usura
In senso proprio - come di peccato che si compie col prestare a interesse una somma di denaro - l'u. è menzionata due volte nella Commedia, in If XI 95 e in Pd XXII 79. La prima volta, la menzione dell'u. avviene nel contesto della richiesta di spiegazioni che D. muove a Virgilio, circa le ragioni per cui il ‛ duca ' - nello stesso canto al v. 48 - ha dichiarato che l'u., appunto, ‛ spregia ' la divina bontade. Virgilio, nella sosta al VI cerchio, aveva spiegato che nel cerchio VII, distinto in tre gironi, erano nell'ordine compresi i violenti contro il prossimo, contro sé stessi e contro Dio e la natura. Tra questi ultimi violenti Virgilio annovera, come peccatori contro natura, quelli di Soddoma e Caorsa, i cui abitanti sono antonomasticamente riconosciuti come ‛ usurai ', stante la diffusa identificazione medievale dei Caorsini: " Usurarii qui Caursini dicuntur " (Bambaglioli); " Come l'uomo dice d'alcuno ‛ egli è caorsino ', così s'intende ch'egli sia usuraio " (Boccaccio). Perché l'u. offende la ‛ divina boutade ', chiede dunque D.: ed è domanda che acquista un rilievo non retorico, ove si sconti che l'individuazione di una ragione per cui l'u. era peccato contro natura appariva fondamentale nella copiosa trattatistica teologica che intorno al grave peccato fiorì tra i secoli XIII e XIV. Senza lontanamente ipotizzare alcun rapporto di dipendenza contenutistica, si tenga presente che uno dei teologi più in vista di Firenze, il domenicano Remigio de' Girolami (m. 1319), aveva dedicato un lungo trattato all'u., insistendo sul carattere di contrarietà alla natura che essa comportava (cfr. O. Capitani, Il " De peccato usurae " di Remigio de' Girolami, in " Studi Medievali " s. 3, VI [1965] 537-662; spec. pp. 556-561 e 580 ss.).
Peccato dunque contro natura, l'u., in quanto peccato contro l'arte, afferma Virgilio, rimandando semplicemente il discepolo alla Fisica aristotelica (II 2; cfr. Tommaso d'Aquino In VIII libros Physicorum Aristotelis Expositio II lect. IV), in cui appunto si affermava che l'arte imita la natura " in quibusdam ": Tommaso (op. cit., II lect. XIII) spiegava anche che " ideo autem res naturales imitabiles sunt per artem, quia ab aliquo principio intellectivo tota natura ordinatur ad finem suum, ut sic opus naturae videatur esse opus intelligentiae, dum per determinata media ad certos fines procedit: quod etiam in operando ars imitatur ". Una teleologia perfettamente razionale della natura e dell'arte anche in D., del resto: Filosofia... / nota, non pure in una sola parte, / come natura lo suo corso prende / da divino 'ntelletto e da sua arte (If XI 97-100); una teleologia in sostanza pienamente in accordo con la Scrittura (Gen. 3, 17 " in laboribus comedes ex ea [scil. terra] cunctis diebus vitae tuae "), come ricorda ancora Virgilio al poeta: da queste due, se tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio, convene / prender sua vita e avanzar la gente (vv. 106-108). Ma l'usuriere, misconoscendo questo principio di derivazione dalla natura e dall'arte, del vivere umano, spregiando entrambe, non riconoscendo il loro fine ordinato, pone in altro la propria spene.
In Pd XXII 79 è esemplificata, all'esasperazione, la condizione di coloro - nella fattispecie i benedettini - che hanno travolto l'ordine naturale del vivere, cercando di accaparrarsi ciò che non è loro, per nessuna ragione, ma di altri: nel caso si tratta delle ricchezze della Chiesa riservate ai poveri. Così facendo, i benedettini dei tempi di D. peccano contro Dio ancor più di quanto non pecchi l'u. stessa, ricordata ancora in questo punto in un contesto che suona irrazionalità, perché innaturalità, del desiderio umano.
In questo quadro, dunque, l'u. per D. - che certamente non poteva ignorare la copiosa tradizione scolastica della polemica antiusuraria (per la quale rimandiamo alle abbondanti indicazioni bibliografiche contenute in O. Capitani, Il " De peccato usurae "..., cit., p. 556 n. 81 e, ancor più, nell'antologia L'etica economica medievale, a c. di O. Capitani, Bologna 1974) - appare come aspetto vistoso di un male profondo che ha permeato la società del tempo, la cupidigia, usualmente manifestantesi con l'avarizia (v.). E se non uguale è la pena riservata ad avari e a usurai - i primi dannati a rotolare vanamente dei massi e i secondi costretti sotto la pioggia di fuoco - dalle trasparenti allegorie, in entrambi sparisce ogni elemento d'individuazione personale, che non sia quello, generalizzante, della vanità di un operare a vuoto o di un'attività dissennata (le borse, le tasche degli usurai). Può anche essere caratteristico di un'atmosfera diffusa, di una ‛ mentalità ' prevalente la circostanza (notata alcuni anni or sono: cfr. O. Capitani, Questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, in " Bull. Ist. Stor. Ital. per il Medio Evo " LXXVI [1965] 257-262) che la raffigurazione dantesca degli avari che sorgeranno nel dì del giudizio col pugno chiuso, trovi un'analogia formale curiosa nella presentazione che dell'usurario fa il già citato Remigio de' Girolami. Inserita nella più ampia motivazione della cupiditas, l'u. per la quale D. non pare voglia privilegiare i caratteristici ‛ tòpoi ' della tradizione scritturistica (celeberrimo il " mutuum date nihil inde sperantes " di Luc. 6, 35), viene ad assumere una funzione essenziale come fenomenologia della diagnosi dei mali del mondo e rimanda ovviamente alla concezione delle ricchezze di Cv IV XII e specialmente di XI 6-12, concezione per la quale sempre le ricchezze, anche quando lecitamente procacciate, mantengono un elemento d'iniquità e d'imperfezione, anche e proprio per la fortuna che accompagna e determina il loro conseguimento. Il razionalismo etico di D., sulla scorta dell'interpretazione di Aristotele, sa che quanto più l'uomo subiace a lo 'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna e non riesce pertanto a giustificare nemmeno una mercatantia, in cui la fortuna aiutatrice di ragione consente di conseguire un notevole guadagno: ove poi questo guadagno sia il frutto di un illicito procaccio, si configura come vera rapina, propria di uomo malvagio, perché, come si ribadisce nello stesso c. XI del libro IV del Convivio, mai gli uomini onesti accetterebbero guadagni illeciti. E ciò anche perché la loro sollicitudine è riposta altrove. Non così avviene per chi solo delle ricchezze è sollecito, perché promettono le false traditrici... di torre ogni sete e ogni mancanza, e apportare ogni saziamento e bastanza (Cv IV XII 5), mentre poi danno solo sete inestinguibile e maggiore quantità di desiderio. Così appunto la volontà umana è condotta al ‛ vizio d'avarizia '. L'u. allora è solo un caso di questa aberrazione della volontà, illustrata - esclusivamente forse per diffidenza nella casistica troppo articolata, senza essere permissiva, dei canonisti e anche dei teologi - con motivi schiettamente filosofici e razionali. Motivi che consentono altresì un netto rifiuto di accettare compromessi con la ‛ maladetta lupa ' (Pg XX 10), perché è proprio essa a snaturare con la retta ragione dell'uomo anche il reggimento politico: e basterà appena rammentare il valore che assume la lupa, appunto, per D., in ordine ai problemi della Chiesa e dell'Impero, come emblema d'innaturale e cieco individualismo di fronte ai fini universali della società umana. Nella quale assunzione della cupidigia a errore riassuntivo del male del mondo è indubbiamente singolare e degno di menzione che il fiorentino e contemporaneo Girolami facesse rientrare la propria definizione di u.: meno rilevata di quella dantesca e meno esatta, tutto sommato, perché solo espressione di un vizio più generale, pur nella complicata ricerca di tutte le ‛ contrarietà ' agli elementi della natura, che sono proprie dell'usuraio, prolissamente perseguita dal teologo domenicano, severo, comunque, anch'egli, di fronte a un fenomeno che non solo a lui appariva tanto inquietante.
Bibl. - Ampiamente ricordata, come si è detto nel testo, nei citati lavori di O. Capitani; vanno comunque tenute presenti le opere più recenti di J. Noonan, The Scholastic Analysis of Usury, Princeton 1957, e di J. Gilchrist, The Church and Economic Activity in the Middle Ages, New York 1969; il lavoro di B. Nelson, U. e Cristianesimo, traduz. ital. Firenze 1967, che sostiene la tesi di una progressiva dilatazione del concetto di fratellanza tribale, propria dell'Antico Testamento, alla cristianità occidentale del Medioevo, sino a mutarla in una sostanziale alterità, stimolante nell'assunto generale, non ha rapporti con le concezioni dantesche.