Abstract
Si definisce la natura dell'usufrutto quale diritto reale di godimento su cosa altrui, caratterizzato dai classici limiti della temporaneità e del divieto di alterare la destinazione economica della cosa. Si delinea la diversa disciplina che l'usufrutto può assumere in relazione al suo oggetto. Vengono infine analizzare le forme minori del diritto d'uso e di abitazione.
L’usufrutto è un diritto reale su cosa altrui, che consente di godere della cosa e di farne propri i frutti, entro i limiti della destinazione economica della cosa. A differenza delle servitù, che attribuiscono al titolare il godimento di alcune specifiche utilità di un fondo altrui per una durata tendenzialmente perpetua, l’usufrutto attribuisce all’usufruttuario la facoltà generale di godere di una cosa (mobile o immobile) altrui, traendone «ogni utilità che questa può dare» (art. 981, co. 2, c.c.), per un tempo limitato (art. 979 c.c.), e salvo l’obbligo «di rispettarne la destinazione economica» (art. 981, co. 1, c.c.).
Sviluppatosi nella Roma repubblicana verso la fine del II secolo a. C. con lo scopo precipuo di garantire alla vedova il proprio sostentamento grazie al godimento dei beni ereditari, nella cui proprietà subentravano i figli, mantenne sempre nel corso dei secoli questa sua fisionomia d’istituto legato prevalentemente alla successione e alle necessità familiari. Necessità che vennero per gran parte meno in Italia con la riforma del diritto di famiglia del 1975 e con l’attribuzione al coniuge superstite, il quale concorresse alla successione con i figli, non più dell’usufrutto dei beni ereditari (cd. usufrutto uxorio), ma di una quota in piena proprietà. A questa funzione successoria e familiare se ne accompagnarono sempre altre, di carattere più schiettamente patrimoniale: ad es. di separazione temporanea della proprietà formale dal godimento e dalla gestione di un bene, affidata ad altri, in considerazione di un impedimento altrettanto temporaneo da parte del titolare, o per sue necessità economiche. È frequente, attualmente, l’alienazione da parte del proprietario, spesso anziano, della nuda proprietà di certi beni (in particolare della casa di abitazione) in cambio del prezzo e della possibilità di conservare per il resto della vita l’usufrutto della cosa alienata. Le finalità proprie dell’usufrutto possono essere conseguite nel modo più sicuro in virtù della sua natura di diritto reale: come tale assoluto (tutelabile cioè erga omnes) e opponibile a chiunque divenga proprietario della cosa successivamente alla costituzione dell’usufrutto.
L’usufrutto può avere origine «dalla volontà dell’uomo» (art. 978, co. 1, c.c.), in virtù quindi di un atto negoziale inter vivos (contratto oneroso, donazione) o mortis causa (cioè per testamento) stipulati nelle forme rispettivamente dovute (art. 1350, n. 2, c.c.; art. 782 ss., c.c.; art. 601 ss., c.c.). Il contratto oneroso e la donazione, se riguardanti un immobile, dovranno essere trascritti ai fini dell’opponibilità ai terzi (art. 2643, n. 2, c.c.). L’usufrutto potrà sorgere, inoltre, per usucapione con il possesso continuato (art. 1158 ss., c.c.) e, nel caso di beni mobili, anche per acquisto a non domino (da chi non è titolare dell’usufrutto) grazie alla fattispecie prevista dall’art. 1153, co. 3, c.c. Accanto all’usufrutto, che ha fonte in senso lato volontaria, si pone l’usufrutto che si costituisce per legge: è il caso dell’usufrutto legale dei genitori esercenti la potestà sui beni dei figli minori, eccettuati alcuni beni di particolare provenienza (ad es. i beni acquistati dal figlio con il proprio lavoro) (art. 324 c.c.). Si tratta di un istituto che ha indubbiamente la struttura dell’usufrutto, al quale si applicheranno quindi le norme generali in materia di usufrutto, salve le disposizioni speciali che il primo libro del codice civile prevede, agli artt. 324-337 c.c., in coerenza con la funzione dell’istituto, di natura familiare.
Diversamente dalla superficie e dall’enfiteusi, in cui ha luogo, per motivi diversi e con diverse modalità, una sorta di sdoppiamento del dominio rispetto ad una stessa cosa, nell’usufrutto ha pieno vigore il principio per cui la proprietà non può essere separata troppo a lungo dal suo contenuto economico, per esigenze di produttività dei beni e di circolazione dei diritti. La durata dell’usufrutto, quindi, «non può eccedere la vita dell’usufruttuario» (art. 979, n. 1, c.c.). Se «costituito a favore di una persona giuridica non può durare più di trenta anni» (art. 979, n. 2, c.c.).
È tuttavia ammesso per l’espressa previsione dell’art. 678 c.c. in materia di legato d’usufrutto, che tale diritto possa essere attribuito a più soggetti sulla stessa cosa (usufrutto congiuntivo). In tal caso, opererà, in base all’art. 675 c.c., il diritto di accrescimento, salvo che una diversa volontà sia stata espressa dal testatore, e salvo il diritto di rappresentazione (art. 675 c.c.). L’usufrutto congiuntivo si conserverà allora per intero fino alla morte dell’ultimo usufruttuario. Se non vi è diritto di accrescimento la quota degli usufruttuari mancanti si consoliderà invece alla proprietà (art. 678, co. 2, c.c.). Sulla base dell’art. 678 c.c. e dei principi in materia di comunione si ritiene generalmente valido l’usufrutto congiuntivo anche nella donazione e nei contratti onerosi, purché l’effetto dell’accrescimento sia previsto, espressamente o implicitamente.
È vietato, invece, l’usufrutto successivo. L’art. 698 c.c. – in tema di sostituzione fedecommissaria ‒ stabilisce infatti che «[l]a disposizione, con la quale è lasciato a più persone successivamente l’usufrutto, una rendita o un’annualità, ha valore soltanto a favore di quelli che alla morte del testatore si trovano primi chiamati a goderne». Tale disposizione non fa che confermare l’art. 979, co. 1, c.c. (per cui la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario). Si deve quindi pensare che un usufrutto successivo non possa essere costituito nemmeno per contratto, in particolare per donazione, in relazione alla quale l’art. 796 c.c., nel ribadire il divieto dell’usufrutto successivo, accorda al donante la possibilità di riservare «l’usufrutto dei beni donati a proprio vantaggio, e dopo di lui a vantaggio di un’altra persona o anche di più persone, ma non successivamente». Si ha così (quasi a compenso della liberalità) un’ipotesi eccezionale di usufrutto successivo, a favore del donante e del successivo o dei successivi chiamati (in modo congiuntivo e con diritto di accrescimento). Parte della dottrina ritiene tuttavia valido l’usufrutto successivo costituito per contratto oneroso, purché riguardi più soggetti viventi al tempo della costituzione; in giurisprudenza v. Cass., 14.5.1962, n. 1024.
L’usufrutto comprende, in via di principio, ogni più ampia facoltà di godimento e di utilizzazione della cosa (art. 981, co. 1 e 2, c.c.). La più rilevante, tra le utilizzazioni della cosa, consiste nel potere di fare propri i frutti, naturali e civili (art. 984 c.c.). Per godere della cosa l’usufruttuario deve, naturalmente, averne la disponibilità materiale; e all’usufruttuario, in quanto titolare di un diritto reale, compete non la semplice detenzione ‒ come avveniva nel diritto romano – ma il possesso della cosa, che egli ha «il diritto di conseguire» dal proprietario, non prima però di aver adempiuto – ove non ne sia stato dispensato – agli obblighi dell’inventario e della garanzia (art. 1002 c.c.).
Il diritto dell’usufruttuario si estende alle accessioni della cosa (art. 983 c.c.), ma non al tesoro che si scopra durante l’usufrutto (art. 948 c.c.). Egli può effettuare dei miglioramenti, e ha diritto a un’indennità per quelli che sussistano al momento della restituzione (art. 985 c.c.). Può effettuare delle addizioni, che non alterino la destinazione economica della cosa, con il diritto di separarle al termine dell’usufrutto, o di riceverne un’indennità (art. 986 c.c.). Gode delle cave e torbiere in esercizio al principio dell’usufrutto (art. 987 c.c.). Può godere della cosa direttamente o indirettamente, ad es. concludendo un contratto di locazione (art. 999 c.c.); in tal caso la locazione può durare, salve determinate formalità a tutela del proprietario, anche oltre la cessazione dell’usufrutto, ma non oltre il quinquennio (art. 999 c.c., il quale prevale, secondo la giurisprudenza, sulla disciplina di cui alla l. 27.7.1978, n. 32: Cass., 26.5.2011, n. 11602). Trattandosi di cosa produttiva (un’azienda commerciale, un terreno agricolo), l’usufruttuario potrà infine stipulare un contratto di affitto, la cui durata non potrà comunque eccedere il quinquennio previsto dall’art. 999 c.c. (v., con riguardo ad un affitto agrario, Cass., 25.7.2003, n. 11561). L’usufruttuario può infine cedere il proprio diritto «per un certo tempo o per tutta la sua durata, se ciò non é vietato dal titolo costitutivo» (art. 980 c.c.). Il divieto di cessione, stabilito dal titolo costitutivo, riguardando un aspetto tipico dell’usufrutto, la cui disciplina è rimessa dalla legge all’autonomia privata, sarà suscettibile di essere trascritto, ai fini dell’opponibilità ai terzi (art. 2643, n. 2, c.c.).
Salvi specifici limiti all’utilizzazione della cosa, previsti in via generale dal co. 2 dell’art. 981 c.c. (come quello per cui l’usufrutto non si estende al tesoro – art. 988 c.c.), le facoltà di godimento da parte dell’usufruttuario sono limitate essenzialmente dal divieto di alterare la destinazione economica della cosa (art. 981, co. 1, c.c.), ossia il tipo di utilizzazione, al quale la cosa è stata assoggettata dal proprietario, o in mancanza, l’uso normale al quale la cosa viene adibita (Bianca, C.M., Diritto civile, vol. VI, Milano, 1999, 598). È questo un aspetto caratterizzante e tipico dell’usufrutto, conforme alla tradizione romanistica (salva rerum substantia). L’usufruttuario non potrà pertanto modificare neppure in senso migliorativo o più produttivo la destinazione impressa dal proprietario, se non con il suo consenso (Pugliese, G., Usufrutto, uso, abitazione, in Tratt. Vassalli, Torino, 1972, 297). La legge stessa, del resto, prevede, in determinati casi di una certa rilevanza, che non possa essere unilateralmente ampliato dall’usufruttuario il contenuto del diritto, neppure nell’ambito della stessa destinazione economica (v. l’art. 987, co. 1, c.c., secondo cui non possono essere aperte altre cave o torbiere, oltre a quelle già in esercizio, se non con il consenso del proprietario).
Così, ad esempio, l’usufruttuario di una casa d’abitazione non potrà trasformarla in un albergo o in un ufficio commerciale, per quanto questi ultimi tipi di utilizzazione possano essere più redditizi (e, peraltro, più rischiosi) del primo; né, se un terreno agricolo diventa edificabile, si potrà consentire all’usufruttuario di modificare la destinazione economica impressa dal proprietario. Si richiama in contrario la presumibile volontà di costui; ma poiché il proprietario esiste e non è un semplice criterio di riferimento, l’usufruttuario dovrà, a nostro avviso, chiedergliene il consenso, salvo che una specifica volontà fosse già stata espressa nel momento della costituzione dell’usufrutto. Ed è stato rilevato, a questo proposito, che il proprietario non potrà opporsi ad un mutamento della destinazione economica, quando la conservazione di quella originaria sia impossibile o palesemente antieconomica (Caterina, R., Usufrutto, uso, abitazione, superficie, in Tratt. Sacco, Torino, 2009, 82). In ogni caso l’usufruttuario potrà procedere a miglioramenti (nonché ad addizioni) nell’ambito della destinazione della cosa, tenendo presente altresì il criterio della correttezza, o dell’uso ‘civile’, attento alle esigenze della ‘controparte’ (il proprietario), per cui non potranno, ad es., essere effettuati dei miglioramenti (o delle addizioni) eccessivamente dispendiose, il cui onere andrebbe a ricadere sul proprietario.
Il danno, conseguente all’alterazione della destinazione originaria, potrà comportare il risarcimento in forma specifica e quindi il rispristino delle precedenti condizioni della cosa (Cass., 14.2.1995, n. 1571).
Il primo e fondamentale obbligo dell’usufruttuario, al quale sono finalizzati tutti gli altri consiste nella restituzione «delle cose che formano oggetto del suo diritto al termine dell’usufrutto» (art. 1001, n. 1, c.c.). Nel godimento della cosa egli deve, innanzitutto, «usare la diligenza del buon padre di famiglia» (art. 1001, n. 2, c.c.).
All’inizio del rapporto l’usufruttuario è tenuto «a fare a sue spese l’inventario dei beni, previo avviso al proprietario» (art. 1002, n. 2, c.c.). Da tale inventario, tipicamente redatto in forma pubblica, ossia con l’assistenza di un notaio, l’usufruttuario può essere dispensato, principalmente in ragione dei suoi rapporti di fiducia con il proprietario. L’usufruttuario deve, inoltre «dare idonea garanzia» di carattere personale (fideiussione, cauzione) o reale (pegno, ipoteca) a tutela dell’obbligo di restituzione. Dalla prestazione della garanzia (riguardo alla quale può esservi dispensa da parte del proprietario) sono esentati per legge i genitori, nell’usufrutto legale , come pure il venditore e il donante con riserva d’usufrutto (art. 1002, n. 3, c.c.). Quanto alle spese relative alla conservazione della cosa, esse sono ripartite tra usufruttuario e proprietario, a seconda che riguardino l’ordinaria o la straordinaria manutenzione. Le prime, derivanti dall’uso normale e diligente della cosa (ad es. la tinteggiatura delle pareti) sono sostenute dall’usufruttuario (art. 1004 c.c.). Le seconde, necessarie al ripristino o alla sostituzione di elementi strutturali della cosa (ad es., il rinnovamento del tetto) sono a carico del proprietario (art. 1005 c.c.). Gli obblighi relativi alle spese sono, peraltro, derogabili dalle parti, con efficacia reale. A proposito delle riparazioni straordinarie, si discute se il proprietario abbia non solo l’obbligo delle spese (da rifondere eventualmente al termine dell’usufrutto all’usufruttuario che le abbia sostenute) ma anche l’obbligo e, per così dire, il diritto, di provvedere egli stesso alle opere necessarie. A causa dell’incidenza che le riparazioni straordinarie hanno sulla proprietà della cosa, sembra più equo ritenere che l’usufruttuario debba prima interpellare il proprietario, e possa poi procedere egli stesso (a tutela dell’esercizio del suo diritto) se il «proprietario rifiuta di eseguire le riparazioni poste a suo carico o ne ritarda l’esecuzione senza giusto motivo» (art. 1006 c.c.).
L’usufrutto, in quanto diritto destinato a durare nel tempo – di regola quanto la vita di un uomo – riguarda essenzialmente cose non consumabili, che consentano un uso ripetuto. Tuttavia può comprendere cose deteriorabili (art. 996 c.c.), come capi di vestiario, elettrodomestici, automobili, cose che, al termine dell’usufrutto l’usufruttuario sarà tenuto a restituire «nello stato in cui si trovano» (art. 996 c.c.), salvo provvedere nel proprio interesse a riparazioni e miglioramenti che ne consentano l’utilizzo. Se però le cose deteriorabili consistono in «impianti…e macchinari che hanno una destinazione produttiva», l’usufruttuario dovrà provvedere alle riparazioni e sostituzioni necessarie ad assicurare, alla fine dell’usufrutto, «il regolare funzionamento delle cose» (art. 997 c.c.). Analogamente le «scorte vive e morte di un fondo» (attrezzi, macchinari, bestiame, etc.) dovranno essere «restituite in eguale quantità e qualità» (art. 998 c.c.).
L’usufrutto può riferirsi ad universalità di fatto, quali le mandrie e i greggi (art. 994 c.c.) o l’azienda (art. 2561 c.c.); nel primo caso l’usufruttuario sarà tenuto «a surrogare gli animali periti, fino alla concorrente quantità dei nati, dopo che la mandria o il gregge ha cominciato ad essere mancante del numero primitivo», nel secondo dovrà «conservare l’efficacia degli impianti e la normale dotazione di scorte». Oggetto di usufrutto può essere un’universalità di diritto, come l’eredità. Il cd. usufrutto uxorio era, appunto, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, l’oggetto della successione legittima del coniuge in concorso con figli. E veniva unanimemente considerato una forma di legato. Attualmente, l’eredità può costituire oggetto di usufrutto in forza di un contratto o di un testamento. La legge (art. 1010 c.c.) prevede l’usufrutto di eredità soprattutto ai fini della ripartizione delle passività ereditarie tra usufruttuario (tenuto al pagamento degli interessi) e proprietario (tenuto al pagamento delle somme capitali).
Un’ipotesi anomala di usufrutto, risalente al diritto romano, si ha, infine, quando l’oggetto del diritto è costituito da cose consumabili (art. 925 c.c.), quali, ad es, i generi alimentari o il danaro. In tal caso «l’usufruttuario ha diritto di servirsene» e «ha l’obbligo di pagarne il valore al termine dell’usufrutto». Questa fattispecie, chiamata tradizionalmente quasi usufrutto, prevista dallo stesso codice in alcune norme relative alla modificazione dell’usufrutto (v. par. 8), e abituale nell’usufrutto di eredità, ha la sostanza economica del mutuo senza interessi (art. 1813 c.c.). Si deve ritenere che il quasi usufruttuario acquisti la proprietà delle cose oggetto del suo diritto e che il trasferimento della proprietà avvenga al momento dell’individuazione; quindi di regola al momento della consegna (art. 1378 c.c.).
Il codice civile prevede inoltre l’usufrutto di crediti (v. l’art. 1000 c.c., sulla riscossione dei capitali gravati da usufrutto), di titoli di credito (v. l’art. 1998 c.c. e l’art. 2025 c.c., che si riferisce letteralmente al credito menzionato in un titolo nominativo), di azioni di società (art. 2352 c.c.), di quote di s.r.l. (art. 2741 bis c.c.); si ritiene ammissibile anche l’usufrutto di quote di società personali (v. a tale riguardo Baralis, G., I diritti reali di godimento, in Lipari, N., Rescigno, M., a cura di, Diritto civile, II, t. 2, Milano, 2009, 212.)
Il codice civile, all’art. 1014 c.c., dopo aver richiamato la disposizione dell’art. 979 c.c., secondo il quale l’usufrutto non può durare oltre la vita dell’usufruttuario e, nel caso di persone giuridiche, oltre trent’anni, elenca tre cause di estinzione dell’usufrutto: «la prescrizione per effetto del non uso durato venti anni», la «riunione dell’usufrutto e della proprietà nella stessa persona» (confusione o consolidazione), «il totale perimento della cosa» su cui l’usufrutto è costituito. A queste cause bisogna peraltro aggiungere la cessazione per abusi compiuti dall’usufruttuario prevista dall’art. 1015 c.c..
Si devono inoltre richiamare la scadenza del termine previsto nel contratto costitutivo o nel testamento e la rinuncia dell’usufruttuario, che dovrà avere forma scritta (art. 1350 c.c.) e, se riguarda beni immobili, essere trascritta ai fini dell’opponibilità ai terzi (art. 2643, n. 5, c.c.). L’usufrutto legale, d’altro canto, si estingue al compimento della maggiore età da parte dei figli. Un modo caratteristico di possibile cessazione dell’usufrutto è rappresentato dall’«abuso che faccia l’usufruttuario del suo diritto, alienando i beni o lasciandoli andare in perimento per mancanza di ordinarie riparazioni» (art. 1015 c.c.). Il termine adoperato dal legislatore, abuso, si adatta bene all’alienazione dei beni, trattandosi di un atto che va oltre i limiti del diritto, e altrettanto appropriato si rivela nell’alterazione della destinazione economica della cosa, non prevista espressamente dall’art. 1015 c.c.; negli altri casi menzionati nell’art. 1015 si tratta piuttosto di violazione da parte dell’usufruttuario del dovere di custodia e di conservazione del bene oggetto dell’usufrutto (v. l’art. 1001, co. 2, c.c.). La diligenza dell’usufruttuario ha valore soprattutto in relazione all’obbligo di restituzione della cosa; ma il proprietario ha non solo l’interesse di ricevere, al termine dell’usufrutto, il proprio bene nelle condizioni dovute, ma anche quello di prevenire il deterioramento e il danneggiamento della cosa. Al giudice quindi è demandato il compito di valutare, secondo le circostanze concrete, se la misura più appropriata sia la cessazione dell’usufrutto, oppure l’adozione di altri provvedimenti che, salvaguardando l’interesse del proprietario, tengano conto anche di quello dell’usufruttuario alla continuazione del rapporto di usufrutto. Potranno essere adottate, allora, dal giudice determinate cautele, tali da comportare anche una modificazione delle modalità di godimento (ad es. se il giudice dispone che «i beni siano locati o posti sotto amministrazione» a spese dell’usufruttuario (art.1015, co.2, c.c.). S’intende, d’altra parte che l’usufruttuario dovrà in ogni caso risarcire i danni causati dal suo illecito comportamento.
Quanto al perimento totale della cosa, esso è previsto dall’art. 1014, n. 3, c.c. quale causa di estinzione dell’usufrutto. Peraltro, in omaggio al principio generale di conservazione dei diritti e dei rapporti giuridici, quando la cosa perisca a causa di un fatto illecito di un terzo, l’usufrutto «si trasferisce sull’indennità dovuta dal responsabile del danno» (art. 1017 c.c.); analogamente, nel caso di perimento della cosa che fosse stata assicurata dall’usufruttuario, l’usufrutto «si trasferisce sull’indennità dovuta dall’assicuratore» (art. 1019 c.c.). Così pure avviene, rispetto all’indennità dovuta, nel caso di requisizione o di espropriazione per pubblica utilità (art. 1020 c.c.). In tutti questi casi si ha la trasformazione dell’usufrutto in quasi usufrutto. Il principio di conservazione opera altresì quando la cosa perisca solo in parte, e nell’ipotesi in cui l’usufrutto abbia per oggetto un fondo del quale faccia parte un edificio, e questo venga a perire.
Nel primo caso l’usufrutto «si conserva sopra ciò che rimane» (art. 1016 c.c.); nel secondo l’usufruttuario «ha diritto di godere dell’area e dei materiali» (art. 1018 c.c.).
L’usufruttuario gode delle normali azioni cautelari, possessorie e petitorie che competono ad ogni titolare di un diritto reale limitato (Cass., 11.1.1967, n. 106). Tuttavia, quando, come avviene nella maggior parte dei casi, la lesione o il pericolo di lesione del suo diritto comporta anche un’offesa, come dice l’art. 1012, «alle ragioni del proprietario», l’usufruttuario «è tenuto a fargliene denunzia», rispondendo altrimenti «dei danni che eventualmente siano derivati al proprietario». Le spese per le liti che riguardano tanto il proprietario che l’usufruttuario sono sopportate, secondo la previsione dell’art. 1013 c.c., «in proporzione del rispettivo interesse».
I diritti d’uso e di abitazione sono forme minori e più limitate di usufrutto, le cui funzioni hanno carattere soprattutto alimentare o di mantenimento e non sono frequenti nella pratica: «rari» osservava Eineccio ai suoi tempi (1750) «gli esempi dell’uso e dell’abitazione», ancor più rari ai nostri giorni, salvo per quanto riguarda il diritto di abitazione del coniuge superstite (v. § 11). «Chi ha il diritto d’uso di una cosa», dice l’art. 1021 c.c., riecheggiando il diritto giustinianeo, «può servirsi di essa e, se è fruttifera, può raccogliere i frutti per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia». Dunque il diritto d’uso consente un’utilizzazione che, per quanto la più ampia possibile compatibilmente con la destinazione economica della cosa (Cass., 26.2.2008, n. 5034), è tuttavia strettamente personale. Anche l’usufrutto di una cosa che non produce frutti naturali impedisce evidentemente all’usufruttuario di raccogliere, o di far propri i frutti; ma è pur sempre possibile sfruttare la cosa cedendo il proprio diritto dietro corrispettivo, o dandolo in locazione, e facendo dunque propri i frutti civili. «I diritti d’uso e di abitazione », invece, «non si possono cedere o dare in locazione» (art. 1024 c.c.). Si dovrebbe ritenere, pertanto, che i frutti percepibili dal titolare dell’uso siano soltanto quelli naturali, non quelli che possono ricavarsi dal godimento indiretto della cosa, come ad es. i canoni di locazione. D’altronde la nozione di famiglia, rilevante ai fini dei diritti d’uso e di abitazione comprende non solo la famiglia del titolare già esistente al momento della costituzione di tali diritti, ma anche quella successiva, e abbraccia i figli legittimi, naturali, adottivi e gli affiliati, nonché le persone di servizio conviventi (art. 1023 c.c.).
Ma il contenuto dei diritti d’uso e di abitazione è comunque limitato. «Chi ha Il diritto di abitazione di una casa può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia»; e dunque l’habitator di un palazzo, comprendente più piani con i relativi vani, non potrà occuparlo, di regola, se non in parte: quella appunto corrispondente ai bisogni suoi e della sua famiglia. Il diritto d’uso comprende, come si è visto, anche il potere di una modica perceptio dei frutti, corrispondente ai bisogni del titolare e della sua famiglia. «I bisogni », inoltre, aggiunge la legge (art. 1021, co. 2, c.c.) «si devono valutare secondo la condizione sociale del titolare del diritto»; «pro dignitate ejus, cui relictus est usus», come diceva Ulpiano (Digesta, VII, 8, 12 ) presupponendo peraltro ‘bisogni’ (e quasi ‘doveri’) sociali, che nella nostra epoca non esistono più.
Le spese di manutenzione e quelle necessarie alla percezione dei frutti, variano a seconda che l’usuario raccolga «tutti i frutti» o il titolare del diritto di abitazione occupi «tutta la casa», oppure i frutti vengano raccolti solo in parte o solo in parte venga abitata la casa (art. 1025, co. 1, c.c.). Nel primo caso le spese a carico dell’usuario o dell’habitator corrispondono a quelle dell’usufruttuario; nel secondo sono dovute in proporzione di ciò che essi godono (art. 1025, co. 2, c.c.). «Le disposizioni relative all’usufrutto», afferma l’art. 1026, con una norma di chiusura, «si applicano, in quanto compatibili, all’uso e all’abitazione.»
Il diritto di abitazione ha ricevuto nuovo impulso per effetto della riforma del diritto di famiglia del 1975. L’art. 540 c.c. novellato del codice civile prevede, infatti, che a favore del coniuge siano riservati, oltre alla quota di eredità sul patrimonio dell’altro coniuge, «i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comune». Tali diritti, acquistati a titolo di legato ex lege, «gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente dei figli». Non vi è alcuna indicazione nella legge, da cui si possa desumere che tali diritti siano diversi da quelli previsti agli articoli 1021 e ss. c.c. Sembra quindi logico dedurre che i diritti di abitazione e di uso previsti a favore del coniuge superstite non cessino con il passaggio a nuove nozze (come viene talora sostenuto) ma durino fino alla sua morte, e che l’estensione del diritto di abitazione della casa familiare (insieme all’uso dei mobili di pertinenza) sia limitato, a norma dell’art. 1022 c.c., dai bisogni del titolare e della sua eventuale nuova famiglia (in senso contrario la giurisprudenza: Cass., 13.3.1999, n. 2263) secondo la quale il diritto di abitazione del coniuge superstite sarebbe ispirato ad un preminente interesse di carattere morale connesso alla vita familiare precedente (Cass., 23.5.2000, n. 6691).
Artt. 978-1026 c.c.
Baralis, G., I diritti reali di godimento, in Lipari, N.-Rescigno, M., a cura di, Diritto civile, II, t. 2, Milano, 2009, 206-223; Bianca, C. M., Diritto civile, vol. VI, Milano, 1999, 585-636; Bigliazzi Geri, L., Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1980; Caterina, R., Usufrutto, uso, abitazione, superficie, in Tratt. Sacco, Torino, 2009; Palermo, G., L’usufrutto, in Tratt. Rescigno, Torino, 2008; Pugliese, G., Usufrutto, uso, abitazione, in Tratt. Vassalli, Torino, 1972.