USURPAZIONE
. Diritto romano. - I Romani davano il nome di usurpatio all'interruzione del possesso in corso di usucapione: l'effetto è di rendere inefficace il precedente decorso del tempo, nel senso che, se il possesso viene recuperato, il termine ricomincia a decorrere da capo, e tutti i requisiti dell'usucapione devono essere integrati ex novo (compresa la buona fede, la cui mancanza sopravvenuta non farebbe altrimenti ostacolo).
L'interruzione può essere, secondo la teminologia dei romanisti, naturale o civile. La prima si ha quando in fatto il possessore è spogliato del suo possesso, o altrimenti lo dimette. Si ha invece l'interruzione civile quando il vero proprietario compie un qualsiasi atto contrario al godimento esclusivo dell'usucapiente, il che fino all'epoca di, Cicerone (De orat., III, 28, 110) si faceva anche simbolicamente spezzando un ramo: a più forte ragione l'usurpatio ha luogo se il giudice della rei vindicatio si pronuncia per il proprietario rivendicante. È invece norma costante del diritto classico che la contestazione della lite di proprietà non produca usurpatio; con la conseguenza che, respinto per qualunque motivo il rivendicante, l'usucapione continua. Il rischio che l'usucapione si compia nelle more del giudizio è evitato dal principio che impone al giudice di dichiarare i rapporti di proprietà così com'erano al tempo della litis contestatio. Sembra peraltro che il nuovo regime della praescriptio longi temporis, da cui è dominato il diritto giustinianeo, sia nel senso che la domanda giudiziale produca usurpatio.
Un caso tipico d'interruzione dell'usucapione è quello che si verificava, in base a un versetto delle XII Tavole, quando oggetto dell'usus e del relativo acquisto per decorso di tempo era la potestà maritale (manus, v.); il che avveniva se era stata omessa, o piuttosto irregolarmente compiuta, la solenne vendita della donna (coemptio). Questo usus, che in conformità delle regole dell'usucapione antica si compiva normalmente in un anno, s'interrompeva se prima della fine di questo la donna si assentava per tre notti consecutive dalla casa del marito (usurpatio trinoctii). L'istituto, che molti interpretano come un riconoscimento della libertà della donna (con la conseguente tendenza a considerarlo come troppo evoluto in confronto della data che la tradizione assegna alla legge decemvirale), era invece un mezzo escogitato, d'accordo fra le due famiglie, perché in certi casi (per es., nell'impossibilità di essere attualmente dotata) la donna conservasse i suoi diritti di successione nella famiglia originaria. È discusso se fino dal primo momento i figli nati dal prolungarsi di un'unione senza manus siano caduti sotto la potestà del padre, e se in caso contrario li si considerasse come appartenenti alla famiglia della madre (la quale ultima congettura sembra oltremodo improbabile): comunque, è certo che il regime dell'u. trinoctii ha concorso per molta parte a far riconoscere in definitiva, accanto al primitivo matrimonio cum manu, il matrimonio sine manu, con differenze enormi per quanto riguarda la posizione giuridica della donna, ma con nessuna differenza circa la legittimità della discendenza. L'usus rimase ancora in vigore per qualche tempo, tanto che Cicerone lo cita: al tempo di Gaio (sec. II d. C.) innovazioni legislative (per noi non precisabili) e desuetudine avevano concorso ad abolirlo.
Bibl.: O. Karlowa, Die Formen der röm. Ehe u. Manus, Bonn 1868; L. Mitteis, Röm. Privatrecht, I, Lipsia 1908, p. 252; P. Bonfante, corso di dir. rom., I, Roma 1925, p. 39 segg.; E. Levy, Der Hergang der röm. Ehescheidung, Weimar 1925, p. 101 seg.; W. Westrup, Quelques observations sur les origines du mariage par usus et du mariage sans manus, Parigi 1926; H. Meyer, Friedelehe u. Mutterrecht, in Zeitschr. Savigny-Stift, (Germ. Abth.), XLVII (1927), p. 198 segg.; P.-F. Girard, Manuel élém. de dr. rom., 8ª ed. a cura di F. Senn, Parigi 1929, pp. 162, 334 seg.; A. Manigk, Manus, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV, Stoccarda 1930, col. 1390 segg.; W. Kunkel, Matrimonium, ibid., ivi 1930, col. 2261; id., Römisches Recht, Berlino 1935, p. 136.
Diritto penale vigente. - Nel concetto di usurpazione è insito l'attribuirsi indebitamente beni morali o materiali, sui quali non si ha alcun diritto.
Il codice penale italiano prevede questa forma di attività criminosa sotto vari aspetti a seconda dell'oggetto dell'illecito agire, configurando diverse forme di reati distinti. Se l'oggetto è costituito dalle pubbliche funzioni politiche, militari o civili, si hanno i reati di usurpazione politica e militare e usurpazione di funzioni pubbliche; se l'oggetto sono i segni distintivi di un ufficio o di particolari professioni, titoli o decorazioni, si ha il reato di usurpazione di titoli o di onori; se infine l'oggetto è la proprietà altrui, si hanno i delitti di rimozione di termini, deviazione di acque, invasione di terreni o edifici, turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Usurpazione politica e militare (art. 287). - Allo scopo di garantire il legittimo esercizio di funzioni politiche o di comandi militari e di tutelare la funzione costituzionale d'attribuzione di poteri politici o di alti comandi militari, nell'art. 287 cod. pen. viene punito con la reclusione da sei a quindici anni chiunque usurpa un potere politico, ovvero persiste nell'esercitarlo indebitamente, ovvero assume indebitamente un alto comando militare.
Usurpazione di funzioni pubbliche (art. 347). Il diritto romano prevedeva l'abusivo esercizio di funzioni pubbliche in parte nel crimen maiestatis e in parte nel crimen falsi. Gli stessi principî furono applicati nel Medioevo. Il codice sardo-italiano del 1859 considerava nell'art. 289 l'arbitrario ingerirsi in pubbliche funzioni e nell'art. 236 l'esercizio di queste dopo la cessazione o la sospensione dell'ufficio.
Tra i reati contro la pubblica amministrazione, questa nuova forma di delitto, colmando una lacuna del codice del 1889, mira a colpire coloro che invadono arbitrariamente la cerchia riservata agli organi pubblici. Elemento costitutivo del reato è l'usurpazione: l'assumere o esercitare cioè, senza alcun diritto, pubbliche funzioni o attribuzioni inerenti a un pubblico impiego. Deve trattarsi di professioni, che sono state riconosciute tanto importanti dallo stato da subordinarne l'esercizio a una speciale abilitazione. Parlandosi di usurpazioni è escluso che il semplice sconfinamento dai limiti delle proprie attribuzioni o funzioni rientri in questo reato. All'usurpazione è equiparato il fatto del pubblico ufficiale che, avendo avuto partecipazione del provvedimento che fa cessare o sospendere le sue funzioni o attribuzioni, continua a esercitarle. La pena è la reclusione sino a due anni e la condanna importa la pubblicazione della sentenza.
Usurpazione di titoli e di onori (art. 498). - Questo delitto è stato classificato tra i reati contro la fede pubblica, perché è stato riconosciuto che esso, soltanto in alcune ipotesi, lede i diritti e gl'interessi della pubblica amministrazione; ma, anche quando tale lesione sussista, la caratteristica essenziale del delitto è l'attentato alla fede che la generalità dei cittadini suole riporre nella pubblica esibizione di segni ufficiali o meno, distintivi di particolari onori, uffici o cariche o nella pubblica autoattribuzione di dignità, titoli, decorazioni. Il delitto comprende tre ipotesi. La prima prevede il fatto di chi abusivamente porta in pubblico la divisa o i distintivi di un ufficio o impiego pubblico o di un corpo politico amministrativo o giudiziario, ovvero di una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello stato, ovvero indossa abusivamente in pubblico l'abito ecclesiastico di qualsiasi culto ammesso dallo stato. La seconda ipotesi consiste nell'arrogarsi dignità, gradi accademici, titoli, decorazioni o altre pubbliche insegne onorifiche. La terza consiste nell'arrogarsi qualità inerenti ad alcuni degli uffici, impieghi o professioni indicate nella prima ipotesi. La pena è la multa da lire mille a diecimila. La condanna importa la pubblicazione della sentenza.
Usurpazione della proprietà immobiliare. - Il codice penale del 1930, come il codice abrogato del 1889, è partito dal punto di vista che la tutela penale della proprietà immobiliare debba essere concessa solo per i casi gravi, rinviando ogni altra questione alle sanzioni del diritto privato. Ma nel disciplinare la materia ha chiarito e perfezionato quanto era disposto nel codice precedente. Ha previsto tre forme distinte di reato, che il vecchio codice considerava genericamente sotto il nome di usurpazione, e cioè: la rimozione o alterazione di termini (art. 631: v. termine); la deviazione di acque pubbliche o private (art. 632); la violenta turbativa di possesso (art. 634). In più ha creato un reato nuovo: l'invasione di terreni o edifici (art. 633). L'art. 631 punisce con la reclusione sino a tre anni e la multa sino a lire diecimila, coloro che attentano all'integrità delle limitazioni fondiarie stabilite mediante termini, per appropriarsi a fine di lucro dell'altrui cosa immobile, con violenza o con frode. Non ricorrendo il dolo specifico di volersi l'agente appropriare, in tutto o in parte, dell'altrui cosa immobile, si potrà eventualmente, a seconda dei casi, avere esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ovvero danneggiamento. Con pena uguale, è punito chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, devia acque pubbliche o private, ovvero immuta nell'altrui proprietà lo stato dei luoghi (art. 632). Deviare significa modificare il corso delle acque sviandole: è irrilevante con quale mezzo, e che l'acqua sia stata dispersa o utilizzata. Immutare lo stato dei luoghi vuol dire alterare la loro attuale condizione topografica; è imprimere a un immobile o a parte di esso una forma diversa da quella che aveva.
La violenta turbativa di possesso consiste nel turbare, fuori dei casi indicati nell'art. 633, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili. La violenza deve essere fatta a una persona; la violenza sulle cose non basta. Tale delitto, che ha carattere complementare e sussidiario a quello d'invasione di terreni e di edifici, è punito con la reclusione sino a due anni e con la multa da lire mille a tremila. Per espressa disposizione di legge, il fatto sì considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone.
Il delitto d'invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, trae le sue origini dall'art. 9 del r. decr. legge 22 aprile 1920 n. 515, portante provvedimenti per le occupazioni e coltivazioni di terreni, trasfuso nell'art. 36 del testo unico per la coltivazione e concessione delle terre.
Invadere significa occupare arbitrariamente un luogo, entrarvi senza averne diritto: anche senza violenza o inganno.
Dopo la guerra mondiale, il fenomeno dell'occupazione delle terre e degli edifici, conseguenza delle violente crisi sociali sopravvenute, con riverberi notevoli anche nel campo agricolo ed edilizio, assunse tale importanza e gravità da suggerire al legislatore di punire l'invasione di terreni o altri edifici con la legge speciale sopra citata ora inserita nel codice penale (Lavori preparatori, V, parte 2ª, Roma 1929, pag. 454).
Il fatto, che è punibile a querela dell'offeso, viene punito con la pena della reclusione sino a due anni, ovvero con la multa da lire mille a lire diecimila. Aggravante: le dette pene si applicano congiuntamente e si procede d'ufficio se il fatto sia commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata; da più di dieci persone anche senz'armi.
Bibl.: Cosentino, Il reato di usurpazione nel codice penale italiano, Campobello di Marzara 1900; G. Bortolotto, Dolo e danno nei reati d'usurpazione di funzioni pubbliche, di titoli e di onori, in Riv. penale, Roma, LXII (1905), p. 393; M. Pinto, Del danneggiamento, Napoli 1908; G. Moffa, Usurpazione di funzioni pubbliche, di titoli e di onori, in Suppl. Riv. penale, Roma XXI (1912), p. 220; R. Babboni, Usurpazione di funzioni pubbliche e di titoli, in Rivista di diritto e procedura penale, II (1914), p. 554; Il Digesto italiano, XXIV, Torino 1914-21, p. 141; Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, parte 2ª, Roma 1929, p. 453; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, II, Torino 1933, p. 124 segg.; G. Maggiore, Principî di diritto penale, II, Bologna 1934, pp. 298 e 547.