Abstract
La disciplina dell’uso della forza nell’ordinamento internazionale è esaminata alla luce delle norme convenzionali e consuetudinarie applicabili. In particolare sono considerati la natura, il contenuto e la portata del divieto sancito nella Carta delle Nazioni Unite e l’impatto sulla corrispondente norma consuetudinaria. Accanto alle eccezioni al divieto di uso della forza previste nella Carta delle Nazioni Unite (legittima difesa e azione deliberata dal Consiglio di sicurezza), è valutata l’ammissibilità di ulteriori eccezioni di natura consuetudinaria al divieto di uso della forza, riconducibili a categorie classiche del diritto internazionale generale (consenso, necessità) o a figure emergenti quali l’intervento di umanità e la responsabilità di proteggere.
Il diritto internazionale anteriore al XX secolo non poneva limiti giuridici significativi all’uso della forza armata da parte degli Stati. Sul piano teorico, i tentativi di inquadramento della materia da parte della dottrina classica erano caratterizzati dal ricorso a categorie morali ed extra-giuridiche, quali la nozione di “guerra giusta”. Sul piano giuridico, gli strumenti esistenti si preoccupavano di disciplinare gli effetti della guerra tra Stati, stabilendo regole applicabili al periodo delle ostilità (ius in bello, v. Conflitti armati), senza curarsi del fondamento giuridico del ricorso alla violenza bellica (ius ad bellum). Inoltre, era ampiamente ammesso in tempo di pace il ricorso da parte degli Stati a misure militari “short of war”, di entità inferiore alla vera e propria guerra, che si sottraevano all’applicazione delle regole dello ius in bello, per essere inquadrate in categorie generali quali l’autotutela, la rappresaglia armata, l’intervento a protezione di cittadini all’estero, lo stato di necessità.
Agli albori del XX secolo si registrano i primi tentativi tesi a limitare il ricorso degli Stati a misure militari in contesti extra-bellici (v. ad es. la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907 riguardante la limitazione dell’impiego della forza per il recupero dei debiti contrattuali, in AJIL, Supplement, 1908, 81-85) o a circoscrivere e limitare il diritto degli Stati di ricorrere alla guerra (v. artt. 10-15 del Patto della Società delle Nazioni del 28 aprile 1919, ibidem, 1919, 128-140, e, in senso più radicale con riferimento alla guerra di aggressione, il Patto generale di rinuncia alla guerra del 27 agosto 1928, ibidem, 1928, 171-173). Solo a seguito del II conflitto mondiale un divieto generalizzato di ricorso alla forza nei rapporti tra Stati è sancito a livello convenzionale con la Carta delle Nazioni Unite (“Carta ONU”, in particolare art. 2, § 4). Nella Carta ONU, tale divieto generale di uso della forza è logicamente collegato al sistema centralizzato di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di sicurezza (CdS). L’esistenza del legame è confermata dal fatto che le uniche eccezioni al divieto sono integrate, da un lato, dalle misure coercitive autorizzate dal CdS ai sensi del Capitolo VII della Carta per mantenere o ristabilire la pace internazionale (art. 42 della Carta; v. Autorizzazioni all’uso della forza (dir. int)) e dall’altro, dal riconoscimento, in capo allo Stato vittima di un attacco armato, del diritto naturale di legittima difesa, a sua volta però destinato a cessare non appena il CdS abbia adottato efficaci misure per il ristabilimento della pace (art. 51 della Carta).
Il divieto, anche a seguito della reiterazione, in successive risoluzioni adottate all’unanimità dall’Assemblea generale, della proibizione contenuta all’art. 2, § 4, della Carta ONU (v. la ris. 2625 del 1970 contenente la cd. Dichiarazione sulle relazioni amichevoli tra Stati, la ris. 3314 del 1974 contenente la Definizione di aggressione e la ris. 42/22 del 1987 contenente la Dichiarazione sul rafforzamento dell’efficacia del principio che vieta la minaccia o l’uso della forza nelle relazioni internazionali), ha acquisito altresì natura consuetudinaria e portata generale. La Corte internazionale di giustizia (CIG), nella sentenza sulle Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua (Nicaragua c. Stati Uniti) del 27.06.1986, ha riconosciuto l’effetto “trascinante” della Carta e delle successive risoluzioni dell’Assemblea generale sul consolidamento di una norma consuetudinaria proibitiva dell’uso della forza (in ICJ Reports, 1986, 96-97, §181). Al contempo, la Corte ha chiarito che le due fonti, pattizia e consuetudinaria, pur sovrapponendosi parzialmente, mantengono un’esistenza separata e non hanno lo stesso identico contenuto (ibidem, 94, § 176). L’esistenza di questa duplicità di fonti, pattizia e consuetudinaria, in linea di principio paritarie, rappresenta una delle cause di maggiore tensione nella disciplina dell’uso della forza in diritto internazionale: è infatti possibile che la norma non scritta, per effetto di una prassi e di una opinio iuris sopravvenute all’entrata in vigore della Carta ONU, acquisisca un contenuto divergente e più permissivo del corrispondente principio iscritto all’art. 2 § 4. Tale eventualità ha trovato riscontro nella posizione di alcuni Stati che, rifacendosi a sviluppi del diritto consuetudinario sopravvenuto alla Carta ONU, hanno invocato l’esistenza di eccezioni al divieto di uso della forza nella stessa non previste (ed esempio, il relazione al cd. diritto di intervento umanitario), o un ammorbidimento delle eccezioni ivi disciplinate (ad esempio, in relazione alla cd. legittima difesa preventiva).
Pur ammettendo che il divieto espresso all’art. 2, § 4, della Carta ONU non esaurisca l’intera disciplina dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, non va trascurata la premessa, posta dalla Corte internazionale di giustizia nel già citato caso Nicaragua, secondo cui la disciplina consuetudinaria e pattizia condividono un punto di partenza comune, ovvero il principio della messa al bando dell’impiego della forza nelle relazioni internazionali (ibidem, 97, § 181). Tale premessa sembra escludere la possibilità di divaricazioni sensibili tra il contenuto delle regole consuetudinarie e pattizie, per prospettare il ruolo complementare delle due fonti. In tale ottica, andranno valutati con rigore i molteplici esempi presenti nella prassi di ricorso unilaterale alla violenza armata da parte di singoli Stati o gruppi di Stati, che paiono andare nel senso di un’erosione del divieto stabilito all’art. 2, § 4, della Carta e della contestuale formazione di norme consuetudinarie dal contenuto più permissivo.
Secondo l’art. 2, § 4, della Carta ONU, gli Stati membri «devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». La formula si presta nel complesso a esprimere una nozione stringente del divieto di uso della forza, ma lascia spazio ad alcuni dubbi interpretativi.
In primo luogo, nell’assenza di un qualificativo che accompagni il termine “forza”, occorre individuare il tipo di violenza proibita. I lavori preparatori della Carta, il suo Preambolo (che esplicitamente esprime l’intento degli Stati parti di «salvare le generazioni future dal flagello della guerra» e di «assicurare … che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune»), nonché le precisazioni apportate dalle risoluzioni dell’Assemblea generale già citate, confermano che la proibizione va intesa con specifico riferimento alla coercizione militare, perpetrata mediante ricorso alle armi. Forme di forza diverse da quella militare o armata, come la coercizione economica, politica, o realizzata in altri modi contro uno Stato potranno ricadere sotto il divieto previsto della norma consuetudinaria che prescrive agli Stati di non interferire negli affari interni altrui (sul contenuto di tale norma v. la sentenza Nicaragua, in ICJ Reports, 1986, 106-110, §§ 202-209). Questo criterio di massima non rende agevole comprendere se determinate tipologie di interventi realizzate con particolari modalità e tecnologie, come gli attacchi informatici contro i sistemi di sicurezza di uno Stato, possano essere equiparati a veri e propri ipotesi di uso della forza armata (cd. “cyberguerre”) e ricadere sotto la proibizione dell’art. 2, § 4 (o della corrispondente norma consuetudinaria). Un tentativo di risposta consiste nel far leva sulla “teoria degli effetti” e ritenere che ove l’attacco informatico contro uno Stato produca conseguenze equivalenti per dimensioni e gravità ad un attacco sferrato con la forza militare, esso possa essere ricompreso nell’ambito di applicazione del divieto di uso della forza (cfr. Schmitt, M.N., ed., Tallinn Manual on International Law Applicable to Cyber Warfare, Oxford, 2013, 45-52).
Un secondo problema riguarda la soglia della forza armata rilevante ai fini della proibizione. La lettera dell’art. 2, § 4, della Carta ONU si riferisce ampiamente al divieto di “uso della forza” e si presta a coprire forme di coercizione militare di entità inferiore alla vera e propria guerra, con la conseguenza che anche misure “short of war” quali le occasionali rappresaglie armate volte a reagire ad un illecito altrui, ammesse nel diritto internazionale anteriore al II conflitto mondiale, cadranno sotto la proibizione. La vigenza di un divieto di rappresaglie armate, corollario della norma consuetudinaria sulla proibizione dell’uso della forza, è oggi pacifica e confermata da una prassi e una opinio iuris conforme (v. inter alia gli enunciati esplicativi del principio del divieto dell’uso della forza contenuti nella Dichiarazione sulle relazioni amichevoli tra Stati del 1970, secondo cui «States have a duty to refrain from acts of reprisals involving use of force»). Resta da capire se il divieto possa riguardare anche ipotesi di uso della forza militare minoris generis, quali isolati interventi non autorizzati di forze di polizia in territorio altrui oppure a bordo di navi o aeromobili stranieri. Prassi e dottrina sembrano confermare che tali usi minori della coercizione armata ricadano sotto i regimi convenzionali relativi agli spazi aerei e marittimi o riguardano la norma consuetudinaria posta a protezione della sovranità territoriale dello Stato (sul punto v. la sentenza Nicaragua, in ICJ Reports, 1986, 111-112, §§ 212-214). L’operatività del divieto richiederebbe, di contro, una consistente soglia di gravità dell’azione armata e la specifica intenzionalità dell’esercizio della coercizione armata contro uno Stato perché possa dirsi violato il divieto di uso della forza.
Da ultimo, va ricordato che la proibizione espressa all’art. 2, § 4, della Carta ONU non si limita all’uso attuale della forza, ma si estende altresì alla “minaccia”. La determinazione della portata di tale previsione e la sua corrispondenza al diritto consuetudinario restano peraltro problematici, se si tiene conto, da un lato, della relativa scarsità della prassi in materia e, dall’altro lato, del fatto che tale proibizione deve conciliarsi con il diritto degli Stati a detenere arsenali militari, a scopo difensivo contro attacchi esterni. La questione è stata considerata dalla CIG nel parere consultivo dell’8.7.1996, relativo alla Legittimità dell’uso e della minaccia di uso delle armi nucleari. La Corte ha affermato la simmetria esistente tra le nozioni di “uso” e di “minaccia di uso” della forza presenti nell’art. 2, § 4, della Carta ONU, nel senso che se in un caso specifico un dato utilizzo della forza armata è illecito, illecita ne sarebbe pure la minaccia. Alla luce di tale criterio generale, è stato peraltro escluso che la cd. politica di dissuasione connessa alla detenzione di arsenali nucleari da parte degli Stati possa, di per sé, integrare una minaccia di uso della forza vietata dall’art. 2, § 4 (in ICJ Reports, 1996, 245-247, §§ 43-50).
L’art. 2, § 4, circoscrive l’operatività del divieto alle «relazioni internazionali» degli Stati membri. Secondo l’interpretazione corrente, la proibizione riguarderebbe esclusivamente le ipotesi di ricorso alla forza armata tra Stati, e costoro ne sarebbero gli esclusivi destinatari. Ratione materiae rimarrebbero esclusi dall’ambito di applicazione della proibizione i fenomeni di ricorso alla forza confinati all’interno dello Stato (guerre civili, moti e disordini interni), che peraltro potrebbero assumere rilievo internazionale nel caso fossero qualificati dal CdS come eventi minacciosi per la pace ai sensi del capitolo VII della Carta ONU. Ratione personarum il divieto sancito all’art. 2, § 4, non si rivolgerebbe invece ai cd. Non-State Actors, ovvero a protagonisti della vita di relazione internazionale diversi dagli Stati. Costoro verrebbero in considerazione solo indirettamente, nel caso in cui la loro azione violenta fosse riconducibile ad uno Stato secondo i classici criteri di attribuzione della responsabilità internazionale (cfr. in particolare gli artt. 4-11 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati per atti internazionalmente illeciti, adottato dalla Commissione del diritto internazionale nel 2001, in YBILC, 2001, vol. II/2, 26). Sul punto, non si può però escludere che la norma consuetudinaria sul divieto di uso della forza abbia acquisito un ambito soggettivo più ampio. Problematico resta il caso di attacchi armati perpetrati contro Stati da attori non statali (in particolare, terroristi) sovente slegati da qualsiasi controllo statale. Difficilmente contestabile è invece che attori non-statali pacificamente riconosciuti quali soggetti del diritto internazionale, le organizzazioni internazionali, siano sottratti all’applicabilità del divieto di uso della forza armata, quantomeno nella sua portata di norma consuetudinaria.
L’art. 2, § 4, della Carta ONU prevede che l’uso della forza sia vietato quando questa sia rivolta «contro l’integrità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato». Nella prassi si è tentato di giustificare interventi armati volti alla protezione di cittadini all’estero o più in generale di persone in pericolo, asserendo che in tali casi l’uso della forza fosse finalizzato alla tutela dei diritti umani e, dunque, non fosse rivolto contro l’integrità territoriale o all’indipendenza dello Stato. I lavori preparatori della Carta rivelano in realtà che, lungi dall’ammorbidirne il tenore, gli espressi riferimenti all’integrità e indipendenza degli Stati furono inseriti proprio per rendere più stringente e completa la proibizione. Tale conclusione è rafforzata dalla precisazione contenuta nell’art. 2, § 4, secondo cui è vietato ogni uso della forza altrimenti «incompatibile con i fini delle Nazioni Unite»: anche forme di intervento armato non dirette contro l’integrità o l’indipendenza politica dello Stato, se contrarie ai fini enunciati all’art. 1 della Carta ONU, potranno presumersi illecite.
Sotto l’influsso della Carta ONU, il divieto di uso della forza ha non solo consolidato il proprio carattere di norma consuetudinaria del diritto internazionale, ma altresì acquisito l’efficacia di principio cardine dell’ordinamento internazionale, tanto da essere sovente indicato quale espressione di un precetto di ius cogens o di diritto imperativo. Sul piano dei rapporti tra fonti, la forza cogente della norma sull’uso della forza si traduce in termini di inderogabilità, sanzionando l’invalidità di qualsiasi trattato che abbia come oggetto un impiego della forza armata contrario alla proibizione (cfr. l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969, in UNTS, vol. 1155, 332). Sul piano della responsabilità internazionale, ne deriva innanzitutto l’impossibilità di invocare le tradizionali cause di esclusione dell’illecito per giustificare la violazione del divieto. In secondo luogo, in presenza di “gravi violazioni”, tutti gli Stati saranno tenuti a osservare i previsti obblighi di non riconoscimento e non assistenza nei confronti dell’autore della violazione, oltre che legittimati a invocare la responsabilità di questi e a farne valere le conseguenze (cfr. gli artt. 26, 40, 41 e 48 del Progetto sulla responsabilità internazionale degli Stati, in YBILC, 2001, vol. II/2, 28-30).
Le violazioni del divieto di uso della forza, come sottolineato nella giurisprudenza CIG, possono presentarsi secondo forme “più gravi” (aggressione o attacco armato) e “meno gravi” (incidenti armati di frontiera, sconfinamenti oltrefrontiera di truppe, ecc.: v. la sentenza Nicaragua, in ICJ Reports, 1986, 101, § 191). La dottrina è divisa tra quanti ritengono che il carattere imperativo della norma sul divieto di uso della forza sia assoluto e si estenda a tutte le possibili violazioni della stessa e quanti affermano che solo le forme estreme di coercizione armata sarebbero coperte dalla nozione di ius cogens. Nel senso dell’interpretazione meno rigida paiono deporre gli artt. 40 e 41 del Progetto sulla responsabilità internazionale degli Stati, i quali limitano le “speciali conseguenze” in esso previste alle «serious breaches of obligations arising under peremptory norms of general international law», quali appunto l’aggressione armata.
L’art. 51 della Carta ONU, nel far salvo il “diritto naturale” di legittima difesa spettante allo Stato vittima di attacco armato, da un lato ammette tale figura quale eccezione al divieto di uso della forza stabilito all’art. 2, § 4, dall’altro richiama sotto importanti profili il diritto consuetudinario per la disciplina sostanziale della stessa (cfr. la sentenza Nicaragua, in ICJ Reports, 1986, 101, § 191). Con riferimento al contenuto e all’evoluzione della norma consuetudinaria sulla legittima difesa andranno quindi ricostruiti condizioni e limiti dell’istituto, nonché valutate le correnti tendenze della prassi internazionale volte ad estenderne l’ambito di applicabilità (in particolare, i problemi della cd. legittima difesa preventiva e della legittima difesa).
Ulteriore eccezione al divieto di uso della forza è integrata dalle misure (armate) adottate ai sensi del capitolo VII della Carta ONU dal CdS ai fini di mantenere e/o ristabilire la pace. Data l’origine convenzionale dell’eccezione, strettamente legata al funzionamento del sistema di sicurezza collettiva istituito dalla Carta ONU, le principali questioni giuridiche scaturiscono dagli sviluppi istituzionali e dai limiti operativi di tale sistema, e sono date in particolare dalla prassi delle autorizzazioni all’uso della forza concesse dal CdS agli Stati membri (v. Autorizzazioni all’uso della forza (dir. int)).
La presenza militare (e l’eventuale esercizio della forza) di uno Stato entro i confini di un altro Stato può essere giustificata dal consenso di quest’ultimo (cfr. la sentenza CIG 19.12.2005 nel caso delle Attività armate sul territorio del Congo, Repubblica Democratica del Congo c. Uganda, in ICJ Reports, 2005, 196-199, §§ 42-54). Tale consenso può essere motivato da diverse ragioni, che comprendono lo svolgimento di esercitazioni militari, di operazioni di polizia, di assistenza allo Stato territoriale nel mantenimento dell’ordine e della sicurezza, oppure operazioni di salvataggio di cittadini dello Stato interveniente. Il consenso dello Stato territoriale corrisponde alla generale causa di esclusione dell’illecito prevista all’art. 20 del Progetto sulla responsabilità internazionale degli Stati, e deve osservare le condizioni basilari ivi stabilite: il consenso deve essere valido – cioè espresso dall’autorità abilitata a formularlo sul piano internazionale e non viziato da coercizione, mentre l’intervento armato deve mantenersi entro i limiti di quanto consentito (v. YBILC, 2001, II/2, 72-74). Anche il consenso, come le altre esimenti codificate nel Progetto del 2001, non può essere invocato per legittimare la violazione di una norma di ius cogens, categoria cui si ritiene appartenere il divieto dell’uso della forza: la natura imperativa del divieto andrebbe, peraltro, limitata a forme estreme di ricorso alla violenza armata (aggressione), mentre il consenso dello Stato interessato potrebbe legittimare interventi armati con dimensioni limitate e finalità circoscritte.
Di continua attualità è la questione della idoneità del consenso a fungere da giustificazione per interventi militari esterni in guerre civili, effettuati su richiesta del Governo al potere e a supporto di quest’ultimo (cd. intervento armato “su invito” o “sollecitato”). La posizione radicale espressa nella risoluzione di Wiesbaden adottata nel 1975 dall’Institut de droit international, secondo cui l’intervento armato esterno nei conflitti interni o guerre civili sarebbe in ogni caso vietato dal diritto internazionale, pare non riflettere la prassi (v. Annuaire de l’Institut de Droit International, 1975, 201). La risoluzione adottata dall’Institut de droit international a Rodi nel 2011, che peraltro riguarda situazioni di tensione interna aventi intensità inferiore ai conflitti armati internazionali, risulta maggiormente elastica sulla questione. In tale testo, l’assistenza militare su richiesta – che deve comunque rispondere ai requisiti generali di validità del consenso – è vietata quando svolta in violazione della Carta ONU, del divieto di intervento negli affari interni, del diritto di autodeterminazione dei popoli, delle norme in tema di tutela dei diritti umani generalmente riconosciute e in particolare quando miri a sostenere un Governo insediato contro la volontà della propria popolazione (ibidem, 2011, 360).
La prassi internazionale offre diversi esempi di operazioni militari effettuate da uno Stato in territorio altrui e motivate dall’esigenza di portare in salvo cittadini dello Stato interveniente che versino in una situazione di pericolo per la vita (tra i più famosi, gli interventi di Israele in Uganda nel 1976, dell’Egitto a Cipro nel 1978, degli Stati Uniti a Grenada nel 1983 e a Panama nel 1989). Tuttavia, la circostanza che i vari episodi abbiano ricevuto reazioni contrastanti nella comunità internazionale, unitamente al fatto che spesso lo stesso Stato interveniente si sia preoccupato di legittimare il proprio comportamento facendo ricorso ad altre eccezioni (consenso dello Stato, legittima difesa: cfr. ad esempio la posizione degli Stati Uniti nel caso dell’intervento a Panama, in American Journal of International Law, 1990, 547-548), rendono dibattuta la figura dell’intervento a tutela di cittadini all’estero quale autonoma eccezione al divieto dell’uso della forza. La possibilità di ricorrere per analogia all’esimente generale dell’estremo pericolo (distress), codificata nel Progetto sulla responsabilità internazionale degli Stati quale causa di giustificazione del comportamento illecito dello Stato che intenda salvare vite umane affidate alle proprie cure, dovrebbe comunque sottostare ai limiti propri di tale figura (in particolare, il fatto che il comportamento illecito non crei un pericolo comparabile o maggiore di quello che si intende evitare), nonché al generale limite secondo cui le cause di esclusione dell’illecito previste nel Progetto del 2001 non valgono a giustificare violazioni dello ius cogens.
Controversa è la configurabilità dell’eccezione del cd. diritto di intervento umanitario, secondo cui il ricorso alla forza armata sarebbe legittimato dalla necessità di far cessare gravi violazioni dei diritti umani commessi da un altro Stato a danno della propria popolazione. I non molti episodi anteriori agli anni ’90 (intervento del Belgio in Congo nel 1960, dell’India in Bangladesh del 1971, del Vietnam in Cambogia nel 1978) hanno sollevato contrastanti reazioni nella comunità internazionale. L’ammissibilità della fattispecie è tornata alla ribalta nel 1999, in occasione dell’intervento militare effettuato contro la Repubblica Federale di Iugoslavia da 10 Stati membri della NATO i quali, nell’impossibilità di ottenere una delibera autorizzativa del CdS, hanno giustificato l’azione con l’obiettivo di porre termine alla catastrofe umanitaria causata dalla violenta repressione delle forze di polizia serba ai danni della popolazione albanese del Kosovo. La CIG nelle ordinanze sulle misure provvisorie del 2.6.1999 nel caso relativo alla Liceità dell’uso della forza (promosso dalla Iugoslavia contro i 10 Stati membri della NATO) si è dichiarata profondamente preoccupata dell’uso della forza in Iugoslavia, sottolineando che «under the present circumstances such use raises very serious issues in international law» (in ICJ Reports, 1999, 132, § 17). Reazioni ugualmente critiche riguardo all’intervento armato in Kosovo sono state espresse da una parte consistente degli Stati membri delle Nazioni Unite.
Una variante della figura in esame, mirante a inquadrare gli interventi armati a fini umanitari in un alveo istituzionalizzato, è rappresentata dalla cd. “responsabilità di proteggere”. Proposta inizialmente dalla Commissione internazionale sull’intervento e la sovranità statale nel rapporto del dicembre 2001 (in www.responsibilitytoprotect.org ) e poi ripresa nei vari documenti elaborati sotto l’egida del Segretario generale in occasione del sessantesimo anniversario dell’Organizzazione, tale nozione postula quale corollario ineludibile della sovranità il dovere di ciascuno Stato di proteggere i propri cittadini da gravi violazioni dei diritti umani e preconizza, in caso di mancato esercizio di tale dovere, la possibilità di un intervento sostitutivo della comunità internazionale, da esercitarsi collettivamente attraverso il CdS e i meccanismi del capitolo VII della Carta ONU (v. High-Level Panel on Threats, Challenges and Change. More Secure World: Our Shared Responsibility, UN doc. A/59/565, 2.12.2004, §§ 199-203). All’idea della responsabilità di proteggere ha fatto riferimento il CdS nella risoluzione 1973 (2011), quando ha autorizzato gli Stati membri ad impiegare “tutte le misure necessarie” per proteggere la popolazione civile esposta alla minaccia di attacchi nel contesto del conflitto armato in Libia (cfr. § 4 del Preambolo e § 4 del dispositivo). Allo stato attuale, la “responsabilità di proteggere” non pare però andare oltre alla funzione di ampliare il novero dei presupposti di azione del CdS, lasciando insoluto il nodo della liceità di interventi armati unilaterali a fronte di catastrofi umanitarie all’interno di un paese e della contestuale incapacità dello stesso Consiglio di assumere delibere efficaci. Il carattere controverso della questione è confermato dal fatto che, in occasione della crisi provocata dall’uso di armi chimiche nel conflitto interno in Siria nell’agosto del 2013, alcuni degli Stati occidentali per ovviare alla prevedibile paralisi del CdS, abbiano ipotizzato un’iniziativa armata unilaterale, invocando esplicitamente a loro sostegno la “dottrina” dell’intervento di umanità e il precedente del Kosovo (cfr. il Memorandum del Governo britannico del 29.08.2013, in www.gov.uk ).
Non paiono configurabili in diritto internazionale altre eccezioni al divieto di uso della forza, siano esse riconducibili in via generale alle figure tipiche di esclusione dell’illecito internazionale, oppure ad autonome categorie concettuali rispondenti ad interessi condivisi della comunità internazionale, quali il sostegno all’autodeterminazione dei popoli, la lotta contro il terrorismo o contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa.
Certamente non giustificabili a titolo di contromisura sono le forme di rappresaglia armata contro un illecito subito (v. supra, § 2.1). Un limite espresso in tal senso è posto dall’art. 50, § 1, lett. a), del Progetto sulla responsabilità internazionale degli Stati, ove si afferma che le contromisure non possono pregiudicare «the obligation to refrain from the threat or use of force as embodied in the Charter of the United Nations» (YBILC, 2001, II/2, 30). Ugualmente difficile è ammettere che il ricorso alla forza sia giustificabile facendo ricorso alla categoria generale della necessità (o “stato di necessità”), integrata dall’esigenza dello Stato interveniente di salvaguardare propri o altrui interessi essenziali. Ciò è vero in particolare alla luce del limite posto dall’art. 25, § 1, lett. b), del Progetto sulla responsabilità internazionale degli Stati, secondo cui la necessità non vale ad escludere il carattere illecito di un’azione contraria ad un obbligo internazionale se tale azione pregiudica seriamente un interesse essenziale dello Stato o degli Stati verso cui l’obbligo era dovuto (ibidem, 28): condizione, quest’ultima, che verrebbe a verificarsi nel caso di interventi condotti con la forza armata in territorio altrui, verosimilmente contrari all’interesse essenziale dello Stato “vittima” al rispetto e conservazione della propria integrità territoriale.
Non appaiono convincenti neppure gli argomenti, ormai datati, volti a sostenere la legittimità di interventi armati a favore di popoli in lotta per l’esercizio del diritto di autodeterminazione. Tali argomenti erano sostenuti in particolare dai paesi del blocco socialista e in via di sviluppo nel periodo della guerra fredda sulla base del rilievo che, configurando il dominio coloniale o straniero una forma di aggressione permanente, contro di essa sarebbe sempre giustificato il ricorso alla forza in legittima difesa. Simili interpretazioni, sempre contestate dai paesi del blocco occidentale, non paiono aver mutato il quadro generale secondo cui il diritto dei popoli sottoposti a dominio coloniale o straniero di cercare sostegno all’estero per la realizzazione delle proprie pretese all’autodeterminazione, e la correlativa facoltà degli Stati terzi di prestare tale assistenza, non possono estendersi fino a legittimare forme di ricorso alla forza armata.
Da ultimo, risulta ugualmente discutibile l’autonomia concettuale di pretese eccezioni volte a legittimare interventi armati per combattere il terrorismo o impedire la proliferazione e l’uso di armi di distruzione di massa. Quando non risultino altrimenti illecite perché corrispondenti a contromisure armate proibite dal diritto internazionale (v. ad esempio i raid missilistici effettuati dagli Stati Uniti contro il Sudan e l’Afghanistan nell’agosto del 1998, adottati in reazione agli attentati dinamitardi alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania), simili azioni andrebbero riferite alla categoria generale della legittima difesa e la loro liceità dovrebbe essere valutata alla luce di tutte le condizioni e i limiti che sono propri di tale figura.
Artt. 2, § 4, e 51 Carta delle Nazioni Unite.
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