Usura
Ripercorrendo le origini del moderno sistema bancario, l’economista Giuseppe Garrani ricorda l’invito di John M. Keynes a ripensare i vantaggi sociali delle sanzioni religiose e morali della Chiesa medioevale nei confronti dell’usura, per frenare la tendenza all’eccessivo aumento del saggio d’interesse (Garrani 1957, pp. 30-31; J.M. Keynes, The general theory of employment, interest and money, London 1936; trad. it. Torino 1953, p. 312). La scolastica medioevale e Keynes definiscono usura, ovvero come gli scolastici chiamano l’interesse, «il prezzo per l’uso della moneta» (Keynes, cit., p. 155; Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 2° vol., Pars IIa IIae, B.M. De Rubeis, Ch.R. Billuart, F.-X. Faucher et aliorum notis selectis ornata, 1948, p. 392), ma questa definizione la troviamo anche in Adam Smith (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776; trad. it. 1995, p. 99).
L’analogia con la scolastica medioevale si arresta laddove Keynes aggiunge che l’interesse si giustifica perché si preferisce la moneta in forma liquida agli investimenti a lungo o a breve termine (Keynes, cit., 1936, pp. 213-14). Questa nozione keynesiana, conosciuta come ‘preferenza per la liquidità’, ricorda la carentia pecuniae proposta dal teologo Leonardo Lessio (1554-1623), che non trova molto seguito fra gli scolastici (de Roover 1971, pp. 14, 90).
Dietro alle apparenti analogie concettuali fra la scolastica medioevale e la moderna scienza economica, vi sono differenze metodologiche. La scolastica medioevale non considera l’economia come una disciplina indipendente, ma come parte della filosofia morale, la quale include: l’etica, che si occupa di regolare la condotta umana; l’economia, nel senso di gestione dei beni domestici; la politica, che abbraccia tutto quanto riguarda l’organizzazione della società. Questa classificazione, elaborata da Aristotele, viene fatta propria da Tommaso d’Aquino (In decem libros ethicorum Aristotelis ad Nicomachum expositio, cura et studio R.M. Spiazzi, 1949, pp. 3-4) e, attraverso il Medioevo, arriva fino alla tarda età moderna.
Scopo principale della scolastica medioevale è quello di determinare le leggi della giustizia che devono governare le transazioni economiche e le relazioni sociali: Tommaso d’Aquino, per es., distingue la giustizia distributiva, che regola appunto la distribuzione della ricchezza secondo il posto che ciascuno occupa nella società, e quella commutativa, che si applica alle relazioni tra individui e agli scambi di beni e servizi, e, poiché è basata sul principio di uguaglianza, richiede che tra gli oggetti scambiati tale principio vada sempre osservato (Summa theologiae, cit., pp. 318-22). Secondo la scolastica medioevale, insomma, la materia economica è più consona alla virtù della giustizia che a quella della carità. Gli scolastici si occupano innanzi tutto di fissare il giusto prezzo e di proibire l’usura, ma estendono il loro studio anche ad attività che coinvolgono altre materie, come quelle del monopolio, del debito pubblico, del giusto salario, del fisco e di tutti gli altri contratti che riguardano la proibizione dell’usura. La mentalità medioevale è pervasa dall’attenzione per la forma della legge: sotto l’influsso della graduale riscoperta del diritto romano, gli scolastici adottano come criterio di giudizio decisivo l’analisi della natura legale del contratto che viene sottoposto loro e delle sue implicazioni etiche, limitando così lo studio dei fatti economici.
Per definire la riflessione della scolastica medioevale sull’economia, lo storico del diritto Wilhelm Endemann (1825-1899) ha usato l’espressione «dottrina canonistica», ma il diritto canonico che, condannando ogni richiesta di interesse, fornisce la base della proibizione medioevale dell’usura, concorre a formare la visione dell’economia elaborata dalla scolastica medioevale insieme alla Bibbia, alla patristica, al diritto romano e alla filosofia aristotelica. L’economista Joseph A. Schumpeter, seguito dallo storico dell’economia Raymond de Roover, ha preferito parlare di «economia degli scolastici», intendendo la dottrina elaborata dai dottori della scolastica medioevale, teologi e giuristi insieme (Schumpeter 1954, trad. it. 1990, 1° vol., pp. 91-131; de Roover 1971). Più recentemente, Paolo Grossi (Grossi 1966, pp. 131-33) ha storicizzato la proibizione medioevale dell’usura, andando oltre i tradizionali argomenti della scolastica medioevale; da parte sua, Giacomo Todeschini ha distinto in materia di proibizione dell’usura la visione dei teologi (soprattutto domenicani) e dei canonisti dalle proposte dei teologi francescani, i quali, dibattendo sui modi di conciliare ricchezze e proprietà con la povertà professata da Francesco d’Assisi, sarebbero stati meglio portati a comprendere attività commerciali e finanziarie (Todeschini 2002, pp. 107-31).
Il diritto romano non proibisce l’usura, che disciplina fin dai tempi della legge delle dodici tavole (451-450 a.C.); per i giuristi romani, l’interesse è semplicemente la valutazione del danno soggettivo derivato al creditore dal mancato adempimento di un’obbligazione. Il cittadino romano, del resto, è consapevole che è indispensabile che qualcuno presti denaro, così come sono indispensabili i bottegai, gli artigiani, i profumieri e i medici. L’unico problema che preme è, semmai, la condizione morale e sociale di coloro che praticano tali mestieri: Marco Porcio Catone, detto il Censore, spiega chiaramente che il commercio è buona cosa, ma è rischioso; anche l’usura è una buona attività, ma non è onesta; l’agricoltura è sicuramente preferibile, ma Catone, tacendo che rende meno, sottintende così che è meglio prestare (Salvioli 1929, rist. 1985, p. 32; Finley 1973, trad. it. 1995, pp. 63, 66). Alla fine del periodo repubblicano, il livello massimo degli interessi risulta stabilito al 12% annuo, ovvero l’1% al mese, e tale si mantiene fino alle riforme dell’imperatore Giustiniano nella prima metà del 6° sec. d.C., che provvedono ad abbassarlo. L’economista Eugene von Böhm-Bawerk sintetizza così la posizione del mondo romano nei confronti della proibizione dell’usura: «scrivere a favore dell’interesse era superfluo; scrivere contro, era vano» (von Böhm-Bawerk 1884, 19214; trad. it. 1986, p. 51).
La Bibbia, d’altro canto, non proibisce l’usura in modo generalizzato. L’Antico testamento, per es., vieta la richiesta di interessi sui prestiti conclusi fra ebrei, ma consente a essi di prestare a uno straniero (Esodo, 22, 24; Deuteronomio, 23, 20-21; Nelson 1949, trad. it. 1964, pp. 19-25); nel Nuovo testamento, solo il Vangelo di Luca (6, 35) contiene una generica ma assai discussa esortazione a non aspettarsi nulla quando si concede un prestito («mutuum date nihil sperantes»; cfr. Santarelli 1987, 19983, pp. 163-68).
Fra i Padri della Chiesa, la posizione di sant’Ambrogio (330 ca.-397) si distingue nettamente per l’ampiezza e l’insistenza degli argomenti con cui proibisce l’usura; ma in lui, accanto a considerazioni pratiche, si affiancano precetti di ordine più propriamente morale (Cracco Ruggini 1961, rist. anast. 1995, pp. 190-202). I primi concili della Chiesa cattolica proibiscono la richiesta di interessi, ma si rivolgono prevalentemente al clero: il sinodo di Elvira (300 ca.) punisce con la degradazione i chierici dediti all’usura e con la scomunica i laici che, nonostante una previa ammonizione, perseverino in tale pratica illecita; la sola sanzione contro i chierici viene mantenuta dai successivi concili dei secc. 4°-6°, come quello ecumenico di Nicea del 325 (Corpus iuris canonici. Editio lipsiensis secunda, hrsg. E. Friedberg, 1° vol., Decretum magistri Gratiani, 1879, rist. 1959, col. 169).
Proprio perché tale sanzione era rivolta principalmente contro il clero e non anche contro i laici cristiani, Oscar Nuccio (1995) ha sostenuto, di conseguenza, che non vi è stata «una proibizione generale ed assoluta» dell’usura nei concili del cristianesimo delle origini (p. 71). Questa interpretazione è in contraddizione con quella della scolastica medioevale: secondo la Summa decretalium dell’autorevole canonista Enrico da Susa, detto l’Ostiense (1200 ca.-1271), i concili della Chiesa primitiva proibiscono l’usura limitatamente al clero, ma i sacri canoni sono di portata generale e, quindi, si devono applicare anche ai laici (Summa aurea, 1574, rist. anast. 1963, col. 1619). L’utilità della portata generale della proibizione dell’usura, del resto, è riconosciuta anche dall’autorità secolare, che fa progressivamente propri i sacri canoni: l’Admonitio generalis del 789 e il capitolare dell’806 di Carlo Magno estendono il rispetto della religione cristiana a tutti i sudditi dell’impero carolingio, con riguardo anche alla proibizione dell’usura (Capitularia regum Francorum, hrsg. A. Boretius, 1960, pp. 54, 132). La scolastica medioevale riceve così in eredità una serie di proibizioni a prestare con interesse, che vengono estese dalla loro originaria portata ristretta a una più generale, costruendo con disinvoltura e sottigliezza prodigiose un programma logico e sistematico.
La consapevolezza che gli orizzonti di perfezione prefissati non sarebbero mai stati raggiunti del tutto, porta però gli scolastici ad accentuare il tono del ‘rigorismo’ nelle loro opere. Ma questo termine non è solo sinonimo di ‘eccessiva severità’: esso è impiegato esplicitamente per la prima volta (nel 1691) dal teologo giansenista Antoine Arnauld, e per questo motivo è stato associato storicamente al giansenismo (Quantin 2001; trad. it. 2002, pp. 14-16). In verità, sono esistiti vari rigorismi, e quello giansenista è solo uno fra quelli che la morale cristiana ha conosciuto e che hanno avuto riflessi su ogni aspetto della morale, compreso quello della valutazione del denaro: in una situazione in cui non è certo che la legge morale obblighi, ma non è neppure più certo che non obblighi, il rigorismo costringe sempre a seguire la legge, cioè a optare per la scelta più sicura («tutior»), fintanto che quella contraria non sia assolutamente certa: «pro salute animae est semper via tutior eligenda» (la via più sicura è sempre da preferirsi per la salvezza dell’anima; Bernardino da Siena, Quadragesimale de Evangelio aeterno, sermones XXXII-XLV, in Opera omnia, studio et cura patrum collegi s. Bonaventurae, 4° vol., ad Claras Aquas (Firenze) 1956, p. 327); per questo motivo, il rigorismo viene chiamato anche tuziorismo.
È in questa temperie spirituale e culturale che si sviluppa la proibizione dell’usura (Mundy 1973, pp. 174-89; Vismara 2004, pp. 39-40). Il monaco camaldolese Graziano (fine 11° sec.-1160 ca.) definisce usura tutto ciò che è preteso oltre al capitale prestato («quicquid ultra sortem exigitur, usura est»; Corpus iuris canonici, cit., 1° vol., col. 735); inoltre, Graziano assimila l’usura al «turpe lucrum», ovvero a ogni guadagno proveniente da attività peccaminose o da contratti illeciti proibiti dalla legge divina o da quella umana, come la prostituzione, il monopolio, il gioco, i tornei, il teatro, la simonia e così via (Corpus iuris canonici, cit., 1° vol., col. 737). I profitti illeciti derivanti dall’usura devono essere restituiti alle persone danneggiate (a meno che queste non siano più individuabili o siano morte senza eredi), mentre quelli derivanti, per es., dalla prostituzione, vanno dati ai poveri (Ceccarelli 2003, pp. 111-29, 200-20).
Secondo la scolastica medioevale, dunque, per usura si intende qualsiasi intenzione di ricavare guadagni illeciti all’interno di un qualsiasi rapporto contrattuale rientrante, dal punto di vista formale, nei termini di legge: Antonino da Firenze, teologo domenicano e arcivescovo di Firenze, presenta chiaramente l’usura come un caso di turpe lucrum connesso con un contratto di prestito (Summa theologica, ed. 1740, rist. anast. 1959, 2° vol., col. 313). La scolastica medioevale specifica che ogni interesse è usura, ma ciò è limitato al denaro preso a prestito. L’usura è, quindi, riferita sempre e solo al contratto di prestito, così com’è definito dalla scolastica medioevale, che lo riprende dal diritto romano, da cui ricava anche la gratuità del contratto di prestito, o mutuum; nel momento stesso in cui esso cessa di essere gratuito, diventa ipso facto un contratto usurario (Bernardino da Siena, Quadragesimale, cit., p. 225).
Sempre secondo il diritto romano, il contratto di mutuum si applica solo ai beni consumabili, quelli cioè che non possono essere usati senza essere consumati, come il vino, il grano e la moneta (Corpus iuris civilis, 1° vol., Institutiones. Digesta, hrsg. T. Mommsen, P. Krueger, 1877, 197322, p. 764). Il prestatore non si aspetta che il debitore possa restituire esattamente la cosa prestata, ma un’eguale quantità di beni della stessa specie; il di più è considerato usura. È però possibile permettere a qualcuno di avere il libero uso di un bene non fungibile, come una casa o, oggi, di un’automobile; tale contratto, allora, non è più considerato un mutuum, ma un contratto di comodato; se tale contratto cessa di essere gratuito, esso non diventa usurario, ma si trasforma in un altro tipo di contratto, come quello di locazione.
Nella sua analisi dei principali problemi del diritto canonico, fra cui quello dell’usura, l’Ostiense privilegia la conoscenza del diritto romano, cercando di minimizzarne le contraddizioni con il diritto canonico e la teologia; riguardo al problema dell’usura, la Summa dell’Ostiense offre un vero e proprio compendio di ciò che il diritto romano aveva stabilito sulla proibizione dell’usura (Armstrong 2007, p. 45). Ecco la sua definizione della proibizione dell’usura:
l’usura è tutto ciò che è in eccesso del capitale per l’uso della cosa prestata quando o vi sia un accordo o un’intenzione rivelata nel contratto, o anche quello che senza né accordo né intenzione è preteso dal mutuatario (Summa aurea, cit., coll. 1612-1613).
In questa definizione ogni parola ha la sua importanza: innanzi tutto, chiamando usura ogni richiesta di interesse, il maggiore o minore tasso d’interesse non ha alcuna importanza; gli scolastici non vedono, o non vogliono vedere, che l’interesse è presente in tutti i contratti che comportano un investimento di capitali, indipendentemente dalla loro natura giuridica. L’Ostiense riconosce le ragioni dell’imperatore cristiano Giustiniano nel disciplinare i tassi d’interesse:
Questo con riguardo alla legge umana. Per le necessità della società, l’imperatore non poté completamente cancellare il peso delle usure, ma tuttavia lo diminuì;
ma subito dopo ricorda che la legge divina sancisce la proibizione dell’usura (col. 1619). La definizione dell’Ostiense non specifica neanche se il denaro è prestato a un ricco uomo d’affari che intenda investire in un’impresa commerciale vantaggiosa, o a un povero padre di famiglia numerosa.
Il riformatore protestante Giovanni Calvino (1509-1564) opera una sostanziale distinzione tra prestito di produzione o d’investimento, sul quale è bene chiedere un interesse, e prestito di soccorso o di consumo, che dovrebbe essere gratuito o, meglio, sostituto da veri e propri doni (Corsani 1993, pp. 89-113). L’uomo d’affari è in grado di prendersi cura di sé, ma sarebbe un’assoluta malvagità pretendere dal povero padre di famiglia una remunerazione per il prestito concessogli: il ragionamento di Calvino è attento ai bisogni dell’uomo moderno e sembra ben fondato, ma non è quello tipico degli scolastici.
Roberto di Courçon (1155/1160-1219), teologo presso l’Università di Parigi, noto per il suo zelo riformatore e per il favore goduto presso la curia pontificia, scrive una Summa de poenitentia di grande importanza, che tratta un gran numero di quaestiones, fra cui l’usura. Seguendo il diritto canonico, Roberto assimila l’usura alla rapina (Corpus iuris canonici, cit., 1° vol., col. 738) e condanna duramente le cose acquisite ingiustamente: un concilio composto da laici ed ecclesiastici e presieduto dal papa deve imporre le decisioni prese e ripristinare così l’ordine naturale violato (Le traité ‘De usura’ de Robert de Courçon, éd. G. Lefèvre, 1902, pp. XII, 35-37).
Fra il 12° e il 14° sec., vari canoni dei concili ecumenici della Chiesa cattolica si occupano dell’usura: il Concilio lateranense II (1139) priva gli usurai dei sacramenti; il Concilio lateranense III (1179) individua la figura dell’«usurarius manifestus», cioè il cristiano o l’ebreo autorizzato a prestare dall’autorità civile o religiosa; il Concilio lateranense IV (1215) condanna gli ebrei che estorcono ai cristiani «graves et immoderatas usuras» e minaccia sanzioni contro di essi finché non avranno riparato alle vessazioni imposte ai cristiani; il Concilio II di Lione (1274) commina la scomunica alle autorità civili che collaborano con gli usurai; quello di Vienne (1311-1312), infine, dichiara contro la legge umana e divina gli statuti che ammettono un tasso d’interesse ed equipara l’usura all’eresia (Corpus iuris canonici, cit., 2° vol., coll. 812, 816, 1081-82, 1184).
Per la scolastica medioevale, la funzione propria della moneta è quella di essere scambiata; dunque, il suo uso consiste nell’essere consumata. La moneta è così ‘sterile’, incapace di dare frutti, cioè di generare profitti legittimi: «Pecunia pecuniam non parit» (la moneta non genera moneta). Gli scolastici trovano una conferma autorevole di questo principio non nel diritto canonico, ma nell’interpretazione di alcuni passi della Politica e dell’Etica Nicomachea di Aristotele, tradotte nel corso del 13° sec.: la moneta va ottenuta in cambio di oggetti naturali, non di altra moneta. Gli scolastici riconoscono pure che la moneta può diventare ‘capitale’ e produrre frutti attraverso investimenti mirati, come un seme che, se messo nel suolo, germoglia e dà un raccolto (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, cit., pp. 325, 392-93; Bernardino da Siena, Quadragesimale, cit., pp. 169-73, 244-47; Un trattato di economia politica francescana. Il “De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus” di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di G. Todeschini, 1980, p. 85), ma l’intelligente distinzione fra pecunia e capitale non va intesa, come rigetto totale del concetto della sterilità della moneta, ma ha lo scopo di distinguere tra guadagni leciti e illeciti derivanti dall’uso della moneta in genere (Kirshner, Lo Prete 1984; trad. it. 1987, p. 176).
La proibizione dell’usura e la teoria scolastica del contratto di mutuum sono compatibili con l’investimento di denaro in una società commerciale (societas)?
Gli scolastici non sembrano assegnare importanza tanto alla natura della moneta quanto al tipo di contratto posto in essere: essi non vietano di entrare in una società a chi investe moneta per ricavare un profitto, a patto che i profitti e le perdite siano condivisi. Anche se un socio fornisce il capitale e gli altri si limitano a dare il loro personale apporto, tale contratto è perfettamente legittimo: una società non è un contratto di mutuo ma, appunto, un differente contratto (Bernardino da Siena, Quadragesimale, cit., pp. 281-82), che gli scolastici distinguono in funzione dei rischi corsi. Nel contratto di mutuo, il titolo legale della proprietà è trasferito al mutuatario, che assume anche il rischio di perdere o danneggiare la cosa, ed è obbligato a rendere non la stessa cosa, ma il suo equivalente in quantità e qualità. Di conseguenza, il prestatore non può pretendere che gli sia pagato un interesse, perché, in teoria, non corre alcun rischio. Nella costituzione della società, d’altra parte, la proprietà del capitale investito non è trasferita, e il rischio che viene condiviso poi dai soci è considerato una giustificazione legale del profitto: in questo tipo di contratto, è il rischio, e non la moneta, la vera fonte della somma data in aggiunta al capitale.
Inoltre, in Italia, soprattutto a partire dal 13° sec., si utilizzano contratti, come quello di prestito marittimo, che si differenziano dal prestito ordinario perché il prestatore si assume i rischi di naufragio o di attacchi dei pirati, e dunque ha diritto a un tasso di profitto più elevato. Fra le forme di prestito marittimo, i veneziani si distinguono per il ricorso alla ‘colleganza’, i genovesi per quello alla ‘commenda’: contratti entrambi sconosciuti al diritto romano, che condividono, però, alcuni aspetti della societas. La colleganza e la commenda sono una sorta di prestito marittimo, e prevedono la spartizione dei profitti fra l’investitore e un mercante che s’impegna a viaggiare e a commerciare con i fondi oggetto del contratto, per i quali l’investitore accetta il rischio di perdita nel caso di naufragio o di attacco dei pirati, e sui quali riceve un interesse proporzionato ai profitti di scambio condotti dal mercante; i tre quarti dei profitti vanno all’investitore, il rimanente quarto al mercante. L’entità del credito commerciale impiegato in questi contratti diventa ben presto cospicua: data l’ansia del gran numero di investitori di collocare i propri fondi, un mercante può approfittarne a danno degli investitori, gonfiando, per es., le spese sostenute. Ciò preoccupa sia le autorità civili, che s’impegnano a proteggere gli investitori, la cui forza contrattuale non è sufficiente a permettere loro di proteggersi, proibendo nel 1324, per es., a chiunque di inviare o portare oltremare una somma maggiore alla stima del suo patrimonio imponibile, sia le autorità religiose: la decretale Naviganti di papa Gregorio IX (1234) stabilisce che il rischio non può giustificare il conseguimento di un interesse o del profitto, vietando di fatto il prestito marittimo (Lane 1966; trad. it. 1982, pp. 207-09, 213; Corpus iuris canonici, cit., 2° vol., col. 816).
Il punto essenziale dell’analisi condotta dagli scolastici è che l’usura riguarda solo un tipo di contratto, cioè quello di prestito: con questo approccio, però, la dottrina della proibizione medioevale dell’usura diventa un focolaio di interminabili dispute legali, alimentate dagli espedienti cui gli uomini d’affari si affidano per eludere la proibizione dell’usura, e dalle sottigliezze che i teologi elaborano per piegare, non sempre coerentemente, la rigidità dei loro principi alle esigenze della pratica. Bernardino da Siena si oppone strenuamente a che le autorità concedano licenze ai pubblici prestatori; è dubbio, comunque, se comprendesse pienamente tutta la complessità del problema dell’usura, che certo non si risolve revocando licenze. Antonino da Firenze sembra avere maggiore comprensione del problema, quando confronta le botteghe dei prestatori con le case di prostituzione, tollerate come il minore dei mali (Bernardino da Siena, Quadragesimale, cit., pp. 377-87; Antonino da Firenze, Summa theologica, cit., 2° vol., col. 301). Dopo la morte di Bernardino da Siena, il suo discepolo Bernardino da Feltre (1439-1494) assume sul problema una posizione più costruttiva, facendo un’efficace campagna per la creazione dei Monti di Pietà, che prestano denaro in cambio di oggetti dati in pegno, richiedendo un modico interesse per coprire i costi di gestione.
La Chiesa non ha mai ostacolato realmente gli investimenti commerciali; le necessità pratiche hanno posto così gli scolastici di fronte al compito improbo di escogitare mezzi legittimi per riscuotere gli interessi, difendendo sempre il principio della gratuità del prestito. Queste difficoltà vengono risolte dagli scolastici con sottili distinzioni, come la differenza fra contratti leciti e illeciti, e l’ammissione dei cosiddetti titoli estrinseci. Se usura è chiedere qualsiasi cosa oltre al capitale prestato, è tuttavia permesso pretendere una compensazione in virtù di titoli non inerenti il prestito stesso. L’Ostiense ne stila un elenco (Enrico da Susa, Summa aurea, cit., col. 1623); fra i più importanti, vi sono il damnum emergens e il lucrum cessans, che, già conosciuto dal diritto romano, ricorda vagamente il concetto moderno di ‘costo di opportunità’. Se il titolo di damnum emergens viene generalmente accettato dai teologi, poiché il debitore è ritenuto responsabile per ogni danno o perdita subiti dal bene prestato, altri teologi, fra cui Tommaso d’Aquino, rigettano quello di lucrum cessans, poiché esso, dando al prestatore il diritto di pretendere lo stesso capitale che poteva ottenere se lo avesse impiegato in un’altra attività, riapre di fatto le porte all’usura.
Pietro di Giovanni Olivi è fra i primi teologi ad accettare il titolo di lucrum cessans come profitto probabile, da calcolarsi in funzione del profitto medio che avrebbe realizzato il prestatore nel corso di un certo periodo (Un trattato di economia politica francescana, cit., pp. 84-85). Antonino da Firenze accetta la validità del titolo, indipendentemente dal fatto che il prestatore sia un mercante o un semplice cittadino, i quali subiscono comunque un danno o una perdita se privati del loro capitale (Summa theologica, cit., 2° vol., coll. 100-01); un particolare ampliamento del lucrum cessans è l’ammissione della carentia pecuniae come titolo per giustificare la riscossione di un interesse da parte di chiunque, in qualunque circostanza (Noonan Jr 1957, pp. 349-51). Bernardino dedica persino un intero sermone, non privo di contraddizioni e contorte eccezioni, agli espedienti per aggirare la proibizione dell’usura, riconoscendo a un certo punto che i beni presenti sono molto più preziosi di quelli futuri: un principio che, cinque secoli dopo, sarebbe stato invocato da von Böhm-Bawerk come giustificazione dell’interesse (Bernardino da Siena, Quadragesimale, cit., pp. 167, 265-95).
La proibizione dell’usura rappresenta un elemento di debolezza nel complesso della scolastica medioevale. Le distinzioni degli scolastici diventano ben presto fonte di difficoltà senza fine e finiscono per gettare una luce di ambiguità e di discredito sulla scolastica medioevale e sulla sua continuazione, la casistica. Teologi e giuristi, indifferenti alle loro origini e alle rispettive nazionalità, sono infatti fondamentalmente d’accordo sui metodi e sui principi, ma rimangono legati alla definizione dell’usura fornita dal diritto canonico, che con il passare del tempo diventa sempre più oggetto di crescente imbarazzo.
In pieno Settecento, l’economista e banchiere Richard Cantillon (1680-1734) osserva ancora con sarcasmo che
Non vi è nulla di più divertente della moltitudine di leggi e di canoni fatti, lungo il corso dei secoli, sull’interesse del denaro, sempre ad opera di sapienti che non erano affatto al corrente del commercio, e sempre inutilmente (Essai sur la nature du commerce en général, 1755; trad. it. 1955, p. 121).
L’enfasi sulla proibizione dell’usura è un’altra grave mancanza della scolastica medioevale. Lo spazio dedicato ai trattati sull’argomento dà l’impressione che si sia trattato un problema importante. Non è così: la scolastica medioevale considera l’equità nella distribuzione e nello scambio il problema centrale dell’economia; la proibizione dell’usura è una questione che viene dopo, ma la preoccupazione per essa ha fatto sì che se ne lasciasse fuori quasi ogni altra.
La dottrina della proibizione medioevale dell’usura è al centro di dibattiti che in ogni caso continuano oltre il Medioevo, poiché si pubblicano libri che discutono le tesi dei teologi e canonisti più autorevoli, ma non tutti questi trattati hanno eguale valore. Nel 1744 appare in Italia il trattato Dell’impiego del danaro, scritto dal poligrafo marchese Scipione Maffei (1675-1755), che, mentre discute la dottrina medioevale della proibizione dell’usura, nell’ultimo capitolo la mina in modo pericoloso, ammettendo un titolo estrinseco non del tutto nuovo, ma certamente pericoloso per i teologi: il titulus legis civilis, ovvero la possibilità della legge e la consuetudine di una terra di legittimare il
discreto frutto, cui a torto si dà l’equivoco nome di usura, e che con l’usura scelerata, e nociva vien malamente univocato e confuso (Dell’impiego del danaro, rist. a cura di G. Barbieri, G.P. Marchi, 1975, p. 249)
andando contro il diritto canonico medioevale, che vietava agli statuti cittadini di ammettere un tasso d’interesse. Il trattato di Maffei suscita molto scalpore, tanto da spingere papa Benedetto XIV a pubblicare un’enciclica sulla proibizione dell’usura, la Vix pervenit (1745). Nel 1746 Maffei ripubblica il suo trattato senza sostanziali variazioni, ma richiede e ottiene l’autorizzazione ecclesiastica, lo dedica al papa, vi premette l’enciclica Vix pervenit e conclude, in spirito rigorista, che «abbiasi per regola inalterabile, che non bisogna mai per qualche utilità di più perdere il gran bene di coscienza sicura, e cader nel gran male di coscienza dubbia» (Dell’impiego del danaro, cit., p. 261).
A cominciare da Endemann, da parte degli studiosi vi è un’inclinazione ad attribuire alla proibizione dell’usura tutto ciò che si discosta da quanto sembra naturale alla luce della pratica moderna, anche laddove la corrispondenza rispetto alle condizioni economiche dell’epoca costituisce di per sé una spiegazione soddisfacente delle forme utilizzate (Lane 1966, trad. it. 1982, pp. 209-10). Ma lo sviluppo del capitalismo non è stato ostacolato dalle leggi sulla proibizione medioevale dell’usura tanto quanto Max Weber (1864-1920) e Richard H. Tawney (1880-1962) sembrano aver pensato: molto spesso, infatti, gli studiosi hanno imputato a quelle leggi un indiretto, sebbene utile, ruolo nell’espansione degli strumenti di credito, come la lettera di cambio, confondendo la proliferazione delle forme economiche con lo sviluppo economico stesso (de Roover 1963; trad. it. 1988, p. 14). Non è facile, pertanto, calcolare esattamente l’impatto economico che la proibizione dell’usura ha avuto sulla società medioevale. Gli scolastici vengono apprezzati o ridimensionati, in base alla capacità del loro pensiero di precorrere l’ineluttabile evoluzione dell’economia medioevale verso le più moderne acquisizioni dell’economia capitalista; oppure, il grado di rigidità delle loro posizioni viene spiegato con il desiderio di facilitare o meno l’accesso al credito in una particolare congiuntura economica (Kirshner 1977, pp. 154-55). Comunque, la dottrina della proibizione medioevale dell’usura rappresenta uno sforzo pionieristico di costruire, seppure all’interno della filosofia morale, una teoria economica applicata ai problemi sociali attraverso lo strumento della legge, che deve regolare giustamente la distribuzione e lo scambio dei beni circolanti in un’economia di scarsità.
Per le opere del periodo medioevale si veda:
Le traité “De usura” de Robert de Courçon, éd. G. Lefèvre, Lille 1902.
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 2° vol., Pars IIa IIae, B.M. De Rubeis, Ch.R. Billuart, F.-X. Faucher et aliorum notis selectis ornata, Taurini-Romae 1948.
Tommaso d’Aquino, In decem libros ethicorum Aristotelis ad Nicomachum expositio, cura et studio R.M. Spiazzi, Torino-Roma 1949.
Bernardino da Siena, Quadragesimale de Evangelio aeterno, sermones XXXII-XLV, in Opera omnia, studio et cura patrum Collegi s. Bonaventurae, 4° vol., ad Claras Aquas (Firenze) 1956.
Antonino da Firenze, Summa theologica, ed. a cura di P. Ballerini, G. Ballerini, Verona 1740 (rist. anast. in 2 voll., hrsg. I. Colosio, Graz 1959).
Corpus iuris canonici. Editio lipsiensis secunda, hrsg. E. Friedberg, 2 voll., Leipzig 1879-1881 (rist. Graz 1959).
Capitularia regum Francorum, hrsg. A. Boretius, Hannover 1960.
Enrico da Susa, Summa aurea, Venetiis 1574 (rist. anast. Torino 1963).
Un trattato di economia politica francescana. Il “De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus” di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di G. Todeschini, Roma 1980.
Per le opere successive al Medioevo si veda:
S. Maffei, Dell’impiego del danaro, Verona 1744 (rist. a cura di G. Barbieri, G.P. Marchi, Verona 1975).
E. von Böhm-Bawerk, Kapital und Kapitalzins, 1° vol., Geschichte und Kritik der Kapitalzins-Theorieen, t. 1, Innsbruck 1884, Jena 19214 (trad. it. Storia e critica dell’interesse e del capitale, 1° vol., Roma 1986).
G. Salvioli, Il capitalismo antico. Storia dell’economia romana, a cura di G. Brindisi, Bari 1929 (rist. a cura di A. Giardina, Roma-Bari 1985).
B.N. Nelson, The idea of usury. From tribal brotherhood to universal otherhood, Princeton (N.J.) 1949 (trad. it. Firenze 1964).
J.A. Schumpeter, History of economic analysis, ed. E. Body Schumpeter, New York-London 1954 (trad. it. in 3 voll., Torino 1990).
G. Garrani, Il carattere bancario e l’evoluzione strutturale dei primigenii Monti di pietà. Riflessi della tecnica bancaria antica su quella moderna, Milano 1957.
J.Th. Noonan Jr, The scholastic analysis of usury, Cambridge (Mass.) 1957.
L. Cracco Ruggini, Economia e società nell’‘Italia annonaria’. Rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d.C., Milano 1961 (rist. anast. Bari 1995).
R. de Roover, The rise and decline of the Medici bank, 1397-1494, Cambridge (Mass.) 1963 (trad. it. Firenze 1988).
P. Grossi, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Macerata», n.s., 1966, pp. 95-134.
F.C. Lane, Investment and usury, in Id., Venice and history, Baltimore 1966, pp. 56-68 (trad. it. Torino 1982, pp. 205-17).
R. de Roover, La pensée économique des scolastiques. Doctrines et méthodes, Montréal-Paris 1971.
M.I. Finley, The ancient economy, Berkeley-Los Angeles 1973 (trad. it. Milano 1995).
J.H. Mundy, Europe in the high middle ages, 1150-1309, London 1973.
J. Kirshner, The moral problem of discounting Genoese paghe, 1450-1550, «Archivum fratrum praedicatorum», 1977, 47, pp. 109-67.
J. Kirshner, K. Lo Prete, Peter John Olivi’s treatises on contracts of sale, usury and restitution. Minorite economics or minor works?, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1984, 13, pp. 233-86 (trad. it. in Una economia politica nel Medioevo, a cura di O. Capitani, Bologna 1987, pp. 143-91).
U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti. Lezioni di storia del diritto, Torino 1987, 19983.
O. Langholm, Economics in the Medieval schools. Wealth, exchange, value, money and usury, according to the Paris theological tradition, 1200-1350, Leiden 1992.
L. Corsani, L’etica economica di Giovanni Calvino, in M. Miegge, L. Corsani, U. Gastaldi, Protestantesimo e capitalismo da Calvino a Weber. Contributi ad un dibattito, Torino 1993, pp. 81-113.
O. Nuccio, La civiltà italiana nella formazione della scienza economica, Milano 1995.
J.-L. Quantin, Le rigorisme chrétien, Paris 2001 (trad. it. Milano 2002).
G. Todeschini, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed età moderna, Bologna 2002.
G. Ceccarelli, Il gioco e il peccato. Economia e rischio nel tardo Medioevo, Bologna 2003.
P. Vismara, Oltre l’usura. La Chiesa moderna e il prestito a interesse, Soveria Mannelli 2004.
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N.L. Barile, Credito, usura, prestito a interesse, «Reti medievali rivista», 2010, 1, http://www.retimedievali.it.
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