USI CIVICI
. Sono diritti di godimento, quali, ad esempio, quelli di seminare, pascolare, legnare e simili, che gli abitanti di un comune o di una frazione di comune esercitano uti singuli et uti cives, sulle terre appartenenti al comune, alla frazione o ai privati.
Essi ripetono la loro origine dal collettivismo agrario romano e germanico, ma il loro massimo sviluppo si ebbe nel feudo, a causa della speciale organizzazione di questo istituto, nel quale gli usi civici, insieme con la colonia perpetua, rappresentavano il modo con cui i vassalli del barone si procacciavano i mezzi necessarî alla loro esistenza. Di qui la presunzione giuridica "ubi feuda ibi demania" cioè, dove vi è il feudo, vi sono gli usi civici (demanî feuda). Nel periodo dei comuni, sottentrati questi nei diritti dei feudatarî, si costituirono i demanî comunali, sui quali gli abitanti esercitarono diritti di godimento collettivo che, spettando ad essi per la loro qualità di cittadini del comune, erano denominati usi civici: con varia terminologia poi, secondo i diversi luoghi e il diverso contenuto dei diritti stessi, erano detti vagantivo, erbatico, legnatio, ecc. Durante il sec. XVIII gli usi civici vennero molto combattuti dalla dottrina economica dell'epoca, essendo ritenuti proprietà privata e dell'agricoltura. I suoi principî furono seguiti dai sovrani illuminati del secolo, i quali inizíarono tutta una serie di riforme tendenti appunto a liberare la proprietà da tali servitù, rifarme che s'intensificarono nei secoli successivi. Ciò non ostante, gli usi civici continuarono a esercitarsi sopra una sterminata superficie di terreno, e l'applicazione delle leggi di abolizione è stata spesso causa di gravi agitazioni agrarie, anche cruente, le quali, mentre turbavano l'ordine pubblico, intralciavano il progresso agricolo e davano un carattere d'incertezza alla proprietà.
Il governo italiano si propose di fare una riforma, che tuttavia non ebbe inizialmente carattere unitario ma soltanto regionale e particolaristico. Così si ebbero le leggi del 1888 (testo unico 1891) e del 1894 per le provincie ex-pontificie, e quelle del 1882 e 1885 per il Veneto e per il Piemonte. Per il Mezzogiorno e la Sicilia, invece, continuava ad avere vigore la legislazione del periodo napoleonico, con aggiunte e modificazioni fatte successivamente dal Regno d'Italia.
Col r. decr. legge 22 maggio 1924, n. 751, trasformato in legge 16 giugno 1927, n. 1766, il governo italiano ha sistemato definitivamente la materia degli usi civici. Questa legge, prima della sua approvazione, è stata lungamente e vivacemente combattuta. In essa si ebbe l'ultimo cozzo del latifondismo contro le popolazioni rurali.
La legge fascista ha il grande merito di avere dato, per la prima volta, l'unità alla legislazione degli usi civici e di avere tolto di mezzo ogni causa di contrasti fra proprietarî e lavoratori della terra; di avere sostituito e imposto la coltura intensiva a quella vaga e di rapina; di avere offerto il mezzo più sicuro per la trasformazione del latifondo in proprietà private, attraverso la prova dell'enfiteusi, con l'ausilio, l'assistenza tecnica e la tutela dello stato, prevenendo così l'inconveniente, già verificatosi nel Mezzogiorno, dove il quotista soleva liberarsi, subito e a vile prezzo, della terra concessagli, che ritornava così al latifondo, mentre il contadino trovava rifugio nell'emigrazione.
Secondo questa legge sono aboliti tutti gli usi civici e i diritti di promiscuo godimento mediante un compenso in natura, ossia in terre, eccezionalmente in denaro, la cui entità varia a seconda che si tratti di usi essenziali, ossia necessarî per i bisogni della vita, e di usi utili, ossia aventi in modo prevalente carattere e scopo d'industria. Appartengono alla prima classe i diritti di pascere, di legnare e fare carbone per uso domestico, di seminare mediante corrisposta al proprietario, di pescare, di far calce, di estrarre pietra per i bisogni della famiglia, e simili. Appartengono alla seconda classe i diritti di raccogliere o trarre dal fondo i prodotti per poterne fare commercio, di pascere in comunione col proprietario e per fine anche di speculazione, di seminare senza corrisposta, e, in generale, di servirsi del fondo in modo da ricavarne vantaggi economici, che eccedono quelli che sono necessarî al sostentamento personale e famigliare.
Le terre date in compenso degli usi civici ai comuni, se boschive e pascolive, continuano a essere soggette agli usi delle popolazioni, ma soltanto per quanto sia necessario ai bisogni domestici e secondo le norme stabilite nel regolamento locale; invece, le terre coltivabili vengono quotizzate e concesse ai cittadini del comune, secondo un piano economico, in enfiteusi, e potranno essere affrancate soltanto quando le migliorie saranno state eseguite e accertate.
L'accertamento e la liquidazione degli usi civici vengono fatti da una magistratura speciale, denominata r. commissario per la liquidazione degli usi civici, che svolge funzioni amministrative e contenziose. Contro le sue decisioni in contenzioso si può ricorrere alla sezione speciale degli usi civici, istituita presso la corte di appello di Roma, e avverso le sentenze di questa è ammesso il ricorso per cassazione.
Bibl.: Una completa bibliografia sugli usi civici si trova in G. Curis, Usi civici, proprietà collettive e latifondi, Napoli 1917, a cui si deve aggiungere dello stesso autore, Gli usi civici (Le leggi fasciste, I), Roma 1928, VI, che commenta la vigente legge relativa all'ordinamento degli usi civici.