previsto inizialmente dalla legge che portava il nome dell’ex ministro dei Lavori pubblici Francesco Merloni. Infine, controlli efficaci. E nessuna procedura straordinaria, nessun commissario. Soltanto regole normali. Ma civili e giuste.