Utopia nell’architettura
La città ideale
Da lungo tempo esiste, nella storia della cultura occidentale, una stretta connessione fra architettura e utopia. È consuetudine considerare il dialogo platonico che tratta, tra l’altro, della città ideale (la Repubblica) come la prima utopia di questo filone culturale. Il termine utopia è arrivato in realtà molto più tardi: fu introdotto da Thomas More, che presentò la sua società ideale come realizzata su una lontana ‘isola di Utopia’, secondo quanto recita il titolo stesso del suo libro apparso nel 1516, nel quale molti lessero anche un’allusione a eutopia, il luogo felice. L’utopia è dunque prima di tutto il progetto di una società ideale. Platone mostra come un progetto di questo tipo debba tenere conto di tutti gli aspetti delle attività umane, compreso il rapporto con la natura. Un ampio brano del dialogo platonico, perciò, tratta anche dell’architettura ideale, sebbene su questo punto Platone non si riveli particolarmente originale. Descrive, in pratica, un’architettura identica a quella tipica della Grecia del suo tempo, che egli stesso aveva davanti agli occhi nelle sue realizzazioni più raffinate e che apprezzava. Ben diversa, più tardi, la situazione per More; il pensatore rinascimentale era invece in polemica con l’architettura del suo tempo, la quale a suo giudizio, occupandosi solo di simboleggiare le strutture del potere, era d’intralcio all’organizzazione democratica della società che egli auspicava. Sulla base di questa critica, proponeva quindi la costruzione di blocchi edilizi privi di qualsiasi ornamento, anche se poi osservava che questo avrebbe potuto provocare una noia pericolosa. E ritornava così a proporre la presenza della natura, di facciate abbellite da fiori e arricchite da rampicanti, a lodare l’arte della cura dei giardini che circondano gli edifici. La natura, diceva infatti, non ha nessuna struttura di potere da proclamare.
È interessante notare come i due pensatori, Platone e More, abbiano anticipato di poco due periodi di fervore nell’edificazione di nuove città: si pensi ad Alessandria d’Egitto, fondata da Alessandro Magno pochi anni dopo la morte di Platone, e a tante altre città dell’epoca; e, nel Rinascimento, si pensi a Palmanova o alla trasformazione di Ferrara per iniziativa degli Estensi (cfr. L. Benevolo, La città nella storia d’Europa, 1993). Quasi che la disposizione a pensare e a rappresentarsi le cose in chiave utopistica comportasse anche la capacità di presagire gli sconvolgimenti che si profilavano all’orizzonte, proiettandosi nel futuro per poi approdare a realizzazioni concrete. L’utopia in architettura affiora in certi momenti, poi a tratti si eclissa, ma solo per ricomparire successivamente. Ogni partenza dell’umanità verso nuovi approdi, infatti, è a essa legata. È facile dimostrarlo, per es., per quella nuova partenza che fu il cristianesimo. La Rivelazione di Giovanni con cui si chiude il Nuovo Testamento, là dove parla della discesa della Gerusalemme celeste (Apocalisse, 21, 10 e sgg.), contiene un bellissimo e suggestivo passo sull’utopia architettonica.
L’utopia come anticipazione e rappresentazione
All’inizio del 20° sec. il concetto di utopia subì una trasformazione per opera di Gustav Landauer (Die Revolution, 1907; trad. it. 1970) e di Ernst Bloch (Geist der Utopie, 1918; trad. it. 1980), che affrontarono anche il tema dell’utopia in architettura, ribaltandolo. Su questa trasformazione va spesa qualche parola di chiarimento. Da progetto di una società ideale con tutti i suoi tratti caratteristici, l’utopia divenne un atteggiamento di fondo del pensiero e della rappresentazione che, secondo Bloch, può riscontrarsi anche là dove all’apparenza l’utopia viene rifiutata. Tutta l’attività culturale dell’uomo ricade sotto il comune sospetto dell’utopia. Landauer espresse questa idea in forma molto generale, giocando sull’alternanza fra pensiero utopico e pensiero topico. Il pensiero utopico, che parte inizialmente da singoli individui, contagia i molti e viene poi più o meno realizzato, perdendo, in questo passaggio, il suo carattere utopico e trasformandosi quindi in pensiero topico. Bloch invece, partendo da posizioni abbastanza simili, abbozzò una storia critica della cultura con riferimento a contenuti determinati ma con tendenze verso gli aspetti complessivi. E in questa analisi stabilì sottilissime distinzioni sull’utopico, tanto da fare di questo concetto uno strumento critico di primaria importanza in relazione alla teoria sociale e al piano pratico della politica. Nel chiarire il concetto di utopia oggi, partendo dal nostro specifico punto di vista, seguiremo in maniera sintetica le distinzioni elaborate da Bloch e codificate in Das Prinzip Hoffnung (3 voll.,1954-1959; trad. it. 1994).
L’utopia come anticipazione soggettiva e rappresentazione di un futuro oggettivo e realizzabile è sicuramente molto ambigua. Anche l’ipotesi scientifica, per es., si presenta come anticipazione di un futuro oggettivo e realizzabile, ma essa cerca la verifica, per dimostrare che quanto ci aspettiamo che accada nel futuro accade effettivamente in maniera necessaria, indubitabile. L’esperimento delle scienze naturali è orientato al continuo ripetersi di ciò che deve comunque accadere e proprio per questa via l’ipotesi riceve la propria dimostrabilità e affidabilità. L’utopia invece si riferisce solo a possibilità che presuppongono o implicano forme di intesa e conseguenti azioni comuni. Il carattere di possibilità, inoltre, lascia sempre aperto l’esito finale, o ammette che entrino in gioco processi di mutamento in seguito ai quali ciò che era dato per accettato nell’utopia subisce delle svolte. In considerazione di simili possibilità di cambiamento, Bloch parlava di un carattere sperimentale dell’utopico, che tuttavia va distinto dal concetto di esperimento inteso nel senso rigido delle scienze naturali. Esso, infatti, si riferisce a qualcosa di veramente nuovo e non a qualcosa che si ripete di continuo e in maniera necessaria. Questi due elementi – l’apertura e la novità – vanno tenuti ben saldi nel concetto di utopia.
Quanto detto a proposito del carattere anticipatorio presente nella ricerca vale anche per l’aspetto pratico. In questo caso, in luogo dell’ipotesi c’è la progettazione. Grazie al progressivo innalzamento della soglia delle cose fattibili, la progettazione muove incontro alla spinta realizzativa, e il concetto un po’ paradossale di Bloch dell’utopia concreta al posto di quella astratta sembra spingere alla progettazione, quasi che l’utopia debba trasformarsi in progetto. Ma il progetto cancella dall’utopico l’apertura e la novità; il passo dall’utopico astratto all’utopico concreto è dunque troppo lungo. Nonostante la spinta alla realizzazione presente nell’utopia, infatti, essa riguarda molto più le motivazioni complesse dell’agire sociale. L’aspetto progettuale deve certo inerire in qualche modo all’utopia, ma questa non può esaurirsi nella progettazione.
Quali sono le altre ambiguità? Le finzioni, le immaginazioni in quanto finzioni raffigurate, laddove queste, le finzioni, possono intendersi anche come qualcosa di totalmente astratto o linguistico. Si tratta di modalità del fantasticare indipendenti rispetto al fatto di riferirsi al futuro o al passato, di simulare ricordi o progetti. E non devono necessariamente occuparsi della prassi sociale in cui si muovono, anzi possono volersi sottrarre a essa. Concepire utopie comporta anche, senza dubbio, lo sviluppo di finzioni e immaginazioni, ma solo come fattori che operano anche al di fuori dell’utopico: e questo fatto richiede che ci si sappia guardare dalle confusioni fanatiche.
Vi è un campo particolare che evidenzia la relazione tra tecnologia e futuro, quello che in letteratura viene chiamato science fiction e che oggi si va estendendo all’ambito delle scienze suscettibili di applicazioni tecnologiche. L’aspetto tecnologico in primo luogo prevede che le vecchie forme di vita vengano praticate attraverso nuovi processi di produzione, di commercio, di organizzazione. A seguire, viene poi il mondo di Second life su Internet, con effetti di continuo scambio fra simulazione elettronica e realtà. Ma nell’idea di fondo risuona anche la speranza che le nuove tecniche provochino necessariamente nuove forme di vita. Sull’onda di un simile ottimismo, anzi, si era vagheggiata una grandiosa democratizzazione che sarebbe stata messa in moto dai nuovi mezzi di comunicazione, compreso Internet, poiché con essi ogni sapere sarebbe diventato accessibile a tutti e questo non poteva che far saltare il principio secondo cui sapere è potere. Tutti ora sono in grado di accedere al sapere, e quindi tutti possono possedere il potere senza gerarchie.
Sul tema dell’utopia, determinati aspetti risultano particolarmente ambigui. Come si possono distinguere dall’utopia tutte le forme di anticipazione del futuro sinora ricordate – anticipazione come precorrimento del futuro – quando risultano neutrali rispetto ai valori sociali e a quelli della cultura e della natura in genere? Ipotesi e progetti sono proposti sia dal fascismo, dal nazismo, dallo stalinismo e in genere da tutti i totalitarismi, sia da coloro che lavorano per un futuro più umano. Anche i totalitarismi propongono finzioni, immaginazioni, visioni (con tutto il sapore religioso di cui la parola è carica). Di per sé, l’anticipazione non preannuncia necessariamente valori umani, così come non li preannunciano neanche l’idea di progresso e la volontà di cambiamento.
L’utopia negativa
Diversa è la situazione con quell’ambito di rappresentazioni apparentemente contrapposto all’utopia, spesso indicato come utopia negativa, o anche distopia, che a sua volta va distinta nettamente dall’antiutopia. Prendiamo il caso del romanzo 1984 (1949; trad. it. 1950) di George Orwell, in cui viene prefigurato un futuro buio nel quale tutti vengono osservati, in una trasparenza assoluta e per questo così oscura. Temiamo l’oggi come Stato di sorveglianza portato alla massima perfezione, o forse siamo già arrivati al 1984. Orwell descriveva il futuro buio della trasparenza assoluta per ammonire contro di esso attraverso il grigiore del quadro da lui descritto, tuttavia non lo riteneva inevitabile. E il fatto che sia evitabile, rende l’utopia negativa utopia autentica.
Su questo punto abbiamo un esempio più recente, legato alla prima presa di coscienza e alle prime prese di posizione politiche di fronte al problema dell’ambiente, uno dei più vitali per il mondo di oggi: il progetto elaborato dal collettivo austriaco di architettura Haus-Rucker-Co (fondato nel 1967 e scioltosi nel 1992), Leben in verschmutzter Umwelt (1968), se lo si analizza a partire dalla storia delle sue interpretazioni e degli effetti. Vi si immagina un mondo fatto di celle isolate completamente artificiali, in cui tutto l’ambiente è in realtà una simulazione, fatalmente sterilizzata. Visto come un mondo orribile, terrificante, da evitare assolutamente grazie allo sforzo comune di tutti, con la sua prospettiva di orrore esso conteneva tuttavia in sé la speranza della sua evitabilità; e per il fatto stesso di evocarlo ci si adoperava per evitarlo, si indicavano i motivi per evitarlo: una vera e propria utopia per via indiretta. I progetti di Haus-Rucker-Co, nati alla fine degli anni Sessanta, si imposero all’attenzione internazionale nei successivi anni Settanta. Ma con le attuali discussioni sui cambiamenti climatici, che includono il tema di una Terra resa inabitabile, con le discussioni sul problema dei rifiuti e del loro stoccaggio finale, e sulle aree già divenute invivibili intorno a Černobyl´ e anche nel nord del Canada, in Alaska ecc., quei progetti si rivelano decisamente contemporanei a noi, e quindi in qualche modo tinti di un’utopia negativa o distopici, eppure autenticamente utopici.
Profezia e utopia
Bloch, riferendosi al passato più remoto, aveva stabilito una distinzione fra utopia e profezia: mentre l’utopia prospetta all’uomo un mondo che gli viene incontro, i profeti annunciavano punizioni e castighi. Ma tutto questo poteva essere evitato con la conversione, allontanando la propria vita dal peccato; l’uomo poteva dunque esercitare un’influenza. In questo senso la profezia si innesta nell’utopico; per essa vale ciò che abbiamo detto a proposito dell’utopico negativo. In netto e insanabile contrasto con l’utopico/profetico è invece l’arte divinatoria degli oracoli, degli astrologi e di altri veggenti, che propongono le loro visioni del futuro come infallibilmente necessarie, fatalmente inevitabili, e quindi come una vera antiutopia. Nel destino sta la differenza rispetto all’utopia.
Con la sua ‘funzione utopica’ e il suo ‘spirito dell’utopia’, Bloch non si è spinto a descrivere dettagliate immagini del futuro; per lui, tuttavia, queste sono importanti, perché comunque mettono in gioco sentimenti utopici, messaggi culturali e soprattutto naturali, anche quando l’utopia non è direttamente ricercata, come, per es., nel caso del kitsch. Si potrebbe chiamare tutto questo un’utopia parziale, che può portare a un’utopia indiretta oppure a un fattore utopico, e che può essere messa in luce soprattutto attraverso una convincente interpretazione, non essendo il suo elemento utopico immediatamente visibile. Non si possono forse interpretare le realizzazioni delle città artificiali dei Paesi del Golfo Persico mediante la chiave della funzione utopica indiretta, come un’utopia negativa di ammonimento?
I caratteri distintivi dell’utopia
Comunque sia, dev’essere chiaro che l’utopia si differenzia da tutte le altre categorie di anticipazione del futuro per una sua essenziale componente sociale, in quanto tende a umanizzare l’uomo e il mondo, e questo è il suo primo criterio distintivo. Il secondo criterio ruota attorno a una componente culturale di ogni sapere vitale, di tutte le forme vitali che vanno dalla scienza della natura e dai rapporti con essa fino alla produzione artistica e ai rapporti con l’arte. Il secondo criterio, quindi, guarda alla felicità come base della vita. Esso, pertanto, conferisce una leggera prevalenza all’estetica rispetto all’etica. L’estetica infatti, anche nella sua versione critica, si interessa della felicità, mentre l’etica si occupa della giustizia. Ma che cosa sarebbe una giustizia integrale che portasse all’annientamento della felicità? Meglio allora un pizzico d’ingiustizia, se con esso venisse assicurata a tutti la felicità.
Entrambi i tratti caratteristici ricavati dallo studio dell’opera di Bloch sull’utopia devono essere tenuti presenti: l’utopia parziale sotto forma di un possibile fattore utopico insito in ogni opera della cultura e della natura – un generale sospetto di utopia –, nonché le varie utopie settoriali del diritto, della religione, della natura, della tecnica, delle arti e anche, e soprattutto, dell’architettura. Non c’è filosofo che abbia scritto tanto sull’utopia in architettura quanto Bloch, e nessuno come lui è stato altrettanto fortemente discusso in quest’ambito problematico e assunto come punto di partenza dagli architetti.
Per quanto riguarda l’utopia in architettura, si avverte oggi nel discorso di Bloch l’eco di un terzo elemento, la questione dell’utopia pura, ossia di un’utopia che di sicuro non può essere realizzata. Questo tipo di utopia è continuamente oscurato in Bloch dalla sua passione per un’utopia concreta, cioè realizzabile. Solo dietro la spinta delle suggestioni dell’oggi, si sono potute individuare le tracce di quel tipo di utopia nella sua opera. Oggi, infatti, ci troviamo in un mondo in cui le utopie di un tempo, quando erano considerate ancora realizzabili, si sono rivelate e si rivelano del tutto irrealizzabili. E tuttavia possono funzionare e valere come guida per il comportamento nel senso dei postulati kantiani. È un discorso, questo, che richiama la discussione di Jean-François Lyotard sulle grandi e piccole narrazioni (La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, 1979; trad. it. 1981): le prime sono irrealizzabili, e quindi sono diventate utopie pure, ma continuano a fornire un metro di valutazione per le seconde, indicando se si muovono nella direzione di un possibile progresso, o almeno di un impedimento a un ritorno all’indietro. Tutti e tre i momenti dell’utopia – il fattore utopico, l’utopia settoriale, l’utopia pura – sono importanti per la discussione sulla situazione attuale in architettura, visto che l’utopico in architettura ha trovato espressione molto spesso solo e unicamente in manifesti e programmi, senza alcun tentativo di costruzioni-modello, e anche per questo è rimasto in gran parte fino a oggi – e forse fortunatamente per noi – utopia pura, e per di più a volte solo nel senso di un fattore interpretativo da mettere in luce in sede di analisi. Nella nostra attuale congiuntura storica, dunque, l’utopia si trova in particolare come utopia dell’architettura. E conosce fasi di presenza particolarmente intensa alternate a fasi in cui quasi scompare. Anche in questo senso, come già affermava Bloch, le utopie hanno una loro tabella di marcia, anche se questa affermazione riguardava soprattutto il contenuto, in linea con l’altra massima di Bloch secondo cui non si può desiderare tutto in ogni momento. In molti periodi non vengono in mente alcuni contenuti particolari del desiderio, mentre in altri periodi sono interi modi di concepire le utopie a non affacciarsi alla mente.
Il 20° secolo
Che si sia legati alla tabella di marcia delle utopie in architettura lo si è sperimentato soprattutto negli ultimi decenni della nostra storia recente. Negli anni Sessanta e Settanta le si è viste in piena azione: basterà ricordare tra gli altri i metabolisti giapponesi (per es., Kisho Kurokawa), gli inglesi Archigram e Cedric Price, gli italiani Paolo Portoghesi e Aldo Loris Rossi: tutti autori di grandi imprese di alta utopia architettonica. Dopo di che, l’utopico in architettura è andato affievolendosi; e adesso ci si trova in un certo senso davanti a qualcosa di diverso, perché si è ormai abituati alle crisi, il terrorismo ha reso sospetta la sinistra e la critica, e sono comparse le realizzazioni delle variegate comunità alternative, fino all’architettura delle costruzioni in proprio. Con il postmoderno poi si è realizzata un’architettura visibilmente di altro tipo; il che vale anche per il decostruttivismo.
Già all’interno del gruppo Haus-Rucker-Co si verificò un repentino passaggio dall’entusiasmo tecnologico con prospettiva cosmica all’utopia negativa di una terra immersa in un processo di distruzione, per lo meno per quel che si è visto dai risultati internazionali. E con Rem Koolhaas è nata l’utopia dell’architettura ironico-satirica.
Per il resto, dalle realizzazioni del postmoderno e del decostruttivismo si può estrarre solo indirettamente un’interpretazione in termini di utopia. Così, per es., quando nel postmoderno si vuole vedere una lotta all’insegna del ‘futuro nel passato’, che peraltro esso intende come un gioco neonarrativo, senza la serietà con cui l’intendeva Bloch. Comunque sia, il postmoderno ha riportato in auge l’ornamentale, apparentemente sepolto sotto la polvere, e l’altrettanto impolverato sublime, proponendone nuove versioni (si pensi in particolare a Lyotard). E che dire del decostruttivismo, in cui in fin dei conti rientrano anche le tarde realizzazioni di Coop Himmelb(l)au, provenienti dal brutalismo austriaco? Esso illustra, monumentalizzandola, l’instabilità della ‘posizione dell’uomo nel cosmo’. Un altro elemento in questa direzione si ha con l’idea di ‘architettura del vuoto’, avviata ancora una volta da Koolhaas e concretizzata nel progetto (1982, non realizzato) per il Parc de La Villette a Parigi, posto che lo vogliamo assegnare al decostruttivismo. Vi fu coinvolto Jacques Derrida, oltre a Peter Eisenman.
Nell’‘architettura del vuoto’, alla fine, non c’è alcuna architettura, ma si tratta, piuttosto, di un campo potenziale aperto a possibilità di vario tipo senza costrizione di collocazione, dato che le possibilità non devono essere determinate in termini architettonici. Si tratta, in pratica, di progettare la città a partire dagli spazi vuoti, dalle piazze. Da un lato, il lottare per le possibilità è l’utopico tout-court; dall’altro, il dovere dell’utopia si esprime in esso con una certa modestia. A questo punto, l’utopia può anche essere considerata come un’impresa di élite, che indica ai molti come debbano vivere. Invece dev’essere intesa sempre come un provvisorio progetto-proposta, estremamente variabile, quella che Bloch chiamava ‘figura di uscita da sé stesso’.
Con la dissoluzione del sistema sovietico negli anni Novanta si diffuse poi largamente la convinzione che l’utopia fosse stata messa definitivamente fuori gioco. Ma ben presto ci si accorse che la questione non era tanto di reintrodurre conservativamente il blocco orientale nel capitalismo, quanto piuttosto di sintonizzare l’Oriente sui mutevoli interessi di mercato del capitalismo. E questo comportava una rivoluzione dei bisogni, un cambiamento di impostazione nelle concrete forme di vita. Il grido di trionfo del ‘congedo dall’utopia’ fu, così, presto sostituito da un ritorno perfino eccessivo dell’utopia sulla bocca di molti. Dappertutto ci fu un gran parlare di prospettive, di visioni e di laboratori del futuro, ovvero di presunte utopie, come nel padiglione Utopia all’Expo di Lisbona del 1998 (progettato dallo studio statunitense SOM e dal portoghese Regino Cruz): si videro a volte affiorare sentimenti del genere, però tutto si riduceva a un sottofondo di buone intenzioni.
Ora però vogliamo soffermarci su alcune imprese che segnalano forse come l’utopia non sia relegata solo alle buone intenzioni. Vi includeremo anche i progetti che, dal punto di vista puramente architettonico, sono attualmente in corso d’opera, nella misura in cui le loro realizzazioni, che ovviamente li allontanano dall’utopia, rappresentano dei modelli per una futura generalizzazione delle loro strutture di partenza. In quanto diremo si rispecchiano tutti i punti di vista che abbiamo avanzato. E ancora una volta incontriamo Koolhaas come emblema della nostra situazione attuale.
Rem Koolhaas
Rem Koolhaas (nato a Rotterdam nel 1944) cominciò la sua attività lavorativa come autore di soggetti cinematografici e come giornalista per il quotidiano «Haagse Post». Solo più tardi studiò presso l’Architectural association school di Londra. Questi inizi spiegano in qualche modo le sue capacità narrativo-immaginifiche, nonché la sua propensione all’ironia e al linguaggio metaforico. Il pensiero utopico presuppone simili allargamenti della coscienza, che consentono di produrre, descrivere, illustrare una rappresentazione ed esposizione quanto più possibile concreta.
Da studente di architettura, quando nel 1969 gli venne dato il compito di reinterpretare un edificio esistente, Koolhaas sorprese con la sua idea di scegliere il muro di Berlino, che era stato eretto nel 1961 dal governo della DDR (Deutsche Demokratische Republik) e che godeva naturalmente di una pessima fama. Egli interpretò la ‘striscia di sicurezza’ fra le due parti del muro come un’area di possibilità, e non come una ‘striscia della morte’, com’era stata di fatto ridotta dall’ordine di sparare impartito dalle autorità comuniste. Koolhaas rovesciò così la situazione reale e fece del doppio muro dell’annientamento un doppio muro del desiderio, con una trasfigurazione quasi onirica. Venne dunque inventato uno scenario che occupava lo spazio come se si fosse trattato di un ingresso volontario in tale spazio intermedio alla ricerca della possibilità di nuove forme di vita. Il progetto portava il nome di Esodo, o i prigionieri volontari dell’architettura. Se il complesso dentro lo spazio intermedio offriva una società armonica, questa armonia veniva poi pensata ironicamente nell’ottica della domanda: in che modo, partendo da una situazione edonistica, è possibile, con un’architettura fortemente articolata, divisa in dieci campi tematici ideali, che nasca una società urbana armoniosa? È evidente che il progetto andava inteso solo in senso metaforico, e non come un vero modello. Mai, infatti, la striscia della morte che attraversava Berlino sarebbe stata posta, in un modo o nell’altro, a disposizione di un rovesciamento del genere. Rimane, certo, l’asprezza della penetrante ironia di una trasformazione del muro di Berlino da spazio cittadino ‘cattivo’ a spazio cittadino ‘buono’ nell’ipotesi rappresentata.
Koolhaas e la moglie Madelon Vriesendorp costituirono nel 1975, con Elia Zenghelis e la di lui moglie Zoe, il gruppo OMA (Office for Metropolitan Architecture). Questo gruppo di architetti già nel 1972 aveva rielaborato il precedente progetto di Koolhaas per Berlino, applicandolo a Londra. L’occasione fu fornita da un concorso di idee sul tema La città come luogo del significato. L’idea del doppio muro di Berlino venne trasferita al quartiere londinese di Mayfair e, in quanto esempio concretizzato del motivo ‘esodo’, avrebbe dovuto attrarre verso gli spazi aperti i londinesi, cioè la popolazione di una città immersa negli ingorghi metropolitani. E così il progetto utopistico è diventato una critica al piano urbanistico di Londra, che si distingueva soprattutto per la totale disattenzione al problema della densità urbana. Ancora una volta il gruppo imponeva un’infrastruttura alla città esistente, lavorava con il fotomontaggio e di nuovo si muoveva, ma questa volta con 11 articolazioni, fra due giganteschi muri. L’undicesimo campo era chiamato The city of the captive globe. Le tecniche di questo progetto e i suoi procedimenti, con l’impiego di megastrutture e fotomontaggi, erano tipiche della presentazione delle utopie architettoniche di questo periodo.
Il citato Campo 11 venne nuovamente illustrato, nello stesso 1972, da Zoe Zenghelis in un dipinto che assumeva come modello di riferimento Manhattan. La spinta per questa traslazione era data dalle ricerche effettuate da Koolhaas per la preparazione del suo libro Delirious New York (1978; trad. it. 2001). Il libro raccontava in chiave fantastica l’origine dei grattacieli di Manhattan, e paragonava i diversi modi di progettare una città fra New York e Mosca. Per Mosca si trattava principalmente di redigere manifesti, senza arrivare mai alla realizzazione, mentre New York preferiva la realizzazione senza manifesti. Una differenza profonda, benché gli intendimenti delle due città, secondo Koolhaas, si assomigliassero molto. Entrambe avrebbero puntato a un addensamento degli spazi urbani. Koolhaas faceva riferimento, da un lato, alle utopie idealistico-costruttivistiche di Ivan Leonidov (1902-1959) e, dall’altro, ai forti interessi concreti di New York, immediatamente tradotti in edifici. Il confronto così delineato induceva Koolhaas a posporre i dibattiti formali sulle questioni architettoniche all’architettura come programma di obiettivi vitali; ne seguiva che veniva messa fra parentesi la discussione sull’estetica dell’architettura. Così, per anni Koolhaas si è dedicato a un’‘architettura bassa’, che poteva essere adattata ovunque alle strutture urbane e che era determinata da un concetto fortemente contenutistico, non estetico.
Dal 1980 arrivarono per il gruppo i primi incarichi, che lo costrinsero ancora di più alla concretezza dei piani costruttivi. OMA veniva così invitato dalla Internationale Bauhaustellung di Berlino a un concorso per edifici urbani. Il quartiere per il quale venivano cercate soluzioni confinava con il muro che divideva Berlino fra parte Est e parte Ovest, e che all’epoca dell’invito al concorso funzionava ancora pienamente come ‘striscia della morte’. Nonostante la separazione, nella Berlino occidentale tutto veniva pianificato pensando alla riunificazione. Così anche per il citato quartiere nei pressi del Checkpoint Charlie, a cavallo dell’asse principale nord-sud di Berlino Est, e cioè della Friedrichstrasse. Con una evidente concezione visionaria, OMA elaborava un progetto teso a ricomporre l’unità di Berlino nella storia e nella struttura, e capace di rispondere al bisogno di ricostruzione di una città fino a quel momento compressa. Il gruppo proponeva di realizzare, in quello che era allora il cuore di Berlino, e cioè la stazione di Friedrichstrasse, lo storico progetto del grattacielo di Mies van der Rohe (1919), e fra Gendarmenmarkt e Friedrichstrasse il più rigoroso dei ‘blocchi funzionalisti’ di Ludwig Hilberseimer (1927). Come proposta per lo sviluppo di Berlino Est, ove fosse stato possibile, l’idea era di procedere a una pianificazione coordinata delle due parti della città. Nella Berlino occidentale si sarebbe dovuta perseguire così una minore densità nella copertura degli edifici, trovando ispirazione nel modello delle case a patio di van der Rohe, e mischiandole con edifici intensivi alla Hilberseimer nel centro città. Poiché per il quartiere il gruppo proponeva anche la costruzione di strade sopraelevate ispirate a Erich Mendelsohn, si può dire che esso raccoglieva la maggior parte dei modelli costruttivi dell’architettura berlinese degli anni Venti e Trenta. Per Berlino, dunque, OMA aveva immaginato di combinare passato storico e futuro, e a questo scopo aveva rinunciato a proprie finzioni e narrazioni, a favore, per così dire, di citazioni nell’ottica dell’idea di ‘futuro nel passato’. Tuttavia, se confrontiamo tutto questo con quanto sarebbe accaduto vent’anni dopo, a riunificazione avvenuta, con la ricostruzione del quartiere in questione, dobbiamo invece giudicare il progetto di OMA come un appropriato progetto per il futuro, con la sua analisi della densità e della più rada copertura di edifici (Stadtvillen). Salvo il fatto che nella versione in cui era stata proposta da OMA prima che la realizzazione si rendesse possibile, la ricostruzione avrebbe consentito minori rendite. Proprio per questo motivo e per la rinuncia del gruppo al carattere edonistico di altri suoi precedenti progetti, la giuria accantonò il progetto come ‘utopistico’, e quindi irrealistico. OMA confermava così che il compito delle utopie può essere anche quello di riallacciarsi alla storia e riprendere da essa i modelli delle forme future.
Il successo dei suoi inizi e l’originalità dei suoi progetti, in conflitto soprattutto con la realtà che aveva davanti e in attento e ricercato confronto con l’esistente, assicurarono al gruppo OMA la facoltà di pianificare con un lungo respiro grazie proprio alle sue origini utopiche. Quando nel 1986 la società Euralille bandì il concorso per un nuovo centro di Lille, da costruirsi all’incrocio della nuova ferrovia ad alta velocità della linea Parigi-Londra-Bruxelles, OMA presentò un suo progetto. Ma della proposta di un enorme complesso fu realizzato solo il Congressexpo, che basta tuttavia a darci un’idea sintetica della concezione di città concentrata del gruppo. Vi confluiscono collegamenti a diversi livelli, snodi e intrecci, nonché semplici architetture, nella linea di costruzioni a basso costo (low architecture). A cominciare da Euralille, il gruppo si occupò anche della realizzazione dei progetti; ma conservò il suo motto: «Lavoriamo con la tecnologia del fantastico e non per la prassi dell’utile». Il progetto di Euralille, che a questo motto si ispira, proponeva tale visione per una città nata proprio grazie alla sua posizione baricentrica rispetto alle principali infrastrutture dell’Europa centro-settentrionale. La stima di OMA era che questo centro residenziale avrebbe ospitato alla fine 3 milioni di abitanti. Per il resto, il gruppo si rivolgeva alle aree del globo per le quali, a causa delle masse umane già esistenti o prevedibili, si doveva parlare ormai solo di città ad alta densità. Per questo Koolhaas sviluppò un proprio strumentario nel suo secondo libro, S, M, L, XL (1995).
La nuova città: VEMA
Alla 10a Mostra internazionale di architettura di Venezia (2006), Franco Purini (n. 1941), curatore del padiglione italiano, ha proposto un progetto di ‘città ideale e innovativa’. Stabilito che la città dovesse nascere là dove si incontrano le più importanti linee ferroviarie d’Europa, all’incrocio della Lisbona-Kiev con la Berlino-Palermo, lo spazio interessato era quello fra Verona e Mantova (VEMA). Si trattava di contemperare le esigenze della sostenibilità ambientale e il ruolo di spazio aperto metropolitano. Purini voleva che il progetto fosse inteso come un ‘esperimento totale’: s’intendeva contrastare la ‘città diffusa’. Egli pensava a un modello di regione che all’incontrollato pullulare di città-satellite e di aree agricole sostituisse un sistema ordinato. Il suo masterplan infatti si ispira alle città utopiche tradizionali come Sabbioneta e Palmanova: niente di nuovo dunque sotto il sole, date le soluzioni topologiche e iconografiche già note. Il modello base della città è un angolo retto con le misure auree di 2160×3700 m, pensato per 30.000 abitanti. Purini ha concepito il suo masterplan come ipotesi per una città italiana del 2026, anno del centesimo anniversario della formazione del Gruppo 7, che ha segnato la nascita del Movimento moderno italiano. VEMA si presenta quindi come l’atto più recente di una serie di proposte sulle dimensioni delle città, conseguenti alla storia del Movimento moderno. Ciò significa presupporre una continuità del moderno, senza ipotizzare alcuna forma diversa di concezione della città. E qui si può rilevare una limitazione imposta all’utopico: manca quella visione di un futuro a lungo termine, pronta ad accogliere i mutamenti della società, che è l’essenza dell’utopia.
Questa osservazione però vale solo per il masterplan. Per progettarlo sono stati coinvolti 20 gruppi di architetti sotto i 40 anni, o anche più giovani, che non solo hanno cercato di apportare nuove idee per il settore della città loro affidato, adeguando il proprio tema ai tempi mutati e in via di mutamento, ma hanno inquadrato il loro progetto nella totalità dell’esistente, anche se hanno dovuto inserire prospettive architettonicamente innovative entro gli schemi del masterplan. Così, i progetti degli autori più giovani in molti casi hanno cercato un rapporto tra fattori apolitici, cioè determinati dal mercato, e la necessità di una riforma dell’immaginario della città, cioè il politico-estetico. Alcune volte vi ricorrono echi manieristico-melanconici, come nel caso del cimitero di Pier Vittorio Aureli (Dogma/Office). Esso rappresenta una forma architettonica della collettività, quasi una specie di ‘falansterio’ odierno alla Fourier: ma da Charles Fourier il falansterio era stato pensato come un luogo di felicità su questa Terra, mentre qui esso assume l’aspetto di un grande luogo dell’uguaglianza di tutti davanti alla morte, secondo la tradizione giacobina. L’uguaglianza davanti alla morte richiede un’uguaglianza nella vita, e così i ‘nuovi giacobini’ hanno voluto introdurre, senza ghigliottina, un nuovo stile di vita urbano-comunitario e rivoluzionario. Tradotto in architettura, ciò significa che l’astratta e vigorosa forma dell’anonimato nel senso dell’uguaglianza trova espressione nel tema del cimitero nella vita.
Un altro gruppo, Avatar architettura, ha prospettato nuove possibilità per gli spazi pubblici e privati installando un campo di bambù di 18 ettari in mezzo alla città, che riporta alla mente la copertura di piante, l’ornamentazione vegetale delle architetture di More sull’isola di Utopia. Questo campo, destinato anche alla produzione agricola, con il suo ciclo di crescita e i relativi tagli di raccolta, diviene uno spazio libero disponibile sia per abitazioni facilmente costruibili e rimuovibili, sia per luoghi di intrattenimento mobili. Allo stesso tempo, il bambù può essere adoperato come materiale da costruzione e per la produzione: un tema vitale, un antidoto al cimitero.
Il gruppo guidato da Santo Giunta ha proposto strategie di attenzione alle esigenze culturali degli abitanti, con nuove idee per gli spazi di intrattenimento. Si tratta di un progetto diretto al tempo libero creativo, una condizione che in prospettiva dovrebbe interessare nella società futura un ampio strato della popolazione, a seguito del nuovo assetto nella distribuzione fra il tempo lavorativo e il tempo libero che il progresso dell’automazione porterà inevitabilmente con sé.
Lo studio Liverani/Molteni si è occupato della fabbrica del futuro, avendo in mente il tipo di industria che rende possibile al massimo grado igiene e sicurezza. Solo così essa può essere compatibile con l’abitare e con l’intrattenimento, e può essere intrecciata con essi in maniera tanto stretta da rendere superflue le strade per andare al lavoro.
L’ospedale come ‘organo della città’, luogo di rigenerazione e laboratorio del rapporto con il materiale biologico dell’uomo, deve essere integrato nella città – secondo il progetto di Antonella Mari – in quanto istituzione pubblica per la gestione delle paure e dei dolori, piuttosto che essere respinto all’esterno ed emarginato. Esso viene concepito come distribuito in tante dépendances separate, ramificazioni che si allungano, si diffondono, si disperdono, spuntano qua e là nella città, in modo da rendere quanto più facile possibile il sostegno ai malati e agli anziani al di là del personale specializzato che si prende cura di loro. Questo, e non la costruzione di enormi ghetti per gli ammalati, deve essere secondo l’autrice il contributo dell’architettura al fine di umanizzare la città.
In altri due progetti viene sollevato il tema dell’intensità e della durabilità dei sistemi ecologici in ambito cittadino. Il primo, realizzato dal gruppo ma0/emmeazero, ha al suo centro l’idea di una struttura trasversale continua che va fin dentro la città, dove si incrociavano diversi passaggi pedonali e piazze aperte. Tutti devono essere protetti, in termini di climatizzazione ecologica, secondo i principi della riduzione delle superfici di facciata e una diminuzione dei passaggi dall’interno all’esterno. Il secondo, opera di studio.eu, prevede un ‘parco delle energie’, in parte come impianto di produzione di energie alternative, in parte come area destinata al verde, simile a un parco tradizionale in cui però diventa possibile capire in che modo l’energia viene prodotta. Lo scopo è quello di formare un paesaggio per il divertimento e il tempo libero per gli abitanti della città, in condizioni di armonia fra qualità della vita e produzione di energia.
In conclusione, nel progetto VEMA viene proposto un quadro tradizionale (‘futuro nel passato’?), con molti impianti di vario tipo presentati da giovani architetti e basati su una visione della città orientata verso il futuro: tentativo, quindi, di autentica utopia.
Masdar, l’eco-città
Il progetto per la città di Masdar negli Emirati Arabi Uniti (Norman Foster, 2006) è erroneamente considerato come la realizzazione di un’utopia. Va invece giudicato piuttosto come un laboratorio (in senso non metaforico), come un grande tentativo approdato alla costruzione ecologica in condizioni climatiche estreme, cioè nel deserto. Sotto questo punto di vista, costituisce finora l’impresa più grande. Su una superficie di 640 ettari dev’essere costruita una città per 54.000 abitanti, che in essa devono vivere e lavorare. Obiettivo principale è l’installazione di tutte le tecnologie immaginabili per ottenere energia da fonti rinnovabili, onde dimostrarne i vantaggi. Che la richiesta di un progetto del genere, con la sua immediata realizzazione, provenga dal deserto, si deve a una certa lungimiranza degli sceicchi degli Emirati, in considerazione del fatto che la loro (finora) unica base di vita, il petrolio, è destinata a esaurirsi. Con le ricchezze da questo ricavate, perciò, essi vogliono diventare dei precursori nel campo delle fonti rinnovabili di energia, in modo tale da far durare il loro ricco presente fino a un lontano futuro, e con esso la loro influenza sul mercato globale dell’energia, nonché sulla politica internazionale.
L’insediamento di Masdar, dunque, sarà molto di più che una città ideale dell’utopia tecnologica: esso, infatti, ospiterà anche un Institute of science and tech-nology collegato con il Massachusetts institute of tech-nology, in cui si farà ricerca e si insegnerà. Il richiamo alla New Atlantis (edita post.1627) di Francis Bacon dimostra che la funzione principale di Masdar è quella di essere un istituto che produce incessantemente utopie tecnologiche, anche se, volendolo concepire come utopia, Masdar stessa sarebbe un’utopia semplicemente tecnologica. Millecinquecento ditte di tutto il mondo sono impegnate nel programma e nella costruzione: la chiamata dal deserto non è rimasta inascoltata.
Per Masdar non ci sono da installare solo i parchi eolici a noi familiari (e messi fortemente sotto accusa dal punto di vista dell’estetica del paesaggio) e gli impianti fotovoltaici (che saranno ben presto ugualmente attaccati in nome dell’estetica del paesaggio), ma anche gli impianti geotermici, che consentono di sfruttare le minori temperature dei primi strati del sottosuolo. L’impegno è di conseguire risparmi energetici complessivi. L’esigenza di risparmio riguarda anche l’acqua: il suo consumo dovrebbe essere dimezzato rispetto alle città tradizionali. Per il riciclo dei rifiuti si vogliono creare nuovi modelli. Ai fini di un’efficiente refrigerazione di tutta la città, sono stati scelti edifici bassi, ma rigorosamente regolati, costruiti secondo canoni molto vicini a quelli tradizionali arabi, cosa che corrisponde alle esigenze degli abitanti locali. Ma oltre a tutto questo, è stata progettata la copertura dei tetti con filtri solari. Lo storico dell’utopia corre subito con la mente ai falansteri con anditi coperti di Fourier e alle cupole geodetiche di Buckminster Fuller. Foster – che è un maestro nella costruzione di grattacieli – generalmente si rifiuta di costruire case alte nei paraggi di Masdar per il grande consumo di energia che esse comporterebbero, e lascia simili realizzazioni, folli per quell’area, ad altri colleghi. Per la lotta alle emissioni di biossido di carbonio, Masdar viene tenuta libera dalle auto: niente veicoli con motore a combustione, quindi, e spostamenti, oltre che a piedi, solo con metro, bus elettrici, taxi e altri veicoli elettrici. Un’osservazione attenta delle città arabe esistenti ha fatto sì che i progettisti guidati da Foster provvedessero a un ordine costruttivo fitto e organicamente organizzato con una distribuzione degli spazi adatta al traffico dei pedoni, e poi anche a buoni collegamenti dei mezzi pubblici. L’area autonoma della città, con una propria struttura urbana, è circondata, in mezzo al deserto, da una cintura di verde.
Nata dai concreti interessi economici di ricchi e super-ricchi, e quindi tutt’altro che utopia, Masdar – grazie alla complessa radicalità di Foster nel mediare fra le nuove tecnologie e gli attuali problemi ecologici al di là dei servizi per super-ricchi, attraverso, per così dire, una ‘codificazione multipla’, non dissimile da quanto proposto da Charles Jencks (The new paradigm in architecture. The language of post-modernism, 1977) – ha creato un modello per arginare la catastrofe ambientale che porta a una nuova categoria dell’utopico: l’utopia della legittima difesa. A questo punto siamo molto vicini alle idee di Haus-Rucker-Co, le quali però rimanevano piuttosto all’interno di un’utopia negativa, l’utopia di ammonizione. Pur nella sua complessa autonomia, Masdar non rappresenta tuttavia una stazione isolata, o meglio non dovrebbe esserlo, al di là delle condizioni da ghetto volutamente attuate dagli Emirati; ghetti, comunque, così per Masdar come per Cambridge in Massachusetts, non di esclusione dal mondo, ma di esclusione dalla regione circostante a favore delle relazioni mondiali. In secondo luogo, il progetto di Masdar disegna strutture tecnologiche alternative contro la catastrofe ambientale, che in situazioni politico-economiche del tutto diverse e in luoghi del mondo completamente ‘altri’ potrebbero essere utilizzate in maniera differente. In questo senso, in quanto modello, esso si ferma all’utopia di legittima difesa, secondo l’interrogativo se le rivoluzioni non siano per caso i freni d’emergenza della storia del mondo.
La programmazione della città fra reale e virtuale
L’introduzione delle tecnologie digitali nella produzione di immagini ha fatto scattare interconnessioni di informazioni anche visive all’interno di una rete mondiale, e questo ha influenzato in maniera decisiva la fase di progettazione dell’architettura e i relativi scambi. Ciò ha dato all’architettura enormi possibilità di simulazione – dal progetto al modello e alla sua realizzazione figurata – con la possibilità di scambiare questi passaggi con tutti. Così ora si può rappresentare come reale, nell’apparenza dell’immagine, ciò che ancora non esiste. Bisogna però ricordare che l’ampiezza delle possibilità delle simulazioni dipende dai programmi informatici impiegati, da un lato per la tecnica che le rende possibili, dall’altro per l’interesse realizzativo dei produttori di elettronica, senza parlare dell’attività degli hacker, pubblicamente non utilizzabile. Fino a questo punto, le immagini non fanno che riprodurre tecnologicamente il dato, cosa che Theodor W. Adorno chiamava semplicemente ‘antiutopia’. L’impressione è di avere a che fare con dei videogiochi generati dal computer, fino alla modalità delle libere associazioni artificiali: nonostante tutto il loro carattere visionario, a esse ben si addice la definizione di Adorno. E ciò vale anche là dove, al di là della casualità e dell’occasionalità dei videogiochi, si è spinta la loro complessità, fino a Second life. Così, SimCity, uscito nel 1989, voleva essere un gioco complesso, l’apertura di una seconda vita nel quadro di un rapporto con lo sviluppo e la progettazione della città. Evidentemente, questo aspetto di Second life, che è stato possibile scoprire con la nuova tecnologia mediatica, in fatto di sviluppo e progettazione della città suscita l’impressione di un campo d’azione di ineguagliabili potenzialità nell’ambito dell’utopia architettonica. Tuttavia, le costrizioni imposte dal programma informatico sono di gran lunga superiori all’utopia.
I giocatori di SimCity che abbiano il ruolo di sindaco, o altri ruoli dirigenti, imparano a livello astratto la differenza che corre fra la progettazione di una struttura e l’esecuzione. Si trovano a dover affrontare problemi di intasamento del traffico, di mobilità della popolazione, di mancanza di posti di lavoro, di criminalità sui luoghi di residenza o di lavoro. Guardando alla nostra società attuale, si tratta di un gioco che tende all’apprendimento in funzione di essa, a un rapporto con essa, soprattutto se nel gioco si riveste il ruolo di sindaco e si possono elaborare sperimentalmente strategie per realizzare l’obiettivo dello sviluppo della città; però, grazie allo scambio dei ruoli, rimane sempre la possibilità di una posizione alternativa in piena tranquillità. Ma che cosa ha a che fare questo con l’utopia? Il gioco, inoltre, non fa altro che rispecchiare la realtà esistente e i comportamenti al suo interno, nonostante lo scambio dei ruoli, con tutti i loro limiti e le insanabili contraddizioni, senza avanzare alcuna critica né cercare alcun superamento. Tutto rimane dentro la logica dell’economia di mercato secondo le leggi della domanda e dell’offerta. Così il mercato delle abitazioni con le sue dinamiche dei prezzi dipende dagli altri settori dentro il quadro di integrazione generale. Se, nel gioco, aumenta la domanda di lavoro, cresce la città e si insediano nuovi cittadini e, come nella realtà, aumenta anche il valore di mercato delle abitazioni. Al contrario, se si innestano tendenze negative, gli abitanti lasciano la città, subentrano sia la svalutazione delle abitazioni sia la crisi immobiliare, con una realistica introduzione nell’economicismo proprio del neoliberalismo. Così vanno le cose con Second life: tutto scontato. Questi mondi virtuali probabilmente non sono utopia, anche se vengono sognati dappertutto. Essi sono certo la manifestazione di un’inquietudine topica e di un bisogno utopico, ma tradiscono l’utopia. Non serve qui nemmeno l’utopia di interpretazione. L’utopia vuole il cambiamento in meglio della società degli uomini e del suo rapporto con la natura, non la prosecuzione di quanto esiste, in una ripetizione bella e buona.
Bibliografia
L. Caneparo, SimCity. La programmazione urbanistica tra reale e virtuale, «Rassegna», 2005, 81, pp. 110-21.
R. Koolhaas, J.-F. Chevrier, Changement de dimensions. Entretien avec Rem Koolhaas, «Architecture d’aujourd’hui», 2005, 361, pp. 88-107.
La città nuova Italia-y-26: invito a VEMA. Il padiglione italiano alla 10a Mostra internazionale di architettura, a cura di F. Purini, N. Marzot, L. Sacchi, Bologna 2006.
A. Heyer, Der Stand der aktuellen Utopieforschung, 2 voll., Hamburg 2008.
Grossprojekt Masdar-City. Grüne Öko-Stadt in der Wüste, «Spiegel online», 9 Februar 2008, www.spiegel.de/wirtschaft/ 0,1518,534205,00.html (22 dicembre 2009).