uso
Il senso del vocabolo è indicato dalla definizione tomistica: " usus rei alicuius importat applicationem rei illius ad aliquam operationem: unde et operatio ad quam applicamus rem aliquam, dicitur usus eius; sicut equitare est usus equi, et percutere est usus baculi " (Sum. theol. I II 16 1c): l'u. di una cosa consiste, cioè, nell'operazione alla quale applichiamo la cosa stessa, nella sua " utilizzazione ".
In questa prospettiva sono da intendere l'uso de la cosa donata (Cv I VIII 8), l'uso de la cosa amata (IV XXII 9; un'altra occorrenza nel medesimo paragrafo), il breve uso delle gioie mondane (Pg XXXI 60).
Preceduto da ‛ a ', il vocabolo esprime un'idea di finalità o destinazione: Dio, / che solo a l'uso suo la [la pianta del Purgatorio, simbolo della giustizia] creò santa, " creò la giustizia per applicarla ai suoi fini " (Pg XXXIII 60). Per analogia si veda XIV 44 cibo fatto in uman uso, " perché servisse agli uomini ".
Quando si correla a facoltà spirituali, u. vale principalmente " esercizio ": ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione (Cv I IV 5), sintagma ripetuto con qualche variante anche in IV VII 12 (tre volte). In modo affine la filosofia è uno amoroso uso di sapienza (III XII 12, come in IV II 18), mentre l'uso di speculazione (III XIV 1) qualifica l'attuazione della capacità speculativa, il passaggio dall'abito all'atto speculativo (cfr. XIII 6), detto parimente uso del nostro animo (IV XXII 9 e 10), a sua volta distinto in u. speculativo vero e proprio e u. pratico. L'u. speculativo è l'operazione intellettuale in cui si esplica interamente l'essenza dell'uomo; esso ordina le cognizioni acquisite alla pura contemplazione della verità e comporta per tal via la visione diretta di Dio; l'u. pratico consiste nell'applicazione delle cognizioni acquisite all'agire virtuoso e onesto. Premesse dalle quali D. deduce che di questi usi l'uno è più pieno di beatitudine che l'altro: sì come è lo speculativo, lo quale sanza mistura alcuna è uso de la nostra nobilissima parte, la quale, per lo radicale amore che detto è, massimamente è amabile, sì com'è lo 'ntelletto. E questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale [è ved]ere [in s]é Iddio ch'è sommo intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti (IV XXII 13).
L'u. di larghezza (Cv IV XIII 14) vale il " mettere in pratica " la generosità, l'" esercitarla " (" largiendi usu " nel testo latino di Boezio [Cons. phil. II V 5], da cui D. traduce), come in Cv I IX 3 l'u, della lettera è " l'attività letteraria ", laddove in Pg II 107 l'uso a l'amoroso canto sembra meglio interpretabile come " facoltà di esercitare il canto ".
Più volte il vocabolo viene adoperato nell'accezione di " abito ", " consuetudine " stabilmente acquisita in conseguenza dell'esercizio: io suffolerò, com'è nostro uso / di fare (If XXII 104: " converrà dire di questo preteso uso dei barattieri non essere che una finzione di Ciampolo per arrivare al suo intento di liberarsi dalle branche dei diavoli ", Scartazzini); per sventura / del luogo, o per mal uso (Pg XIV 39: " idest... ex prava consuetudine peccandi ", Benvenuto); per modo tutto fuor del moderno uso (XVI 42, con riferimento al viaggio compiuto da D., vivo, nei regni oltremondani); fissi li occhi al sole oltre nostr'uso (Pd I 54).
Nelle occorrenze in cui il vocabolo si accompagna a termini come ‛ natura ', ‛ ingegno ', ‛ arte ', il valore è tecnico; in correlazione a ‛ natura ' come " inclinazione naturale ", l'u. s'identifica con l'abito in quanto acquisito con l'esercizio (v. ABITO); in correlazione con ‛ ingegno ' e ‛ arte ' designa, secondo la terminologia retorica, l'esercizio o pratica rispetto alla dote naturale e ai precetti o procedimenti tecnici (v. INGEGNO). Così uso e natura sì la privilegia... (Pg VIII 130: qui uso è l'" abito " della virtù); Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami (Pd X 43). Assai qualificante l'opposizione u.-arte relativamente alla lingua: lo volgare seguita uso, e lo latino arte (Cv I V 14), dove si sottolinea il carattere normativo-grammaticale del latino, ben diverso dal volgare che si affida esclusivamente alla mutevolezza e instabilità delle ‛ consuetudini ' o ‛ abiti ' espressivi; così anche in Pd XXVI 137 Pria ch'i' scendessi a l'infernale ambascia, / I s'appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia; / e El si chiamò poi: e ciò convene, / ché l'uso d'i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene (v. anche Pg XXVI 113, dove però l'uso moderno può rimandare all'" abito di poetare in lingua volgare ").
Come complesso di comportamenti virtuosi, di costumi onesti, prodi, liberali, propri delle corti, la parola figura nel sintagma uso di corte che è sinonimo, dal punto di vista dantesco, di " cortesia ": però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s'usavano, sì come oggi s'usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte (Cv II X 8).
La locuzione ‛ avere in u. ' si divarica nei significati di " essere soliti fare " (lo mal c'hanno in uso, Rime LXXXIII 106), e di " adoperare a proprio vantaggio " (Questa sentenza [il contenuto delle canzoni] non possono non avere in uso quelli ne li quali vera nobiltà è seminata, Cv I IX 8: cfr. il § 6 nulla cosa è utile, se non in quanto è usata); ‛ essere in u. ' vale invece " essere usuale ", " appartenere alla consuetudine corrente ": certe construzioni sono in uso che già non furono (II XIII 10: da collegare al ricordato aspetto consuetudinario e non normativo del volgare); lume il volto mi percosse, / maggiore assai che quel ch'è in nostro uso (Pg XVII 45): contestualmente si potrebbe precisare: " più forte della luce del sole, alla quale siamo abituati " (si tratta dell'angelo luminoso a guardia della scala dal terzo al quarto girone); ma forse è preferibile la prudenza di Benvenuto: " lumen solis, vel quodcumque lumen nostrum ".
Per comprendere il significato della frase non conoscere l'uso del tempo (Cv IV II 10), occorre tener presente la massima il tempo è da provedere (§ 8): l'u. del tempo corrisponde alla capacità di fare una cosa a tempo opportuno, di saper aspettare, per ogni cosa, il suo tempo: E però Salomone dice ne lo Ecclesiaste: " Tempo è da parlare, e tempo è da tacere " (§ 8).
Infine, lasciato da l'uso (Cv IV VI 3) equivale a " disusato ", e per uso (Pg IX 26) a " usualmente ". Vedi anche USANZA.