UTENSILI LITURGICI
Ampia categoria di suppellettili mobili connesse, in senso lato, allo svolgimento di un rito liturgico - intendendo per questo l'insieme delle cerimonie, dei gesti, dei formulari e degli usi insieme a singole specificità linguistiche, dottrinarie e giuridiche (Suppellettile ecclesiastica, 1988, p. 21) - e a questo afferenti in termini di funzionalità pratica diretta, nonché di esplicitazione simbolico-concettuale.
Parti costitutive di un patrimonio storico vastissimo, favorito in molti casi dalla sopravvivenza di relazioni contestuali ancora attive con gli edifici di origine o con il perdurare di pratiche cultuali e devozionali, definibili, nella maggior parte, come fenomeni artistici ovvero, nel caso delle produzioni più seriali, come testimonianze basilari, lungo il corso di tutto il Medioevo, di una prassi rituale intesa come fondamentale identità religiosa collettiva, gli u. liturgici rappresentano un insieme molto articolato di tipologie di oggetti, la cui sistemazione scientifica, in quanto elaborazione di categorie di analisi adeguate, è, almeno in Italia, fenomeno recente e non sistematicamente avviato.
L'assenza, in passato, di veri e propri contributi classificatorî - paragonabili, negli esiti, a quelli prodotti, a partire dalla fine dell'Ottocento, dalla tradizione storiografica francese, con le opere di Rohault de Fleury (1883-1889), di Cabrol e Leclercq (DACL, 1907-1953) e di Lesage (1956-1960), o da quella tedesca, impostata, già intorno agli anni Trenta, su parametri di analisi basati sull'acquisizione dell'interdipendenza fra genesi storica e sviluppo evolutivo della produzione liturgica, quale emerge dai lavori di Braun (1932; 1940) sulle suppellettili e sui reliquiari - ha infatti condizionato, localmente, l'approccio critico nei confronti di tale categoria di oggetti, circoscrivendone la trattazione all'interno di studi di carattere enciclopedico, come quello di Moroni (1840-1879), di ambito catechistico o storico-liturgico, come nel caso dell'opera, pur altrimenti basilare, di Righetti (1950), o a semplici notazioni di carattere stilistico, con l'unica rilevante eccezione, agli effetti di una definizione sistematica degli aspetti lessicali e tipologici degli u. liturgici, costituita di recente dal volume Suppellettile ecclesiastica (1988).
Problematiche diverse relative alla classificazione terminologica degli u., gravata nelle fonti documentarie da sinonimie, varianti o semplici confusioni, alla esatta definizione funzionale dei pezzi, complicata spesso, a posteriori, da fenomeni di adattamento, reimpiego, uso polivalente o addirittura di inquadramento all'interno dei principali riti della tradizione occidentale (romano, ambrosiano, gallicano), costituiscono, in sede critica, i limiti più evidenti nei confronti dello studio degli u. liturgici, in taluni casi noti peraltro solo per via documentaria.Nel caso specifico, ragioni di sistematicità espositiva hanno suggerito un'interpretazione estensiva del lemma, volta ad accomunare, nel concetto di per sé generico ed espressamente pratico di u. liturgici, sia - per annessione - l'insieme di quelli logisticamente afferenti ai vasi sacri, ovvero a essi collegati nello svolgimento liturgico in rapporti di complementarità, estensione o subordinazione funzionale, sia, per connessione, l'insieme di quelli più propriamente compresi all'interno di pratiche liturgiche connesse all'ambito sacramentale, rituale o devozionale, in rapporto reciproco di interdipendenza e cumulazione funzionale.
Ove necessario, l'analisi è stata integrata con il richiamo a quelle suppellettili fra i vasi sacri o a quegli ambiti rituali in rapporto ai quali gli u. stessi sono venuti nel tempo a interferire nell'uso, secondo una suddivisione della materia in generale concorde con Suppellettile ecclesiastica (1988).
Considerato l'altare (v.) come fulcro fondamentale dell'azione liturgico-celebrativa, nel corso della cui evoluzione andò progressivamente definendosi tutta una serie di elementi di arredo fissi o mobili, di vasi sacri e di u. annessi, progressivamente subentrati a configurare il rito eucaristico nella sua valenza commemorativa, simbolico-sacrificale e salvifica, esso risulta caratterizzato nei secoli - aldilà delle sue stesse varianti tipologiche e della presenza imprescindibile della pietra consacrata, contenente peraltro le reliquie necessarie all'assimilazione ideologica del sacrificio di Cristo con quello dei martiri, suoi testimoni - dall'aggiunta di elementi rimovibili o a esso solidali, a seconda dei materiali, come l'antependium (v.), il dossale (v.) e il paliotto (v.).
Funzionali alla cerimonia eucaristica, sempre a livello di arredi primari e dunque come elementi precettivi ai fini dello svolgimento dell'azione liturgica, furono invece - insieme alla tovaglia di rivestimento della mensa, allusiva al sudario di Cristo, dimensionalmente variabile e, a partire dal sec. 8°, venuta arricchendosi nell'uso di più teli sovrapposti - i candelabri (v.) posti in modo stabile, nel rito romano, sulla mensa e la croce (v.), elemento inizialmente non permanente e quindi passato, all'inizio del sec. 13°, nel ricorrere della sua stabile collocazione tra due candelabri (Innocenzo III, De sacro altaris mysterio, II, 21; PL, CCXVII, col. 811) a segnare la configurazione normativa dell'altare stesso. Sempre in quest'epoca, a esso poteva inoltre essere collegato l'uso di un cuscino per sostenere i libri liturgici (v.) e impedirne il danneggiamento della coperta, nonché quello di una corona votiva appesa alla pergula come donativo esplicitamente onorifico.Strettamente legato all'altare, a partire dal sec. 9°, risulta inoltre l'uso di conservare le specie eucaristiche all'interno di strutture a esso adiacenti, pensili al di sopra o poste direttamente nella parte retrostante, e sviluppatesi poi nei vari tipi di tabernacolo (v.) o nei repositorî, attestati già dal sec. 7°, in ricorrenze liturgiche specifiche, tra cui quelle relative alla custodia eucaristica durante la settimana santa.Categoria distinta costituiscono invece, per mobilità, eterogeneità dei materiali costitutivi e diversificazione funzionale, i vasi sacri, sia per quanto riguarda quelli propriamente atti a supportare l'insieme dei riti eucaristici sia nel caso di quelli destinati a racchiudere invece le reliquie o a contenere gli oli santi. Tra questi i principali furono quelli destinati all'Eucaristia, utilizzati fondamentalmente per la preparazione e la somministrazione della medesima, nonché per i riti relativi alla sua custodia ed esposizione, e fissati, a livello tipologico, dopo una lunga fase di distinzione strutturale e materiale, già nel corso del 7° secolo. Nei primi secoli la loro sostanziale derivazione dalle suppellettili di ambito domestico diede luogo sia a fenomeni di reimpiego - all'interno dei quali evolvevano peraltro processi di selezione e riconversione semantica dei temi dell'iconografia pagana - sia a fenomeni di adattamento subordinati a occasionali necessità economiche o forse anche a iniziali ragioni di protezione e occultamento della suppellettile cristiana.A prevalere nella loro primitiva caratterizzazione furono probabilmente criteri di ordine pratico e funzionale nell'ambito dei quali semplicità e decoro formali dei vasi sacri vennero viceversa, nel corso del tempo, incrementati dall'adozione di materiali preziosi - fra cui ben presto divennero precettivi l'oro e l'argento per quelli che entravano in contatto con le specie eucaristiche - e dall'aggiunta di gemme, a significare, oltre alla ricchezza e all'eccezionalità esecutiva delle opere, il loro valore intrinseco, nel caso in cui rappresentassero donativi o suppellettili eseguite a scopo votivo.
Intesa inoltre simbolicamente come offerta e tramite materiale di comunicazione con l'ordine sovrannaturale, l'elaborazione dei vasi eucaristici, già nel corso del sec. 8°, prevedeva, fondamentalmente, l'uso del calice (v.) per la consacrazione del vino con annessa una fistola per la sua assunzione, nonché il ricorso - per la raccolta delle oblate, la loro consacrazione e la distribuzione ai fedeli - alla patena e a una serie di u. correlati a essa in quanto concettualmente relativi al pane (asterisco, coltello eucaristico, stampo per ostie, piattino per comunione, pinze eucaristiche, scatola per ostie) ovvero funzionali alle pratiche dell'offertorio (cucchiaio eucaristico, ampolline, colatoio).Connesso all'uso dei calici ministeriali (Righetti, 1950, pp. 466-467) - destinati alla comunione dei fedeli sotto le specie del vino, secondo una prassi liturgica largamente attestata fino al sec. 13° - è quello della fistola (lat. fistula, calamo, cannula, arundo, calamus, pipa, pugillaris, sipho, sumptorium), cannello metallico per sorbire il vino consacrato, utilizzato dal celebrante e da questi passato, attraverso il diacono e il suddiacono, ai fedeli. La sua menzione nelle fonti, nel tempo molto variabile dal punto di vista terminologico, sembrerebbe attestata già all'epoca di papa Gregorio I Magno (590-604) in ambito romano, ove poi ancora, intorno al sec. 7°, essa ricorre, in una rubrica dell'Ordo Romanus in termini di sequenza liturgica ormai canonica: "Diaconus tenens calicem et fistulam, stet ante episcopum, usquedum ex sanguine [...] Christi, quantum voluerit sumat, et sic calicem et fistulam subdiacono commendet" (Andrieu, 1931-1961, II, p. 361). Tra i secc. 8° e 9° la presenza di fistole tra i donativi dei papi Leone III (795-816) e Gregorio IV (827-844) figura invece nelle varianti sipho e sciphum in stretta pertinenza al calice (Lib. Pont., II, 1892, pp. 8, 77).Passato quindi in Francia in epoca carolingia, l'impiego di tale u. risulta essersi consolidato, con la sola eccezione della Spagna, fra i secc. 12° e 13° in Germania, Polonia, Inghilterra e Italia, tanto da determinare - secondo quanto emerge dalle liste inventariali e ferma restando sostanzialmente la sua tipologia - oltre a un maggior numero di variabili nella qualificazione decorativa dei vari esemplari, un loro sensibile incremento numerico all'interno di una medesima fornitura, come nel caso della cattedrale di Magonza all'epoca dell'arcivescovo Cristiano (1249-1251), nel cui tesoro "Erant fistule quinque ad communicandum argentee deaurate" (Schlosser, 1896, p. 298).Di lunghezza media, talvolta forse anche riducibile fino ad longitudinem digiti, come in un esemplare del duomo di Treviri del 1238 (Bischoff, 1967, pp. 95-97, nr. 91), la fistola era un cannello sottile, cilindrico o conico, ottenuto mediante saldatura dei bordi di una lamina - in oro, argento o argento dorato - intorno a un'asticella di ferro (Teofilo, De diversis artibus, III, 45), lungo il quale potevano essere fissati uno o più nodi per facilitarne la presa. Una leggera svasatura di una delle estremità e l'inserimento di un piattello per l'eventuale raccolta di gocce di vino consacrato costituivano possibili varianti morfologiche, mentre fissa ne rimaneva l'impugnatura. All'adozione, rarissima, di materiali come il vetro (Braun, 1932, p. 260) fanno riscontro invece frequenti testimonianze di esemplari ornati mediante cesellatura, niello o gemme, come quello ricordato nel 1003 nell'inventario dell'abbazia benedettina di Prüm (Bischoff, 1967, pp. 79-82, nr. 74), o con perle e zaffiri, come riportano le liste inventariali del tesoro della sede papale nel 1295 (Molinier, 1888, nr. 469).Tra i principali esemplari di fistole rimasti, due fanno parte di un corredo liturgico composto da calice e patena proveniente da Wilten, e furono eseguiti intorno al 1160-1170 in officine della Bassa Sassonia (Vienna, Kunsthistorisches Mus.), e due, con impugnatura in filigrana a volute, fanno parte di un analogo insieme di produzione tedesca proveniente dal monastero di St. Trudpert, vicino Friburgo in Brisgovia, e sono ascrivibili agli anni 1230-1240 (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters); dello stesso periodo, o forse anche di poco precedente, risulta infine una fistola in argento, conservatasi con la relativa custodia in legno dipinto (Bressanone, Mus. Diocesano).Fin dal sec. 6° risultano documentati recipienti destinati alla raccolta del pane offerto per il sacrificio: denominati propriamente offertoria o più in generale vasa ad sacrificium, la loro menzione ricorre piuttosto stabilmente fino ai secc. 10°-11°, sempre in varie unità numeriche - per es. gli offertoria argentea 10 dell'abbazia di Centula/Saint-Riquier nel sec. 8° (Schlosser, 1896, p. 119) - con caratteristiche materiche preziose e diversificate anche all'interno di uno stesso corredo liturgico, come nel caso dei "vasa ad sacrificium offerendum III, unum christallinum, alterum aureum tercium, de smalgdro Greci operis" del convento benedettino di Altmünster, della prima metà del sec. 11° (Bischoff, 1967, p. 56), e con caratteristiche dimensionali sottoposte probabilmente, nel tempo, a una progressiva riduzione, come per i "vasa argentea parva ad sacrificium" del duomo di Bamberga, dell'inizio del sec. 12° (ivi, p. 18), in concomitanza con l'adozione di particole di pane azzimo.
La patena (lat. patena, patina, patera, discus) era un piatto di norma circolare e metallico, anticamente utilizzato per assolvere a varie finalità liturgiche e in seguito stabilizzatosi quale vaso sacro atto a contenere l'ostia, analogo per valore e dignità cultuale al calice. La sua derivazione concettuale e simbolica dal recipiente utilizzato durante l'Ultima Cena, benché questo non risulti specificamente chiarito nelle fonti evangeliche, a differenza del calice, divenuto poi - per trasposizione metonimica - segno del suo contenuto sacrificale, ne ha favorito, nel corso dello sviluppo liturgico-dottrinale cui fu sottoposto il rito eucaristico nel tempo, l'acquisizione di un significato precipuo, affrancato dalla originaria riduzione di tale recipiente a semplice u. accessorio, non strettamente necessario, al contesto rituale originario.Circa la polivalenza funzionale della patena - impiegata estensivamente, nei primi secoli, in ambito eucaristico, per deporvi il pane, raccoglierlo prima della consacrazione, tenerlo sull'altare e quindi distribuirlo alla comunione, ovvero per caratterizzare sia la fase oblazionale del rito sia quella commemorativo-sacrificale - essa risulta essere stata ampliata, stando almeno alla prassi terminologica delle fonti altomedievali, anche a finalità decorative o piuttosto legate ai riti dell'unzione battesimale e della cresima, laddove viceversa, sempre a livello documentario, sinonimie sembrerebbero aver caratterizzato la definizione di patene e contenitori per il pane delle offerte, spesso confusi o assimilati tra loro funzionalmente, come nel caso delle patenas offertorias argenteas della chiesa di Erstein, in Alsazia, della prima metà del sec. 10° (Bischoff, 1967, pp. 32-33).
La menzione di patenae pendentiles, di dimensioni notevoli e comunque puramente limitate a mezzo ornamentale o a deliberata volontà espressiva del valore intrinseco di una dotazione ecclesiale - ricorrente più volte nel Lib. Pont., per es. fra le varie suppellettili (gabatae, corone, croci, amulae) sospese alla pergula di un oratorio fatto erigere a S. Pietro in Vaticano da Gregorio III (731-741; Lib. Pont., I, 1886, p. 417) - tende viceversa nel tempo a rarefarsi, ricorrendo solo in citazioni occasionali, come quella dell'inventario dell'abbazia di Prüm del 1003: pendet patena christallina (Bischoff, 1967, p. 81).Altrettanto consolidato appare del resto, già nel sec. 5°, il ricorso a espressioni come patena ad chrismam o patena chrismalis per richiamare la tipologia di uno specifico tipo di recipiente per il crisma ora compreso all'interno di servizi da battesimo, come quello donato da papa Innocenzo I (401-417; Lib. Pont., I, 1886, p. 220), ora destinato invece esclusivamente ai riti sacramentali della cresima, come forse nel caso della patenam argenteam auroclusam dell'epoca di papa Silvestro I (314-335; ivi, p. 170).Morfologia, peso e finalità distinte ebbero inoltre le patenae ministeriales impiegate per la distribuzione della comunione ai fedeli, dotate spesso di anse o manici. La loro adozione, di per sé non esclusiva, ma anzi complementare rispetto alla più piccola patena eucaristica di stretta pertinenza sacerdotale, poté tuttavia localmente essere anche sostituita da sacculi in lino, appesi al collo degli accoliti, secondo un uso attestato per es. nel rito romano del sec. 8° (Andrieu, 1931-1961, II).Allo stesso ambito fa capo peraltro il raro riferimento, presente nella biografia di papa Zefirino (199-217), a patenas vitreas (Lib. Pont., I, 1886, p. 139, n. 3), forse assimilabili funzionalmente a quelle ministeriales, tenute davanti al vescovo celebrante e contenenti coronae benedette di pane poi distribuite alla comunità dai diaconi, in base a una prassi non ancora divenuta desueta nel sec. 9° (Parigi, BN, dittico di Francoforte).Le patene più antiche attestano che non esisteva agli inizi una forma specifica vincolante; tra le più interessanti figura la patena in argento da Galognano (Siena, Pinacoteca Naz.), di un tipo già noto in epoca tardoantica, accostabile a quella proveniente probabilmente dal tesoro di Canoscio (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst). Estremamente rari sono gli esemplari conservati di epoca carolingia, fase cui è possibile assegnare solamente l'orlo in oro della patena c.d. di Carlo il Calvo (Parigi, Louvre; un tempo a Saint-Denis, Trésor). Tra i secc. 10° e 12° la forma circolare della patena continuò a essere canonica, ma gli esemplari si possono raggruppare entro certi limiti in base alla morfologia dell'orlo e della tesa e della configurazione centrale della patena stessa, liscia o lobata, e in base alla presenza o meno del cavetto, con le sue varianti iconografiche (Suppellettile ecclesiastica, 1988; Elbern, 1995); si va dalle patene più semplici (Praga, Národní Muz.) alle lobate (Nancy, Trésor de la Cathédrale; patena da St. Peter a Salisburgo, Vienna, Kunsthistorisches Mus.), da quelle figurate recanti nel cavetto per es. l'immagine della Dextera Dei (Trento, Mus. Diocesano Tridentino) o dell'Agnus Dei (Salisburgo, Stift St. Peter) a quelle caratterizzate da un'iconografia complessa, come la patena con orlo, tesa e centro lisci, ma incisi e niellati, proveniente da Wilten (Vienna, Kunsthistorisches Mus.). In epoca gotica la patena si arricchì sul piano decorativo con iscrizioni, ornati geometrici, raffigurazioni a smalto, come mostrano esempi quali la patena di Benedetto XI e quelle di Tondino di Guerrino e Andrea Riguardi (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria).Raro fra gli u. liturgici in adozione nel rito latino - al cui interno esso figura infatti esclusivamente in rapporto alla celebrazione eucaristica papale - è invece l'asterisco (lat. asteriscus, stellula), oggetto in oro, a forma di stella a dodici raggi, posto sulla patena con l'ostia, al fine di evitare la caduta di quest'ultima durante la somministrazione della comunione al pontefice da parte del cardinale-diacono. La sua derivazione da un analogo u. ampiamente diffuso nella liturgia greco-bizantina per evitare il contatto del pane eucaristico con il velo di copertura della patena, ne chiarisce, oltre alla denominazione, il significato originario, legato, nell'esegesi simbolica di Simone di Tessalonica (De sacra liturgia, 85; PG, CLV, col. 264), alle stelle e in particolare a quella di Betlemme. Esemplificativo dal punto di vista tipologico, tra i pochi esemplari medievali rimasti, tutti peraltro di manifattura bizantina, è un asterisco del sec. 11° (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.) formato da due semicerchi intersecantisi, con ciascuna delle estremità piegata ad angolo retto a guisa di base, ma privo del consueto pendente a forma di stella situato all'incrocio dei bracci in corrispondenza - superiormente - di una piccola croce di coronamento.Documentato fin dal sec. 6°, il ricorso a grandi recipienti denominati nelle fonti, spesso genericamente, offertoria, in quanto atti a contenere le oblate, implicava inoltre per la divisione del pane stesso in parti da consacrare o da benedire (e successivamente distribuire) l'impiego di un coltello eucaristico. Attestato nella liturgia orientale con una configurazione a forma di piccola lancia e manico a terminazione cruciforme, in riferimento simbolico al sacrificio di Cristo, il suo uso risulta quindi essere stato introdotto, sia pur di rado, anche nel rito occidentale secondo modalità adottive fondamentalmente limitate - una volta divenuto obsoleto il taglio dei pani posti sulla mensa diaconica - al solo ambito monastico.A quest'ultimo è infatti possibile ricondurre - nella sostanziale scarsezza di riferimenti testuali in merito alla forma e ai materiali adottati - sia alcune rare citazioni di tale u., come il "cultellus auro et margaritis paratus" dell'abbazia di Centula/Saint-Riquier, durante la reggenza di Angilberto, abate dal 790 (Schlosser, 1896, p. 119), o come quello analogamente auro paratum, compreso fra gli arredi dell'abbazia benedettina di Saint-Trond (Sint Truiden) nell'870 (Bischoff, 1967, pp. 87-88, nr. 82), sia soprattutto la sopravvivenza di un rarissimo esemplare, eseguito forse in area padana (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata) e donato intorno al 1220 dal cardinale Guala Bicchieri (m. nel 1227) all'abbazia di S. Andrea a Vercelli. In lama di ferro a doppio filo e impugnatura in legno di bosso, esso presenta una fessurazione mediana longitudinale e una terminazione espansa trilobata utile per apporre, durante la fractio panis, il simbolo trinitario ai vari frammenti; un rivestimento sommitale in argento su ciascuna delle due estremità dell'impugnatura - decorata a rilievo e a traforo con il ciclo dei Mesi e con motivi vegetali - reca inciso, in versi leonini, un distico di ammonimento e salvaguardia da ogni tipo di uso improprio.Fu avvertita già verso il sec. 4° in ambito orientale l'esigenza di distinguere e uniformare le oblate in modo da ricavarne piccoli pani rotondi e piatti, tramite l'uso di stampi destinati al pane eucaristico, come quello in terracotta da Arles, del sec. 5°-6° (Ginevra, Mus. d'Art et d'Histoire), o quello da Djebana, del sec. 6° (Tunisi, Mus. Alaoni; Galavaris, 1970); questi stampi erano peraltro simili a quelli utilizzati per le eulogiae dei pellegrini in Terra Santa - per es. lo stampo palestinese in terracotta, del sec. 6° (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Antiken-Sammlung), e quello di Hierapolis, del sec. 6°-7° (Richmond, Virginia Mus. of Fine Arts) - e distribuiti loro dopo il servizio liturgico. Tale esigenza risulta documentata da numerosi esemplari, come lo stampo pugliese in pietra, del sec. 4°-5° (Brindisi, Mus. Archeologico Prov. Francesco Ribezzo; Jurlaro, 1961), quello in terracotta, da Eisenberg, degli inizi del sec. 5° (Spira, Historisches Mus. der Pfalz), e quello in bronzo, del sec. 5° (Toronto, Univ. of Toronto, Malcove Coll.). Tali stampi, di forma circolare, quadrata o cruciforme - la maggior parte utilizzati nella Chiesa bizantina -, dotati, di norma, di manico tronco-conico, talvolta con elementi incussi al colmo e ornati con simboli eucaristici, sono stati oggetto in sede critica (Galavaris, 1970, pp. 53-62) di una basilare distinzione fra quelli più antichi, dalla formulazione varia ed eterogenea (croce, pesce, iscrizione, cristogrammi), e quelli successivi, ascrivibili ai secc. 7°-8°, ormai codificati in composizioni quadripartite dai bracci di una croce centrale, come lo stampo in terracotta, di incerta datazione, di Ugento (Coll. Colosso; Jurlaro, 1961).
Corrispettivo di una simile esigenza, introdotta nel rito latino a partire dal sec. 9° in seguito all'abbandono della somministrazione eucaristica mediante pane consacrato di varie tipologie (pani schiacciati, gallette, corone), fu l'adozione di ostie rotonde in pasta di pane azzimo, ovvero rispondente alla necessità espressa da Alcuino di York: "panis, qui in corpus Christi consacratur absque fermento ullius alterius infectionis debet esse mundissimus" (Ep., 90; PL, C, col. 289).Documentate a livello iconografico già nei secc. 9°-10°, esse erano analogamente ottenute attraverso l'impiego di appositi stampi; ancora nel sec. 11°, tuttavia, anche in concomitanza della lenta adozione di particole azzime nella prassi liturgica romana, rimasta a lungo fedele al rito della fractio panis, differenze dimensionali fra le ostie dovettero essere largamente ammesse nell'uso, venuto poi fissandosi, solo nel sec. 12°, nel ricorso comune a ostie di piccolo formato, inizialmente destinate alla comunione privata del clero e poi passate a quella dei fedeli, secondo una pratica contestualmente supportata da una serie di elaborazioni teoreticodottrinarie, come quella di Arnolfo di Beauvais (m. nel 1124; Epistola ad Lambertum; ed. a cura di L. d'Achery, Spicilegium, Paris 1723, III, p. 471) o quella, sempre degli inizi del sec. 12°, di Onorio Augustodunense, volta a istituire un parallelismo fra la configurazione delle ostie "in modum denarii formatur, quia panis vitae Christus pro denariorum numero tradebatur" (Gemma animae; PL, CLXXII, col. 555), o ancora quella di Guglielmo Durando, relativa alla configurazione circolare dell'ostia come segno della potestà divina sulla terra, simbolo del principio e della fine (Rationale divinorum officiorum, IV, 30).Molto regolamentate, le pratiche relative alla preparazione delle particole furono, ancora nel corso del sec. 11°, prerogativa circoscritta delle comunità monastiche maschili e femminili, come quella cluniacense, nella quale tuttavia, a indicare una certa organizzazione esecutiva, anticipatrice della susseguente documentata commercializzazione del processo durante il sec. 14° (Rohault de Fleury, 1883-1889, IV, p. 39), intervengono riferimenti allo stampo adottato come "ferramentum in quo sunt coquendae (hostiae) charactetatum" e nel quale "possunt simul hostiae VI poni" (Udalrico, Consuetudines Cluniacenses, III, 13; PL, CXLIX, col. 757).Al sec. 13° risale la diffusione di nuovi stampi in ferro formati da due valve incernierate - una delle quali incisa con il numero, la forma, le iscrizioni o le immagini sacre della particola da ottenere - e collegate a lunghi manici per la presa durante la cottura (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny; sec. 14°): quanto ai soggetti rappresentati, diffusi erano la Crocifissione, la Risurrezione e l'Agnello crocifero, raramente la Natività (Angers, Mus. Diocesano), o anche cristogrammi.Per evitare la dispersione di eventuali frammenti dell'ostia durante la sua distribuzione ai fedeli poteva venire utilizzato un piatto (lat. scutella) di modeste dimensioni, passato da colui il quale era preposto al servizio della messa o, vicendevolmente, dagli stessi fedeli. Di tale u. si hanno notizie documentarie, tra i secc. 11°-12°, in ambito cluniacense, in una descrizione della celebrazione eucaristica dovuta all'abate del monastero di Hirsau nella diocesi di Spira, Udalrico, il quale ne prescriveva l'uso "ut si forte inter sumendum corpus Domini lapsus fuerit, nisi in scutellam cadere non possit" (Consuetudines Cluniacenses, II, 30; PL, CXLIX, col. 721). Finalità analoga poteva avere anche, in antico, il ricorso a una tovaglia tesa da due ministri davanti ai fedeli.
Fra gli u. liturgici mancano invece attualmente di riscontri oggettuali noti, per il periodo medievale, le pinze eucaristiche (lat. forcipes, tenacula, furcheta), il cui impiego - corrispondente in senso lato a quello della fistola (Braun, 1932, p. 265) - dovette probabilmente entrare nell'uso solo in epoca tarda ed essere circoscritto a celebrazioni solenni o alla stessa liturgia pontificale: il ricorso a pinze "ad recipiendum hostiam in calice" (Hoberg, 1944, p. 475) ritorna infatti più volte sia negli elenchi dei tesori papali del periodo avignonese - con varianti terminologiche o distinzioni relative ai materiali, come per es. nel caso di tenacula de argento dell'inventario del 1315-1316 sotto Clemente V (1305-1314; ivi, p. 22) o delle "furchete de auro pro recipienda ostia" dell'elenco del 1353 relativo a Innocenzo VI (1352-1362; ivi, p. 215) - sia, in ambito romano nel Liber de caeremoniis Sanctae Romanae Ecclesiae, della seconda metà del sec. 14°, nel quale è specificamente documentato da parte del suo autore Pierre Ameil (m. nel 1401) l'uso di servire "cum tenaculis de auro hostias consecratas" (PL, LXXVIII, col. 1332).
Tra gli u. finalizzati a contenere le specie eucaristiche, nel caso in cui queste non fossero state consacrate, figura la scatola per ostie (lat. pyxis hostaria, brustea ostiaria, capsula cum hostiis), ricordata nelle fonti a partire dal sec. 12° in seguito alla progressiva sostituzione del pane eucaristico con particole azzime. Fissata da specifiche norme sinodali nel corso del sec. 13° (Braun, 1932, p. 455), la sua adozione non parrebbe tuttavia aver dato luogo né a referenti denominativi specifici - fatta eccezione forse per il termine hostaria con cui tale u. veniva individuato nel cerimoniale papale - né a prescrizioni morfologiche definite che esulassero cioè dalla necessità, espressa per es. nel 1225 nelle Constitutiones di Guglielmo di Blois, vescovo di Worcester, di essere decens et honesta (Mansi, XXIII, col. 176).Di grandezza variabile e forma cilindrica, tale custodia era di regola munita di coperchio ed eseguita in vari materiali, fra cui prevalenti i metalli nobili: dato il suo carattere di u. annesso al servizio liturgico, ma non di esso costitutivo, più modesta risulta la presenza di soluzioni decorative, ridotte per lo più a motivi incisi, niellati o ad aggiunte specifiche, come nel caso del parvo cordone rubeo di un esemplare compreso nell'inventario del 1371 del tesoro papale del periodo avignonese, o del raro rivestimento di una "bustea hostaria cooperta foliis auri et munita multis perlis et lapidibus" di analoga provenienza (Hoberg, 1944, p. 511).La pratica di aggiungere acqua al vino da consacrare, in ricordo dell'Ultima Cena, è attestata già dai secc. 1°-2°, dottrinariamente sviluppata nel pensiero di s. Cipriano (m. nel 258; Epistula LXIII ad Caecilium, 13; PL, IV, col. 395), di s. Ambrogio (De Sacramentis, V, 1; PL, XVI, col. 465) e in numerose altre fonti patristiche, nonché consuntivamente ripresa da Guglielmo Durando nel sec. 13° (Rationale divinorum officiorum, IV, 30) con il ricondurre il senso di tale consuetudine a una serie di collegamenti fra l'acqua e il vino come simboli dell'unione di Cristo con la sua Chiesa, della sua estrema sofferenza sulla croce e della sua duplice natura umana e divina. Essa risulta trasposta, a partire dalla metà del sec. 8°, durante il rito oblazionale (sacrificium) nella fase di preparazione delle specie eucaristiche, nel corso della quale il vino da consacrare recato dai fedeli entro appositi contenitori - una volta filtrato con il colatorium - veniva diluito con acqua mediante l'impiego di cucchiai liturgici, u. progressivamente sostituiti nel corso dei secc. 11° e 12°, specie in area italiana, da una coppia di ampolline.Il ricorso a contenitori di offerta del vino, chiamati in antico amulae, è peraltro testimoniato dai primi secoli del cristianesimo già nelle rubriche offertoriali degli Ordines Romani, a partire dall'Ordo I del sec. 8°, ma relativo alla prassi liturgica romana dei secc. 5°-6° (Andrieu, 1931-1961, II, p. 91), e riguardava il momento in cui il diacono, dopo aver versato il vino recato dai fedeli in simili recipienti entro hamae in oro e argento (Parigi, Louvre; sec. 6°), di capienza maggiore, li restituiva singolarmente a ciascuno. Rispetto all'uso indifferenziato dei due termini hama e amula nel Lib. Pont., ancora nei secc. 8° e 9° e al successivo ampliamento terminologico (hydriae, urceoli, canete) testimoniato dalle fonti dei secc. 10° e 11° (Braun, 1932, pp. 415-420), il contenitore per l'acqua risulta invece, nello stesso periodo, stabilmente menzionato come fons.Suo corrispettivo funzionale, raramente incluso tuttavia fra le suppellettili liturgiche del rito latino, risulta il cucchiaio eucaristico (lat. cochlearium, cochlear, cloquear), destinato all'aggiunta simbolica di alcune gocce d'acqua - tre secondo il cerimoniale di Pierre Amiel (PL, LXXVIII, col. 1325) - al vino consacrato. La sua configurazione usuale appare costituita da una paletta più o meno ellittica (cucchiaio da Isola Rizza, sec. 6°; Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d'Arte), connessa a un manico dritto e liscio (cucchiaio da Galognano, sec. 6°; Siena, Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici; Hessen, Maestrelli, Kurze, 1977), profilato a rocchetti (Pavia, Civ. Mus., sec. 5°; Peroni, 1972) o ripiegato (cucchiaio da Canicattini Bagni; Siracusa, Coll. Agnello; Lipinsky, 1972) e talvolta, specie in alcuni esemplari di produzione bizantina dei secc. 5°-6°, terminante con una croce greca apicale raccordata a un anello di sospensione (Toronto, Univ. of Toronto, Malcove Coll.); funge di norma da raccordo fra le due parti un disco circolare segnato da motivi simbolici come monogrammi o cristogrammi (cucchiaio da Canoscio, sec. 6°; Città di Castello, Mus. Capitolare) o, viceversa, in alcuni casi, un elemento zoomorfico a forma di pesce (cucchiaio da Desana; Torino, Mus. Civ. d'Arte Antica) o di grifone (nel citato cucchiaio da Isola Rizza). All'interno di una simile tipologia, consolidata sia per quanto attiene ai materiali, fra cui ricorrenti appaiono l'argento, l'argento dorato e, raramente, l'oro, sia per quanto riguarda anche le possibili varianti, piuttosto inusuale risulta invece la presenza di tracce di smalto colorato in rari esempi di manifattura bizantina del sec. 6° (Toronto, Univ. of Toronto, Malcove Coll.), riferibili al rito greco e, probabilmente, impiegati per la distribuzione del pane eucaristico.
Dei numerosi esemplari occidentali noti, molti dei quali compresi all'interno di veri e propri tesori liturgici e ascrivibili anch'essi in gran parte ai secc. 5°-6°, non è invece univocamente accertata la funzione originaria, forse riconducibile - almeno per quanto riguarda il ritrovamento di simili u. in corredi sepolcrali - a particolari proprietà apotropaiche (Lipinsky, 1972) o all'agape funebre, come nel caso di due esemplari in argento di produzione germanico-orientale del sec. 5°, con manico profilato, placchetta quadrangolare con iscritta la formula "Vivasces / Vivas in Deo / Utere Felix" e pala rotonda con delfini laterali (nel citato cucchiaio da Desana).Ulteriori modalità d'impiego di tale u. riguardano il suo eventuale uso come equivalente delle pinze eucaristiche (Suppellettile ecclesiastica, 1988), stando almeno alla prassi cluniacense del sec. 11° relativa all'uso del celebrante di porre "hostiam cum cochleari super patenam" (Udalrico, Consuetudines Cluniacenses, II, 30; PL, CXLIX, col. 724), e la raccolta, mediante il cucchiaio stesso, di frammenti delle oblazioni.Non sempre univocamente riferibili all'uso eucaristico - di fatto quasi mai esplicitamente richiamato durante i secc. 10°-12° in sede inventariale - appaiono inoltre le varie menzioni di cucchiai fra le suppellettili di tesori o dotazioni liturgiche, nell'ambito delle quali è solo la prossimità al calice, nella sequenza elencativa, a suggerirne una possibile identificazione in tal senso: è il caso dell'insieme - ancora nell'inventario dell'abbazia di Prüm del 1003 - costituito da un "calicem aureum cum patena aurea [...] unam cum cochleario aureo gemmatoque" (Bischoff, 1967, p. 81) o del solo argenteum cochlear del tesoro del duomo di Strasburgo nel 1181 (ivi, p. 93).
Diffusosi quindi durante il sec. 14° nelle Fiandre, in Germania e soprattutto in Francia - da cui è possibile sia passato a caratterizzare il rito della consacrazione del vino nella liturgia papale romana, mediandolo nella fattispecie dalle consuetudini rituali della curia pontificia durante il periodo avignonese, testimoniate per es. dai "2 cloquearia parva de lapidibus munitis de argento et caudis suis de argento pro aqua ponenda in calice" del tempo di Innocenzo VI (Hoberg, 1944, p. 136) - il cucchiaio eucaristico non sembrerebbe in realtà aver avuto in ambito italiano riscontri tali da determinare un mutamento nell'uso, radicato localmente, delle ampolline, piccoli recipienti atti a contenere il vino e l'acqua per la messa.Entrate nell'uso comune, in quanto coppia di vasi con caratteristiche morfologiche simili, solo a partire dai secc. 11°-12° (Righetti, 1950, pp. 481-482) e tuttavia menzionate come ampullae in ambito monastico già dal sec. 11°, la loro identificazione certa come ricorrenze oggettuali del rito di consacrazione - a questo precedenti e introduttive - ha potuto avvalersi sia del loro stabile inserimento negli elenchi inventariali, dopo l'enumerazione di calici e patene, cioè all'interno di un plesso concettualmente interdipendente di u. liturgici, sia della loro comune presenza in più esemplari, come nel caso delle "ampullas IIII argenteas ad aquam et vinum" della cattedrale di Treviri nel 1238 (Bischoff, 1967, pp. 95-97, nr. 91).
Variabile, ovvero supportata da perifrasi ancora durante la prima metà del sec. 13° - per es. nel richiamo a "duo vascula seu phialas unam vinariam et aliam aquariam" dei Synodal Statutes, scritti per la diocesi di Salisbury fra il 1238 e il 1244 (Councils and Synods, 1964, p. 379) -, la terminologia relativa a tali recipienti sembrerebbe ciò nondimeno essersi successivamente fissata in usi locali specifici, fra cui ricorrenti risultano per l'Inghilterra, nel sec. 13°, le indicazioni phiala o fiala o quelle di vinageria e vinearium per Francia e Spagna all'inizio del 14° secolo.
Differenze analoghe emergono nelle fonti anche per quanto riguarda i materiali costitutivi delle ampolline, resi normativi nel 1298 dalle disposizioni del sinodo di Würzburg (Braun, 1932, p. 422) e da queste limitati all'oro, all'argento, al peltro e al vetro, cui potevano essere aggiunti, nel caso delle dotazioni più povere, anche bronzo e rame.Quanto all'elaborazione di una tipologia precipua, relata alla funzione liturgica di tali u., non sembrerebbero sussistere elementi per delineare né caratteristiche strutturali specifiche né un principio formale evolutivo: dimensioni ridotte, decorazioni diverse con prevalenza di elementi vitinei e ricorso a segni distintivi alfabetici (A, V) o simbolici, per es. pietre preziose, per riconoscerne il contenuto, dovettero infatti costituire la prassi esecutiva. All'interno di questa, la significativa disomogeneità degli oggetti rimasti ha tuttavia consentito taluni raggruppamenti (Braun, 1932, pp. 422-429): da un lato gli esemplari di forma globulare, dotati di un lungo collo e di base di appoggio, che costituiscono forse il tipo più antico e significativamente duraturo, al quale è possibile associare, nel tempo, una grande varietà di pezzi, fra cui per es. un'amula del sec. 5° con le effigi dei Ss. Pietro e Paolo, in argento dorato e di manifattura aulica (Roma, Mus. Vaticani, Mus. Pio Cristiano), vari recipienti in argento di produzione bizantina dei secc. 5°-6° (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters; Venezia, Tesoro di S. Marco) o, molto più tardi, un'ampollina per l'acqua in peltro (Cardiff, Nat. Mus. of Wales), riconducibile a forme diffuse e attestate fra i secc. 13° e 14° dalla Norvegia all'Inghilterra dall'altro gli esemplari derivanti dalla morfologia della brocca con versatoio, a beccuccio o allungato, e manico a voluta. A tale categoria, spesso attestata anche a livello iconografico, appartiene una serie di ampolline a smalto di manifattura limosina, databile al sec. 13°, con motivi ornamentali fitomorfi (Parigi, BN, Cab. Méd.; Firenze, Mus. Naz. del Bargello; New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters), mentre a un ulteriore gruppo privo di piede, con bordo superiore svasato a beccuccio e manico, appartiene un raro esemplare di produzione anglosassone della prima metà del sec. 10°, in rame dorato, con impugnatura serpentiforme, becco zoomorfico e decorazioni a soggetto animale (Londra, British Mus.).Per fare confluire nel calice il vino da consacrare offerto dai fedeli era quindi impiegato il colatoio (lat. colatorium, cochlear, colum, infusorium), u. assimilabile a un cucchiaio forato nella paletta, fornito di manico raramente pieghevole (Braun, 1932, p. 453) per l'impugnatura e concepito allo scopo di filtrare le eventuali impurità del vino stesso. Largamente diffuso già dal sec. 5°, esso ricorre nei secc. 8° e 9° fra i donativi di Leone III a S. Susanna (Lib. Pont. II, 1892, p. 3) o di Sergio II (844-847; ivi, p. 94) ai Ss. Silvestro e Martino come colatorium in argento dorato, sebbene le fonti rivelino anche l'esistenza di pezzi in oro o argento ornati talvolta da gemme, come nel caso dei "cola aurea cum gemmis et margaritis" dell'inventario del duomo di Bamberga nel 1247 (Bischoff, 1967, p. 20), magari offerti in più esemplari contemporaneamente - per es. i cole argentee novem del tesoro del duomo di Magonza nel sec. 12° (Schlosser, 1896, p. 298) - e correlati al servizio divino in base a un'esplicita gerarchia dei materiali costitutivi, come nel caso dei "colatoria tria, I aureum et gemmatum, [...] alia vero II, unum auro argentoque paratum, alterum argenteum cotidianum" presenti nella lista degli arredi liturgici dell'abbazia di Prüm del 1003 (Bischoff, 1967, pp. 79-82, nr. 74).
Nella configurazione dell'oggetto appaiono inoltre variabili sia la distribuzione dei fori, disposti talvolta a formare il monogramma cristologico, sia l'aggiunta di uno o due coperchi ovvero di pomelli e protomi animali per la decorazione del manico (Teofilo, De diversis artibus, III, 57), cui era comunque, di norma, fissato un piccolo anello utile ad assicurarne la presa da parte del suddiacono, preposto - stando alla scansione del rituale liturgico codificata nell'Ordo Romanus IV, del sec. 8° - a tenere il colatoio sull'imboccatura della coppa del calice, precedentemente riempito dall'arcidiacono con l'acqua delle oblazioni (Andrieu, 1931-1961, II, p. 162).Tra gli esemplari pervenuti, insufficienti a marcare cronologicamente una reale linea di sviluppo nella tipologia di tale u., un colatoio in argento niellato, ascrivibile al sec. 5° (Pavia, Civ. Mus.), presenta infatti, nella configurazione dall'innesto quadrangolare fiancheggiato da piccole volute e nel manico a rocchetti, significative assonanze con alcuni degli elementi decorativi presenti nel vasellame da tavola tardoimperiale romano o protobizantino, ambito cui è possibile ricondurre peraltro anche un esemplare in argento, parte del tesoro di Ḥamā, di produzione siriaca (Baltimora, Walters Art Gall.), con innesto segnato da delfini contrapposti, motivo significativamente ricorrente anche nel caso di una categoria di suppellettili come le patere liturgiche, morfologicamente affini.Dei due colatoi del tesoro di Canoscio (Città di Castello, Mus. Capitolare), della prima metà del sec. 6°, uno, con impugnatura desinente ad anello, presenta forme tradizionali, l'altro è invece costituito da una coppa ovoidale traforata, con motivo a chrismon e da un piccolo manico ad anello terminante con una testa di pellicano.Ai secc. 8° e 9° risalgono due esemplari di manifattura irlandese (Dublino, Nat. Mus. of Ireland): il primo, di incerta destinazione profana o liturgica, presenta impugnatura piatta in ferro e coppa in rame a largo invaso con motivi incisi e forati - mentre l'altro, facente parte degli arredi del monastero di Derrynaflan (Tipperary), è costituito da un cucchiaio con un lungo manico desinente ad anello, cui risulta sovrapposta una coppa forata per consentirne l'uso come colatoio; strutturalmente inconsueto per la duplicità funzionale, esso appare molto raffinato nella polivalenza decorativa affidata al rame, all'argento, al bronzo dorato, al vetro e a smalti del tipo 'millefiori'.Allo scopo pratico di eliminare gli insetti e mitigare il caldo durante la liturgia eucaristica venne infine utilizzato, in ambito occidentale a partire dal sec. 9°, il flabello (v.), derivante dal ventaglio di uso profano e divenuto nel tempo attributo simbolico e onorifico.Per quanto attiene alla custodia eucaristica in generale - ovvero alle modalità di conservazione dell'Eucaristia, mediate da arredi fissi come da suppellettili mobili circoscritte, in origine, all'ambito domestico (Tertulliano, Ad uxorem, II, 5; PL, I, col. 1408; Cipriano, De lapsis, 26; PL, IV, coll. 500-501), nonché alla consuetudine di comunicarsi anche in privato, e quindi passate a definire l'uso della medesima come viatico nei viaggi (Gregorio Magno, Dialoghi, III, 36; PL, LXXVII, col. 304), con particolare riferimento alle consuetudini monastiche - essa venne progressivamente determinandosi in sistemi conservativi legati all'edificio sacro e, nella fattispecie, secondo le Constitutiones apostolicae (VIII, 13, 17) del sec. 4°, al sacrarium o sacretarium, locale adiacente alla chiesa (forse identificabile con il diaconico), posto sotto la custodia dei diaconi e a sua volta contenente, probabilmente entro una nicchia, il conditorium, un apposito ricettacolo destinato alla custodia delle specie eucaristiche.Quest'ultimo, menzionato già nel sec. 8° nelle descrizioni della liturgia papale con specifico riferimento al prelievo, da esso, dei sancta ovvero delle specie avanzate dalla precedente celebrazione (Andrieu, 1931-1961, II), era di norma impiegato per riporvi quelle da utilizzare come viatico ai malati, ai moribondi o da inviare ad altre parrocchie in segno di comunione spirituale e fratellanza.
A partire dal sec. 9° la custodia eucaristica fu all'origine di una regolamentazione disciplinare posta in atto mediante ulteriori, diversificate soluzioni, variabili in rapporto agli usi locali, alla loro codificazione nel tempo e comunque sempre più strettamente connesse all'altare in termini di prossimità fattuale e collegamento simbolico. Su tale processo agì fondamentalmente una serie di prescrizioni riguardanti sia l'inserimento della pisside (v.) fra i vasa sacra e gli altri elementi dell'altare, divenuto normativo in una decretale di papa Leone IV (847-855; PL, CXV, col. 677), sia la sua collocazione super altare, lontana cioè da ogni possibile profanazione, espressa nel De synodalibus causis (I, 9; PL, CXXXII, col. 187) di Reginone di Prüm (ante 915) e ancora ribadita localmente, nel 933, nei Synodica ad presbyteros (6; PL, CXXXVI, col. 559) di Raterio, vescovo di Verona.Come conseguenza venne quindi definendosi nel tempo la necessità di racchiudere tale vaso sacro all'interno di un piccolo cofanetto mobile, il propitiatorium, antecedente in senso evolutivo al tabernacolo, diffusosi specie in Francia e in Italia (Firenze, Mus. Naz. del Bargello, sec. 13°); interpretato da Onorio Augustodunense come segno della divinità di Cristo propiziatoria per il genere umano (Gemma animae, I, 136; PL, CLXXII, col. 587), chiuso a chiave e ben sicuro, ovvero atto a conservare convenientemente, secondo le norme del quarto concilio lateranense del 1215, le specie consacrate, nonché collocato, stando alle successive prescrizioni liturgiche di Guglielmo Durando, "super posteriori parte altaris" (Rationale divinorum officiorum, IV, I, 15).Adattamenti locali di tale pratica, fra i secc. 11° e 12°, giunsero a prevedere formule di custodia dell'Eucaristia legate ora alla sua conservazione entro tabernacoli murali, cioè entro nicchie ricavate in spessore di muro nelle adiacenze dell'altare stesso, in cornu Evangelii o nel coro - documentate tanto in Italia quanto soprattutto in Germania e di qui sviluppatesi specie nell'Europa settentrionale, a partire dal sec. 14°, nelle edicole del Sacramento -, ora legate invece alla sospensione di una pisside sopra l'altare secondo un uso affermatosi, specie nel sec. 12°, in Inghilterra, Germania e Francia e secondo una configurazione assimilabile a un vero e proprio tabernacolo pensile.In tale contesto e con diversità di inquadramento relative alla sua classificazione, in sede critica, ora come parte degli arredi dell'altare e, nella fattispecie, come tipo specifico al l'interno della più vasta categoria del tabernacolo e delle sue suddivisioni morfologiche (Rapisarda, 1984), ora invece come tipologia precipua all'interno della categoria delle suppellettili mobili destinate al contenimento dell'Eucaristia - la configurazione materiale e morfologica delle quali attiene alla pisside e al suo impiego liturgico (Suppellettile ecclesiastica, 1988) - risulta inserirsi la colomba eucaristica, recipiente zoomorfico pensile sulla mensa, allusivo, congiuntamente all'epiclesi eucaristica, allo Spirito Santo.Sebbene già nei secc. 4°-5° vi siano riferimenti, per es. fra i donativi di papa Silvestro I (Lib. Pont., I, 1886, p. 176), Innocenzo I (ivi, p. 220) o Ilaro (461-468; ivi, p. 243), alla presenza di oggetti analoghi in oro o argento posti, forse a scopo simbolico-decorativo, in prossimità dell'altare stesso o del fonte battesimale, l'adozione di riserve eucaristiche a forma di colomba, non attestate nella produzione bizantina, appare ricorrere negli elenchi inventariali occidentali, in particolare di area francese, solo a partire dai secc. 10°-11° (Braun, 1932, p. 574), divenendo poi comune, nel corso del sec. 12°, in Germania, Inghilterra e Italia. Probabili specificità d'impiego dovettero peraltro caratterizzarne l'uso come fornitura di monasteri o chiese sia in rapporto all'eventualità che all'interno della colomba venisse posto a sua volta un contenitore per le specie eucaristiche (Foucart-Borville, 1987) - come pare testimoniare nel sec. 11° Udalrico relativamente al monastero cluniacense di Hirsau: "pixidem [...] diaconus de colomba iugiter pendente super altare [..] abstrahit [...] missaque finita in eodem loco reponit" (PL, CXLIX, col. 723) - sia in rapporto alla minore o maggiore regolarità nello svolgimento del servizio divino, in conseguenza della quale la custodia avrebbe potuto contenere ora le particole destinate alla comunità religiosa e consacrate in eccesso nel corso di celebrazioni periodiche, ora quelle necessarie alla comunione degli infermi, materialmente trasportate poi a domicilio in pissidi di piccole dimensioni, perlopiù turriformi, ovvero in pissidi da viatico, come quella del sec. 13° conservata nella parrocchiale di Lugnano in Teverina (prov. Terni).
Alla necessità di supportare visivamente, nella prassi liturgica, la risoluzione di una serie di dispute teologiche, conclusesi nel 1215 con la promulgazione, al quarto concilio lateranense, della dottrina della transustanziazione, risulta inoltre doversi collegare il progressivo diffondersi di tale u. nel Duecento, testimoniato dalla relativa omogeneità della maggior parte degli esemplari rimasti (oggi ca. quaranta), quasi tutti di manifatture limosine, quest'ultime favorite, nella fattispecie, da normative sinodali (1229) venute a confermarne l'idoneità alla produzione di vasi sacri in rame e smalto assimilabili, per qualità e decoro, a quelli in metalli nobili.Si tratta di oggetti di modeste dimensioni (ca. cm 18-20 di lunghezza), fissati a una base di appoggio, simili per struttura e tuttavia singolarmente originali, databili fra la metà del sec. 12° e la fine del 13°: differenze morfologiche sussistono fra gli esemplari più antichi, come quello del sec. 12°, fuso in un solo pezzo e decorato a incisione (Firenze, Mus. Naz. del Bargello), e quelli a smalto successivi (Barletta, chiesa del Santo Sepolcro; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny), nei quali il ricettacolo per l'inserimento delle particole è posto alla base del petto (Buffalo, Albright-Knox Art Gall.; inizi sec. 13°); lateralmente sotto l'ala (Boston, Mus. of Fine Arts; prima metà sec. 13°); o, ancora, le ali risultano incernierate e apribili (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters; Paris, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny; sec. 13°) o piuttosto incrociate (Hannover, Kestner-Mus.; sec. 13°), forse sulla scia dell'influsso naturalistico esercitato dalla metallistica islamica sulle botteghe limosine.Quanto alla ubicazione della colomba eucaristica, essa veniva di norma sospesa dalla volta del ciborio (v.) o da un apposito supporto metallico, tanto isolatamente mediante un semplice gancio, quanto piuttosto all'interno di una struttura (peristerium) consistente in un piatto di posa cui era agganciata una serie di catenelle raccordantisi, mediante un cerchio di sospensione, a un anello apicale e destinata a essere ricoperta da un velo (coopertorium, tentoriolum) in segno di venerazione.
L'uso, attestato in Francia dal sec. 12°, di definire una simile copertura tabernaculum, nel configurare l'assimilazione concettuale fra l'insieme di tale articolato dispositivo - paragonabile peraltro al piccolo padiglione di rivestimento della pisside pensile (Rohault de Fleury, 1883-1889, V, pp. 71-77) - e il tabernacolo in quanto arredo mobile o fisso corrispettivo, ne spiegherebbe anche la trasposizione terminologica e fattuale.Nel corso dei secc. 12° e 13°, caratterizzati dal delinearsi di nuove esigenze di culto legate anche a fenomeni devozionali e di pietà popolare, le consuetudini liturgiche attraverso cui si erano andati fissando, sia a livello di arredo sia a livello di suppellettili mobili, criteri e modalità relativi alla custodia eucaristica trassero quindi nuovo impulso dalla diffusione del culto del SS. Sacramento, quale risultato di una serie di dispute dottrinarie sulla reale presenza di Cristo nelle specie eucaristiche.
Quest'ultima, sancita a livello curiale già nel 1059, decisamente negata da Berengario di Tours (m. nel 1088), richiamata nel 1205-1208 al concilio di Parigi con l'introduzione dell'elevazione dell'ostia dopo le formule consacratorie e definitivamente proclamata, nel 1215, al quarto concilio lateranense, con la dottrina della transustanziazione, ebbe come esito successivo l'istituzione nel 1264, da parte di Urbano IV (1261-1264), della festività del Corpus Domini, cui fece seguito, oltre a una sua prima solenne ratifica nel 1311 con la bolla Si Dominum di Clemente V (1305-1314), la codificazione del suo svolgimento rituale, voluta nel 1318 da Giovanni XXII (1316-1334; Rubin, 1991). Ne derivò, progressivamente, un deciso orientamento della custodia stessa verso il culto dell'ostia extra missam, con un accentuato sviluppo dei segni di rispetto (preghiere, genuflessioni, adorazione) e con una più rigida definizione delle norme a riguardo.A queste venne quindi collegandosi, sia pure attraverso una fase iniziale di adattamento, l'elaborazione di una nuova tipologia di suppellettile come l'ostensorio (lat. custodia, monstrancia, tabernaculum), a rigore non propriamente inquadrabile tra i vasi sacri per il suo non diretto contatto con le specie eucaristiche (Suppellettile ecclesiastica, 1988). Destinato all'esposizione dell'ostia consacrata e così stabilmente denominato a partire dal sec. 16°, ovvero al termine del graduale processo di codificazione morfologica cui venne sottoposto nel tempo, tale vaso sacro deriva, a livello terminologico così come nella genesi strutturale, sia dalla tipologia del reliquiario (v.), per assimilazione concettuale fra il contenimento delle reliquie di un santo e l'ostia consacrata intesa come corpo e dunque reliquia di Cristo (Braun, 1940, pp. 1-3), sia dalla tipologia della pisside, per estensione del concetto di custodia e protezione del medesimo.Delineatasi come pratica cultuale esterna alla celebrazione eucaristica, ben presto ritualizzata per le sue implicazioni ortodosse nonché alla base, già dalla fine del sec. 13°, di una nuova disposizione teologico-devozionale, mutuata dalle pratiche onorifiche tributate, sin dai primi secoli, alle reliquie, l'adorazione dell'ostia - visivamente enfatizzata nella ostensio e praticamente inquadrata all'interno di un ricettacolo idoneo - ebbe come esito fattuale, a livello liturgico, l'avvio di un articolato processo di definizione tipologica dell'ostensorio, nesso causale, a sua volta, della varietà denominativa con cui esso risulta localmente documentato nelle fonti.Venuto generalizzandosi in Germania nel corso del sec. 14°, il termine monstrancia (Braun, 1932, pp. 349-350), allusivo all'aspetto tecnico-pratico del contenitore, reso trasparente grazie all'adozione di teche cilindriche vitree intere o a lastre, appare infatti viceversa limitato, in ambito italiano, all'appellativo tabernaculum, concettualmente afferente alle finalità dell'arredo corrispettivo, o viceversa influenzato dal latino custodia, generico, più tardo e di difficile individuazione a livello inventariale.
A testimoniare del resto la stretta connessione, di tipo derivativo, tra ostensorio e reliquiario intervengono frequentemente, nella consuetudine elencativa delle suppellettili sacre, notazioni lessicali interscambiabili, come nel caso del "reliquiarium de cristallo pro tenendo corpus dominicum cum magno pede et 2 angelis desuper [...] super quo reliquiario est 1 tabernaculum cum pluribus angelis et in eius summitate est 1 crux, totum de argento deaurato", del 1353 (Hoberg, 1944, pp. 249-250) o dell'"ung reliquiaire d'or en façon d'une nef, à porter le Corps Nostre Seigneur, que deux angelotz soustiennent" dell'inventario del 1380, redatto alla morte del re di Francia Carlo V il Saggio (Labarte, 1879, p. 46).
Corrispettivo di un'analoga assimilazione fra i due ricettacoli fu, nella pratica, l'iniziale sostituzione delle reliquie con l'ostia, ottenuta adattando taluni reliquiari - probabilmente del tipo 'a vista' in cristallo di rocca o vetro (Suppellettile ecclesiastica, 1988, pp. 157-160) - mediante l'inserimento, al loro interno, di un'ulteriore custodia trasparente destinata a racchiudere tra le due facce l'ostia stessa o mediante il fissaggio, sul bordo inferiore della teca, di una lunula, ovvero di un elemento di sostegno in oro o argento dorato, formato da due semicerchi combacianti o incernierati per il collocamento di taglio dell'ostia (Cividale, chiesa dell'Assunta; sec. 14°).A questa fase potrebbe appartenere un ostensorio (Hartford, Wadsworth Atheneum) in rame dorato e vetro di produzione francese o tedesca degli inizi del sec. 14°, morfologicamente non comune tra gli esemplari rimasti per la semplicità strutturale del ricettacolo a forma di teca parallelepipeda contraffortata con tetto rivestito da un'imbricatura di tegole e piede rettangolare cuspidato: la presenza alla base del ricettacolo di un foro - forse di alloggiamento per la lunula - sembrerebbe avallarne la destinazione liturgica, probabilmente inquadrabile, data la semplicità dei materiali, fra le forniture di una modesta parrocchiale e comunque fra le poche testimonianze (Saint-Trond, Saint-Gandulphe; PerpeetFrech, 1964, nr. 133) di una tipologia attestata in particolare tra la fine del sec. 14° e gli inizi del 15° (Eucharistic Vessels, 1975, pp. 103-105).Analogamente associativa risulta in taluni ostensori la giustapposizione funzionale, all'interno di una stessa struttura, di reliquie e ostia (Braun, 1932, p. 368; 1940, pp. 378-379), entrata nell'uso nel sec. 14° (Andrieu, 1950, p. 403), attestata in vari esemplari francesi di questo periodo, come quello della parrocchiale di Salles-Curan (dip. Aveyron), quello della chiesa di Les Egleton (dip. Corrèze; Rupin, 1890, p. 514) o l'ostensorio in argento dorato e smalti, del 1325-1350 ca., conservato nella parrocchiale di Fanjeaux (dip. Aude), con ricettacolo cilindrico orizzontale sorretto da due angeli, struttura a sviluppo verticale e iscrizione esplicativa (Les fastes du Gothique, 1981, pp. 241-242), o presente in esemplari spagnoli più tardi.Si tratta di norma di rielaborazioni di una forma base di reliquiario - inquadrabile nella fattispecie sulla linea di sviluppo del tipo 'a fiala' (Suppellettile ecclesiastica, 1988, p. 163) - con ricettacolo cilindrico orizzontale destinato a essere abbandonato nel tempo sia per la specificità e l'esiguità numerica di tale categoria di reliquiari sia, soprattutto, per l'influsso esercitato sulla codificazione strutturale dell'ostensorio dalla morfologia della pisside, ovvero del principale dei vasi sacri finalizzati alla custodia non espositiva, come sembrerebbero dimostrare - oltre alla configurazione di uno tra i più antichi esemplari pervenuti, ascrivibile al 1286 ed eseguito nell'abbazia di Herkenrode, in Belgio (Maffei, 1942, p. 129), costituito da una pisside esagonale con facce in vetro, sormontata da una croce, piede di sostegno e doppia lunetta (Hasselt, Saint-Quentin) - numerosi altri u. della stessa categoria, attestati soprattutto in Italia nel sec. 13° (Roma, Mus. Vaticani, Mus. Pio Cristiano; Braun, 1932, p. 367).Per quanto attiene invece più strettamente al processo evolutivo dell'ostensorio - eseguito normativamente in metalli nobili o comunque dorati (Braun, 1932, pp. 357-359) -, esso risulta essersi fissato, nella prima metà del sec. 15°, in alcune categorie principali, nelle quali alle varie differenze configurative assunte dal ricettacolo corrispose un'evidente mutazione delle caratteristiche del fusto e del piede dai modelli attestati per calici e pissidi. Quadripartite indicativamente secondo Braun (1932, pp. 369-380) nei tipi 'a torre', 'a disco', 'a croce' e 'con figure' (le ultime due piuttosto rare e già in disuso verso la fine del sec. 15°), le prime due tipologie andarono evolvendosi, nel Trecento, nell'ostensorio architettonico e in quello 'a coppa' (Suppellettile ecclesiastica, 1988, p. 117), quest'ultimo più antico, derivante dalla pisside, dotato di teca trasparente (cilindrica, troncoconica o poligonale) e inquadrato entro una struttura caratterizzata, dal punto di vista decorativo, dal ricorso a motivi fitomorfi e geometrizzanti (come nel citato astensorio di Cividale).Del tipo architettonico fanno parte esemplari nei quali la teca di contenimento è racchiusa entro una montatura formata da elementi architettonici vari (pinnacoli, contrafforti, trifore), come quello del sec. 14° conservato nella chiesa di S. Lazzaro a Certaldo (prov. Firenze) o quello della seconda metà dello stesso secolo custodito a Firenze (Mus. Naz. del Bargello) o come il manufatto veneziano del sec. 14° in argento sbalzato e cesellato, con pietre e miniature, da lesene delimitanti, nella fattispecie, un'elegante struttura a tempietto ottagonale (Bari, S. Nicola).
Frequenti soprattutto in età gotica furono inoltre gli ostensori 'a guglia' con ricettacolo allungato, cuspidato e fiancheggiato da uno o più ordini sovrapposti di contrafforti rampanti (Xanten, Dom-Mus., Schatzkammer; 1370-1380), talvolta montati sopra una base per il trasporto processionale (Barcellona, Mus. de la Catedral; 1370-1390). Relati a tale fioritura tipologica risultano infine l'adozione di temi figurativi a soggetto cristologico (Ultima Cena, Passione, Risurrezione) e il ricorso a virtuosismi tecnico-esecutivi e ornamentali consoni al rilievo di tale vaso sacro.Per la conservazione delle ostie grandi consacrate e destinate all'ostensione eucaristica era utilizzata invece una teca eucaristica (lat. theca, custodia, repositorium), configurantesi come un recipiente piatto e circolare (ca. cm 6-9 di diametro) o anche qudrangolare (Braun, 1932, p. 281), chiuso da un coperchio e contrassegnato da un monogramma cristologico o da una croce.Sebbene manchino elementi sicuri atti ad assicurarne la destinazione religiosa, è possibile rientri in tale categoria un contenitore in rame dorato del sec. 14° (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny), le cui caratteristiche, tuttavia - coperchio incernierato, forma circolare, altezza e diametro ridotti - potrebbero ipoteticamente anche essere riferibili a quelle di una scatola per ostie.Diversi per dimensioni, materiali e morfologia sono invece i reliquiari destinati alla conservazione e all'esposizione a scopo devozionale dei resti mortali dei santi e dei ricordi loro collegati.Categoria specifica tra i vasi sacri, di cui costituisce - più esattamente - un'estensione (Suppellettile ecclesiastica, 1988, p. 98), è inoltre quella dei contenitori per gli oli santi destinati alla riserva e alla somministrazione dei medesimi, benedetti a partire dal sec. 7° dal vescovo diocesano in occasione della missa chrismatis del giovedì santo e precettivamente custoditi - come si evince da una serie di norme conciliari - entro piccole teche o armadi murali, chiusi a chiave e ubicati in chiesa o in sagrestia, al fine di evitarne un uso non regolamentato o anche solo superstizioso.Alla valenza simbolica dell'olio, considerato già in antico come elemento incorruttibile e fecondo e passato quindi a configurare, nell'esegesi dei Padri, i carismi dello Spirito Santo, corrispondono infatti, nella prassi liturgica cristiana, un suo impiego diversificato non solo in funzione allegorica, bensì come elemento di consacrazione e materia sacramentale, e una sua distinzione funzionale relativa alla specificità d'uso, come olio per l'estrema unzione (oleum infirmorum) e per la benedizione della campane, per il battesimo, l'ordinazione sacerdotale, la consacrazione di sovrani, di altari e dell'acqua battesimale (oleum cathecumenorum) o come crisma - mistura d'olio d'oliva e sostanze balsamiche così definita nel Pontificale secundum consuetudinem et usum Romanae Curiae del sec. 12° (Andrieu, 1940, p. 455), ma in uso già a partire dal sec. 6° - per la cresima, per l'ultima unzione del battesimo, per la consacrazione dei vescovi e per quella di arredi e u. del culto (sanctum chrisma).Variabile nel corso del Medioevo, la configurazione tipologica dei vasi per gli oli santi non sembrerebbe essere stata fissata né per quanto concerne il ricorso a materiali specifici - fra i quali ricorrenti furono tuttavia l'argento e lo stagno ovvero il reimpiego di strumenti musicali di richiamo in corno (v.) - né per quanto attiene alla morfologia stessa dei vasi, mutuata dall'ambito domestico e in particolare dal genere delle piccole fiale o delle ampolle (v.) in vetro o terracotta.Differenze dimensionali dovettero semmai sussistere in rapporto alla funzione contenitiva dei recipienti, assimilabili sia a vere e proprie anfore, nel caso di quelli utilizzati di norma nelle chiese cattedrali per la consacrazione e la benedizione dei vari tipi di olio, sia a piccoli vasi ansati e con beccuccio, nel caso di quelli destinati alla riserva, sia a contenitori di varia forma per quelli atti alla somministrazione.Rilevante tra questi dovette essere la presenza, già dai secc. 5°-6°, di vasi metallici a foggia di colomba - del tipo di quella donata da papa Ilaro al battistero lateranense (Lib. Pont., I, 1886, p. 243) - appesi di norma in corrispondenza del fonte battesimale; in merito al loro possibile utilizzo come arredi o come effettivi ricettacoli dell'acqua del crisma battesimale sussistono alcuni dubbi, pur essendo quest'ultima finalità di custodia ad aver plausibilmente influenzato la mutazione dell'u. in ambito eucaristico, né potendosi peraltro escludere una polivalenza simbolico-pratica dell'oggetto stesso.
Tra i rari esemplari rimasti, uno in bronzo cesellato e dorato, ascrivibile a officine mosane della prima metà del sec. 12°, reca sul capo una piccola corona e nel becco un ramo di olivo, simboli entrambi cristologici, forse attinenti alla funzione stessa della colomba (Colonia, Erzbischöfliches Diözesanmus.); l'altro, sempre in bronzo, databile al sec. 13° (Fidenza, tesoro della cattedrale), mostra invece più chiaramente sul dorso una larga imboccatura per l'introduzione dell'olio e un becco a versatoio per il suo deflusso.Quanto alla somministrazione degli oli, essa veniva mediata in genere dall'adozione di piccoli contenitori metallici muniti di coperchio, ora semplicemente tripartiti all'interno e nel caso specifico corredati da iniziali o scritte identificative dei vari tipi di olio, ora viceversa racchiudenti, singolarmente o insieme, da una a tre fiale vitree.
La mancanza, almeno fino al concilio di Trento, di regolamentazioni liturgiche specifiche circa la loro tipologia (Suppellettile ecclesiastica, 1988) - riflessa sia dalle numerose varianti terminologiche riportate a riguardo negli elenchi inventariali sia soprattutto dall'effettiva diversità delle categorie di recipienti adibiti nel Medioevo allo scopo - ne ha tuttavia, nel caso di taluni esemplari, reso problematica l'identificazione, tanto più considerando che il raggruppamento di tali suppellettili in veri e propri servizi, omogenei dal punto di vista stilistico, andò verificandosi sistematicamente solo in epoca tarda.Generiche e tuttavia ricorrenti nel tempo, le espressioni vas, attestata fin dal Lib. Pont., e ampulla, più frequente a partire dal sec. 11°, non sembrerebbero infatti aver rilevato alcuna morfologia particolare dei recipienti né alcun diretto collegamento al loro contenuto: dal "vasum ad oleum crismae argenteum" al "vas alium ad oleum exorcidiatum" dei donativi di Innocenzo I alla basilica dei Ss. Gervasio e Protasio (Lib. Pont. I, 1886, p. 220) all'"ampulla ad chrisma ex argento" donata dal vescovo Ottone (1102-1139) al duomo di Bamberga (Bischoff, 1967, p. 18) o a quella "de qua chrisma in fonte sabbato Sancto fundetur" dell'inventario liturgico del duomo di Halberstadt, nel 1208 (ivi, p. 151) o, ancora, alle "2 ampule argenti simul unite [...] propter oleum", dall'inventario avignonese del 1353 (Hoberg, 1944, p. 248).All'interno di quest'ultimo emergono tuttavia, oltre a definizioni più circostanziate - come per es. il ricorso a crismale, termine plausibilmente relatosi nel corso del sec. 14° a una tipologia precisa di recipienti -, anche una serie di specifiche formali, come quelle relative a un "crismale argenti triangolare cum crismate et oleo sancto intus" dell'epoca di Innocenzo VI (Hoberg, 1944, p. 162) o al contenitore per olio "operatum ad formam caxete cum 8 smagtis", compreso fra gli arredi di papa Gregorio XI (1370-1378; ivi, p. 494).Appartengono a quest'ultima tipologia, tra le meglio documentate: un contenitore, bipartito all'interno, in rame smaltato e decorato a racemi (Limoges, Mus. Mun.), ascrivibile a manifatture limosine intorno al 1270-1280 ca. (Gauthier, 1968) e collegabile a un esemplare strutturalmente analogo (già Lucerna, Keir Coll.), forse di ambito romano della fine del sec. 13° (Gauthier, François, 1981), e un cofanetto in lega di rame e tetto a spioventi, contenente all'interno tre fiale in stagno o peltro per gli oli, di produzione inglese, della seconda metà del sec. 14° (Canterbury, The Rector and Churchwardens of St. Martins and St. Paul).
Rara testimonianza costituisce una coppia di piccoli vasi in argento del 1290 ca., di forma globulare e lungo collo svasantesi alla sommità (Ratisbona, capitolo della cattedrale), rispettivamente destinati alla somministrazione degli oli per gli infermi e del crisma - nella fattispecie indicati tramite le iniziali O.I. e C.S. - dono del vescovo Enrico di Rotteneck (1277-1296).
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