Utopia
di Valerio Verra
Utopia
sommario: 1. Introduzione: utopia e utopismo. 2. Utopia ed escatologia. 3. Utopia, ideologia, immaginazione sociale. 4. Marxismo e utopia. 5. Utopia, staticità o progresso sociale. 6. Utopia, epistemologia ed estetica. 7. Tematiche utopiche nel Novecento. 8. Gli sviluppi delle scienze e l'utopia. 9. La controutopia. □ Bibliografia.
1. Introduzione: utopia e utopismo
All'origine del termine utopia e dei suoi usi, ancora oggi largamente correnti, sta il titolo di un'opera a cui è toccata la sorte abbastanza singolare non solo di avere un grande successo e innumerevoli imitazioni - inaugurando, per così dire, un genere letterario - ma, più in generale, di venire a indicare tutto un modo di pensare il cui significato e la cui validità sono tuttora al centro di ampi dibattiti e controversie. Si tratta dello scritto Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia comparso a Lovanio nel 1516. Autore ne è una figura assai complessa di umanista e di politico inglese, Thomas More (Tommaso Moro). Dopo aver percorso una lunga e fortunata carriera politica, sino ad assumere nel 1529 la carica di Cancelliere del Regno, More cadde in disgrazia del re Enrico VIII per essersi mantenuto fedele alla Chiesa di Roma nel conflitto apertosi a seguito del divorzio da Caterina d'Aragona, e nel luglio del 1535 fu decapitato sotto l'accusa di alto tradimento. L'opera, iniziata nel 1515, presenta la dettagliata descrizione di un mondo ideale situato in un'isola dove la vita è regolata da saggi ordinamenti che consentono uno sviluppo sereno e armonico dei cittadini, mettendoli al riparo dalle insidie del lusso e dalle minacce della povertà.
Non è certo possibile qui soffermarsi né sull'autore né sull'opera, ma è necessario almeno ricordare alcuni aspetti di essa che rimarranno poi come caratterizzanti il ‛genere' utopico. Anzitutto l'espediente stilistico per cui il progetto o, se si preferisce, l'ideale politico affermato non viene presentato in forma di trattazione o di dimostrazione teorica diretta, bensì in forma indiretta, attraverso un resoconto o racconto di viaggio che descrive tale ideale come realizzato in un paese lontano. E non è certo un caso che nell'Utopia di More il racconto venga da un marinaio, di nome Raffaele Itlodeo, reduce da esplorazioni nel nuovo mondo. Il mondo ideale viene poi situato in un luogo separato, un'isola, ed è significativa l'insistenza sul fatto che propriamente Utopia non era un'isola, ma il leggendario fondatore Utopo ha voluto che lo diventasse facendo tagliare la lingua di terra che la collegava al continente. Molta attenzione viene dedicata alla ripartizione della popolazione nelle diverse città, e tra città e campagna, in modo da evitare squilibri potenzialmente fonte di disordine e di perturbazione del sistema politico-economico così sapientemente instaurato. La vita dei cittadini viene regolata abbastanza minuziosamente, stabilendo dei turni tra il lavoro da compiere in città e in campagna, e cercando di promuovere al massimo forme comunitarie di vita attraverso l'uso di prendere i pasti in comune, ecc. Anche la vita delle famiglie viene seguita attentamente (in molte delle utopie successive si giungerà a dissolvere la famiglia in organismi di respiro più ampio o, addirittura, nello Stato), e l'educazione dei fanciulli viene curata in modo da avviarli a una spontanea integrazione nei costumi che devono garantire la stabilità degli ordinamenti. Considerando la proprietà privata fonte dei mali e dei conflitti sociali, si è instaurata la comunanza dei beni e si cerca di instillare negli utopiani il disprezzo delle ricchezze e in particolare dell'oro, tesaurizzato soltanto per i bisogni della comunità.
Utopia è dunque il nome di una comunità contrapposta polemicamente a quelle esistenti, nel duplice senso del termine a cui si allude in alcuni versi apposti alla seconda edizione del 1518, e cioè di ou-topia, luogo che non è in nessun luogo, ed eu-topia, luogo felice, dove gli uomini hanno saputo realizzare e perfino superare la repubblica di Platone.
Emergono così alcune delle componenti più importanti del termine e anche del concetto ‛utopia', che ancor oggi ne caratterizzano l'uso. L'utopia da un lato indica qualcosa che ha il carattere di una costruzione immaginaria e dall'altro prospetta non un semplice miglioramento o correttivo di questo o quell'aspetto negativo della situazione presente, ma uno stato ottimale della cosa pubblica. L'utopia si configura così come alternativa critica rispetto alla realtà presente, esperita, vissuta, e come alternativa totale e ottimale, dotata di una sua intrinseca razionalità, rispetto alla quale anzi risulta irrazionale, e perfino assurdo, il modo effettivo di vivere e di pensare nella realtà storica presente e conosciuta. La stessa meticolosità con cui in gran parte dei racconti utopici vengono indicate anche le più minute disposizioni circa i costumi, le abitudini, fino al modo di vestire, di mangiare, ecc., è un indice del fatto che la costruzione utopica non vuole lasciare nulla al caso per garantire la validità del proprio disegno e la perpetuazione dei propri risultati. Questo è certamente uno degli aspetti più sorprendenti dell'utopia che, soprattutto nel nostro secolo, non mancheranno di sollevare perplessità anche negli utopisti stessi (si pensi per esempio a Wells, di cui si dirà più avanti). A differenza infatti dalle solite fantasticherie e costruzioni romanzesche, con le quali ha indubbiamente in comune il carattere immaginario, l'utopia non si presenta come semplice e gratuito accostamento di aspetti più o meno desiderabili della realtà o di casi felici e fortunati toccati a questa o a quella comunità, bensì come il risultato di una progettazione sapiente, meditata, dotata, come spesso si è detto, di una ‛logica' interna altrettanto e forse anche più rigorosa di quella della realtà comune, rispetto alla quale può figurare addirittura come più vera e più persuasiva.
Proprio per questo la portata del concetto di utopia si è molto ampliata al di là di un semplice, per quanto cospicuo e fortunato, genere letterario, ed esso è venuto a indicare un intero modo di pensare, una ricerca di modelli ottimali, insomma quell'‛utopismo' che ha lasciato testimonianze così importanti di sè soprattutto nel pensiero politico; in questo senso, pertanto, si è potuto vedere la prima grande manifestazione del pensiero utopico proprio nella Repubblica di Platone per il carattere estremamente rigoroso del piano razionale secondo cui viene delineato lo Stato perfetto, la sua divisione in classi, l'attribuzione a ciascuna di esse di funzioni diverse e ben specifiche corrispondenti alle qualità dei cittadini, la subordinazione della poesia alla funzione etico-politica, la precisa regolamentazione della vita economica, ecc.
La tensione concettuale e terminologica tra l'utopia come costruzione letteraria, come romanzo politico, e l'utopia come utopismo, come mentalità utopica, spiega anche la difficoltà di tracciare una storia organica e unitaria dell'utopia, ben diversi essendo i criteri di inclusione e di esclusione a seconda che si muova da criteri formali, stilistici, identificando l'utopia con il romanzo o la narrativa utopica, oppure si guardi piuttosto al tipo o all'intenzione del ragionamento, assumendo come criterio la ricerca di modelli alternativi ottimali. Senza contare, poi, che questi diversi parametri devono fare i conti con l'estrema varietà di forme e di tematiche via via assunte dall'utopia nei diversi contesti e momenti storici e in base ai diversi riferimenti culturali. Basta infatti gettare un semplice sguardo sulla storia dell'utopia (v. Manuel e Manuel, 1979; v. Mumford, 1923; v. Ruyer, 1950; v. Servier, 1967; v. Trousson, 19792), per rendersi conto dell'importanza qualificante e diversificante di tali termini di riferimento. Da un lato, infatti, le utopie si sono intrecciate con lo sviluppo delle vicende politico-sociali, ora contrapponendosi in modo critico e alternativo alla situazione del tempo, ora invece, come è accaduto soprattutto nelle fasi calde dei processi rivoluzionari, determinandone addirittura aspetti, tendenze e sviluppi. Per altro verso, non meno intenso e fecondo è stato il rapporto dell'utopia con gli sviluppi della scienza e della tecnica, per cui ora l'utopia si è nutrita dei loro risultati prolungandoli in direzioni ottimali, ora ne ha anticipato soluzioni e prospettive che soltanto il futuro avrebbe poi dimostrato realizzabili: sicché a buon diritto, anche rispetto alla scienza e alla tecnica, si è detto spesso che l'utopia di oggi non è altro che la verità di domani.
A questa complessità di problemi derivanti sia dalla tensione tra costruzione utopica e pensiero utopico, sia dalla pluralità dei loro termini di riferimento e dalla diversità delle loro funzioni storiche e sociali, il Novecento ha rivolto particolare attenzione; si può dire anzi che una delle caratteristiche più evidenti e importanti della presenza dell'utopia nel nostro secolo è precisamente l'ampiezza e la profondità del dibattito teorico che si è acceso e si sta svolgendo in merito (v. Neusüss, 1968). A questo, come si vedrà più avanti, hanno contribuito anche gli sviluppi delle scienze, dalla scoperta delle geometrie non euclidee alla teoria della relatività, dalla teoria dell'evoluzione alla psicologia del comportamento, dall'interesse per i problemi della modalità in logica alla cibernetica, dalla sociologia della conoscenza alla critica della società industriale avanzata. Ma è necessario accennare preliminarmente al quadro teorico complessivo di tali problemi, rifacendoci proprio al concetto che ha consentito una dilatazione del termine utopia al di là del genere letterario usualmente considerato tale, e cioè l'esistenza di una più vasta e profonda mentalità utopica. Per un verso, infatti, ne derivano più ampie possibilità di legittimare le costruzioni utopiche mostrando che corrispondono a un modo di pensare che risulta grandemente diffuso e operante nell'intera vita dell'uomo; d'altra parte, però, tale dilatazione di significato comporta il rischio che ogni criterio di demarcazione tra l'utopia e le forme di pensiero a cui viene ricollegata si attenui o addirittura scompaia o, infine, si attribuisca al concetto di ‛utopismo' un senso puramente peggiorativo, avvalendosene polemicamente nei confronti di opere e comportamenti che non sono utopici o, quanto meno, non intendono essere tali.
Per quanto riguarda il primo punto, e cioè la possibilità di una migliore comprensione e spiegazione delle costruzioni utopiche, il ricondurle a una più vasta mentalità utopica può costituire un utile correttivo a interpretazioni e analisi puramente interne e contenutistiche delle loro tematiche. In altri termini, se è abbastanza facile individuare nelle costruzioni utopiche la convergenza di ottimale e di immaginario, è altrettanto facile, ed è spesso accaduto, prenderne lo spunto per dare un'interpretazione riduttiva dell'immaginario, come se fosse puramente arbitrario, e dell'ottimale, come se fosse destinato a un esito totalitano. Ma se questa può essere, per così dire, la patologia dell'utopia, occorre prima ricostruirne la fisiologia e, a questo scopo, può giovare ricondurla alla mentalità utopica più generale, per vedere se alla base dell'immaginario non operino ragioni e motivazioni ben concrete e reali. Il problema è, cioè, se la mentalità utopica rappresenti una semplice reazione emotiva, al limite una semplice manifestazione di impotenza politica, per cui, disperando di poter modificare gradualmente e concretamente la realtà, si cerca rifugio polemicamente in una costruzione immaginaria e totalitaria; o se la mentalità utopica non abbia invece radici assai più profonde e corrisponda a esigenze dell'immaginazione individuale o sociale che costituiscono un momento necessario nell'evoluzione storica e culturale dell'uomo; in tal caso, anzi, la costruzione utopica sarebbe estremamente significativa non m a l g r a d o il suo carattere immaginario, ma p r o p r i o p e r c h é è immaginaria, e cioè non compiutamente realizzabile nel suo esito ottimale. Ancora, si tratta di vedere se la mentalità utopica non sia poi qualcosa che va molto al di là della semplice immaginazione e non riveli affinità e legami con la stessa mentalità scientifica o, all'inverso, se non sia piuttosto legata a forme di pensiero religioso, nelle sue tendenze mitiche o escatologiche.
Non meno interessante può essere poi l'impostazione in un certo senso opposta del problema, dove tutto il peso dell'arbitrarietà della costruzione utopica viene spostato dal suo contenuto alla sua forma. In tal caso sarebbe proprio la mentalità utopica in quanto tale a dover essere superata, mentre i suoi contenuti, i suoi progetti in quanto tali in diverse condizioni storiche e sociali risulterebbero del tutto plausibili e realizzabili: l'uomo, cioè, avrebbe pensato tali contenuti, tali ideali, in modo utopico e quindi relativamente arbitrario e fantastico, non certo per un difetto dei singoli pensatori ‛utopisti', ma perché la situazione storica e sociale (oppure scientifico-tecnologica) del tempo non era giunta ancora a un punto tale di maturazione da consentire di individuare una legittimazione razionale e scientifica di quei contenuti e di quegli ideali.
Anche per questo complesso di interrogativi che pesano sulla natura stessa dell'utopia, prima di considerare le tematiche più caratteristiche dell'utopia nel Novecento e quella sua forma specifica di sviluppo (o di metamorfosi) nel nostro secolo che è la ‛controutopia', è opportuno ripercorrere per sommi capi i termini essenziali del dibattito teorico su questo problema che coinvolge temi essenziali del pensiero religioso, filosofico, politico ed estetico; non certo allo scopo di ricavarne una definizione rigida o univoca dell'utopia, ma, piuttosto, per far emergere, anche attraverso la complessità e ampiezza di questi riferimenti, tutto il significato della sua presenza nel nostro tempo.
2. Utopia ed escatologia
Prima di entrare nel vivo delle interpretazioni della funzione storica e politica dell'utopia, conviene affrontare il problema del suo rapporto con le forme di pensiero mitico e religioso nella misura in cui si rifanno a momenti anteriori o, addirittura, trascendenti rispetto al tempo e alla storia, o, comunque, sottratti a essi. La questione non si riduce pero alla constatazione della presenza innegabile di motivi affini al mito (non soltanto cristiano) di uno stato preistorico o iniziale di felicità e di innocenza, oppure all'escatologia cristiana, all'attesa e speranza nell'avvento del Regno, della Gerusalemme celeste, della pienezza dei tempi, insomma di una conclusione ottimale e definitiva della storia che la trascende. La presenza di tali motivi è un fatto che si è ripetutamente sottolineato e così pure, per esempio, si è rilevato come proprio nei grandi viaggi di esplorazione con cui si apre l'età moderna, e a cui sono spesso collegate l'immaginazione e la narrazione utopiche, opera la speranza di ritrovare il paradiso terrestre, la località felice da cui l'umanità è stata scacciata iniziando così il suo cammino di tribolazione nella storia. Ritrovamento che, al tempo stesso, doveva segnare la realizzazione della prospettiva apocalittica di un nuovo cielo e di una nuova terra, come sosteneva proprio Cristoforo Colombo parlando della sua impresa (cfr. M. Eliade, Paradise and Utopia: mythical geography and eschatology, in Manuel, 1966, pp. 260-279). Tuttavia, per quanto riguarda il mito, risulta abbastanza evidente la differenza dall'utopia nella misura in cui l'utopia non prospetta un ritorno a uno stato originario, cronologicamente o psicologicamente anteriore a quello storico, quanto piuttosto descrive o progetta un mondo storico alternativo rispetto a quello esistente.
Anche se spesso l'utopia esalta una maggiore semplicità di vita e di costumi e un atteggiamento non di dominio, ma di conciliazione con la natura, questo stato di felicità non appare come originario o gratuito, ma come frutto di un sapiente ordinamento che l'uomo ha saputo darsi e mantenere, a differenza di quanto è avvenuto nella realtà storica a noi conosciuta. Questo criterio, e cioè il condizionamento della realtà utopica all'attività umana, appare decisivo anche per segnare i confini tra utopia ed escatologia, poiché, come ha sottolineato Martin Buber, mentre l'escatologia condiziona l'avvento del Regno a un'iniziativa divina, invece nell'utopia l'iniziativa spetta unicamente alla coscienza e alla volontà dell'uomo; per questo, secondo Buber, si potrebbe addirittura definire l'utopia come quell'immagine ottimale della società in cui non operano altri fattori all'infuori della volontà dell'uomo (v. Buber, 1950).
Tuttavia il rapporto tra utopia ed escatologia non si esaurisce sul piano delle differenze, per così dire, strutturali, interne, ma va anche considerato su quello della loro evoluzione storica. La fioritura e la diffusione dell'utopia, infatti, hanno spesso corrisposto all'attenuarsi e alla caduta delle speranze escatologiche di tipo cristiano-trascendente, mentre, per altro verso, con la Rivoluzione francese e dopo la Rivoluzione francese, molta utopia politica ha ereditato e incarnato, secolarizzandola, la carica escatologica del cristianesimo: tale convergenza, anzi, nel nostro secolo è stata esplicitamente ripresa e tematizzata anche nell'ambito marxista da un filosofo come Ernst Bloch (v. Mancini, 1974; v. Münster, 1982).
Non per questo, però, si può ridurre il problema del rapporto tra utopia ed escatologia a una semplice vicenda storico-cronologica, per cui l'utopia sarebbe soltanto una forma di secolarizzazione dell'escatologia cristiana, giacché un aspetto qualificante di molta utopia, specialmente nel Novecento, è invece l'aver infranto i quadri non solo teologici, ma anche cosmologici e antropologici di tipo cristiano. In altri termini, se anche nell'escatologia cristiana si pensa a una redenzione complessiva dell'uomo e del cosmo, si tratta però di un cosmo concepito come creazione e di cui, pertanto, l'uomo costituisce il vertice e la corona. Al contrario, sotto la suggestione degli sviluppi più recenti delle scienze e, in particolare, della teoria dell'evoluzione, il discorso utopico prospetta nuove possibilità di vita, ulteriori rispetto all'uomo terrestre, il confronto con viventi di altri mondi, insomma l'avvento di ‛uomini come dei', dotati di capacità non soltanto morali, ma anche fisiche e intellettuali qualitativamente diverse e superiori rispetto ai discendenti di Adamo.
Riconoscere le differenze tra utopia ed escatologia, o quanto meno tra l'utopia e il richiamo alla trascendenza, non deve però necessariamente portare a irrigidire tali differenze in un'opposizione assoluta dei due termini, così da ignorare la loro funzione reciproca di integrazione e correzione. È questo l'avvertimento che scaturisce dalla ‟critica e giustificazione dell'utopia" svolta dal teologo e filosofo P. Tillich, che vede in una tale contrapposizione uno snaturamento e depauperamento tanto dell'utopia quanto del cristianesimo e delle loro possibilità di incidere congiuntamente in modo positivo sullo sviluppo storico. L'utopia infatti è indispensabile per intendere tanto il principio quanto il fine della storia, poiché esprime l'essenza e il telos dell'uomo e ne anticipa le possibilità non ancora realizzate, come dimostrano le grandi utopie, da quella ebraica a quella marxista. Tuttavia il rischio dell'utopia è quello di chiudersi in se stessa dimenticando e negando la finitezza dell'uomo, quegli aspetti cioè per cui l'uomo è estraniato a se stesso; questa è l'‛impotenza' dell'utopia che dà poi luogo a forme di estrema delusione per l'impossibilità di realizzarla o, peggio, a forme di terrorismo come pretesa di realizzarla a ogni costo. L'utopia deve essere quindi corretta e integrata costantemente da un momento di trascendenza, deve avere una dimensione verticale, oltre che orizzontale, e questo a vantaggio non solo dell'utopia, ma della stessa trascendenza, che altrimenti si risolve in un misticismo conservatore e indifferente rispetto alla storia. Queste, per Tillich, non sono considerazioni soltanto teoriche, ma la dolorosa testimonianza del dramma politico dell'Europa del nostro secolo o, quanto meno, dei suoi primi decenni; la caduta della fiducia ottocentesca nel progresso lineare e illimitato ha portato molte coscienze religiose a chiudersi in se stesse rifiutando ogni intervento nella vita politica e sociale come compromettente la purezza del messaggio e, viceversa, ha portato grandi movimenti rivoluzionari a respingere in modo totalitario e terroristico ogni dimensione trascendente e religiosa, considerandola come un potenziale indebolimento del processo rivoluzionario stesso. Un Regno di Dio che non è coinvolto nell'attuazione utopica nel tempo non è affatto il Regno di Dio, ma soltanto, nella migliore delle ipotesi, un annientamento mistico di tutto quello che può essere un Regno (pienezza, molteplicità, individualità), mentre un Regno di Dio che non è altro che un processo storico produce l'utopia di un progresso senza fine o di una rivoluzione convulsiva, dal cui collasso catastrofico viene fuori la delusione metafisica di cui è espressione tanta filosofia contemporanea a carattere esistenzialistico (cfr. P. Tillich, Critique and iustification of utopia, in Manuel, 1966, pp. 296-309; v. anche Gremmels e Herrmann, 1971).
3. Utopia, ideologia, immaginazione sociale
Venendo ora specificamente al rapporto tra utopia e storia e alle interpretazioni di tale rapporto in base alla funzione reciproca dei due termini, uno dei contributi più importanti avutisi nel nostro secolo, al quale poi si sono ampiamente e variamente riallacciati molti sviluppi del dibattito sull'utopia, è la distinzione tra utopia e ideologia elaborata da Mannheim nel suo volume del 1929 intitolato appunto Ideologie und Utopie. L'essenziale per Mannheim non è accertare il carattere più o meno intrinsecamente immaginario o più o meno intrinsecamente logico della costruzione utopica, e neppure discutere i valori che essa tende a presentare come ottimali, ma comprendere la funzione che una determinata proposta o idea svolge in un determinato contesto storico. Non è mai possibile, cioè, giungere a stabilire soltanto attraverso un'analisi interna, tematica, di un testo o di un modello di pensiero il suo carattere utopico o meno. In altri termini, non basta affatto rilevare che una certa costruzione si proponga come trascendimento della realtà storica e sociale esistente, in una direzione ottimale e alternativa, per poterla definire ‛utopica', poiché le medesime caratteristiche possono appartenere a modi di pensiero che in realtà esercitano una funzione inconsapevolmente conservatrice dell'ordine esistente.
Per chiarire tale impostazione del problema dell'utopia è indispensabile richiamare, sia pur in modo estremamente sommario, la prospettiva metodologica da cui è sorretta, e cioè i principi essenziali di quella ‟sociologia della conoscenza" di cui Mannheim si fa assertore. Si tratta sostanzialmente di riconoscere che il pensiero non è mai opera di un singolo più o meno isolato, ma esprime un contesto sociale e i suoi problemi, senza che perciò si debba ipotizzare una sorta di soggetto sovraindividuale che penserebbe per l'intera società. È un processo analogo piuttosto a quello del linguaggio, dove è evidente che sono sempre e soltanto i singoli uomini a valersene e a modificarlo; tuttavia il linguaggio di cui si valgono i singoli non è qualcosa di puramente individuale: è qualcosa di già ereditato, per un verso, e per l'altro, il suo uso e la sua modificazione rispecchiano le continue modifiche del modo di vivere, di pensare e di agire di un'intera società. Va ancora aggiunto che i caratteri sociali che trovano espressione nel pensiero sono per lo più inconsci e questo comporta che la sociologia della conoscenza operi come una sorta di ‛smascheramento' dei motivi inconsapevoli di cui le diverse forme di pensiero sono espressione. Alla luce di questi presupposti diventa possibile comprendere la distinzione funzionale tra ideologia e utopia. L'ideologia indica infatti quelle convinzioni e idee dei gruppi dominanti che sembrano congiungersi cosi strettamente agli interessi predominanti in una certa situazione da escludere qualunque comprensione di fatti che potrebbero minacciare tali interessi e tale dominio; l'ideologia tende cioè a nascondere inconsciamente a sé e agli altri lo stato reale della società, per evitarne qualunque mutamento, ed esercita così, anche inconsapevolmente, una funzione conservatrice. L'utopia invece indica l'esistenza di gruppi subordinati così fortemente impegnati nella trasformazione di una determinata condizione sociale da non riuscire a scorgere nella realtà se non quegli elementi che essi tendono a negare. Proprio per questo il loro pensiero sociale è incapace di una diagnosi corretta della società presente e, anzi, non si preoccupa affatto di giungervi, poiché non è interessato a ciò che esiste ma solo alla possibilità di mutarlo radicalmente. Nella mentalità utopica l'inconscio collettivo, mosso essenzialmente dai progetti per il futuro e dalla volontà di agire, finisce inevitabilmente, e anche inconsapevolmente, col trascurare certi aspetti della realtà che potrebbero minacciare la sua convinzione profonda della necessità di un cambiamento e quindi paralizzare il suo desiderio di rivoluzione. Come esempio della diversa funzione, ideologica o utopica, che la stessa nozione può assumere in diversi contesti storici e sociali, Mannheim ricorda quella di ‛paradiso' che nella società medievale operò come nozione sostanzialmente conservatrice dell'ordine esistente, e proprio per questo fu intesa come una realtà sovramondana che trascendeva la storia e ne attenuava le potenzialità rivoluzionarie; la stessa idea invece assunse una funzione ‛utopica' quando venne intesa più tardi da certi gruppi sociali come principio di un'azione da svolgersi ‛qui e ora' per realizzare il paradiso sulla terra stessa. Viceversa è altrettanto possibile che l'utopia realizzata in un certo periodo venga poi considerata come ideologica da un gruppo sociale che esprime nuove esigenze intese a trascendere l'ordine instaurato in quel periodo. Così, per Mannheim, è sempre il gruppo dominante e in accordo con l'ordine vigente a determinare ciò che va qualificato come utopico, mentre è il gruppo in ascesa e in contrasto con la situazione a stabilire quello che deve essere considerato come ideologico, il che poi non esclude che anche l'utopia delle classi ascendenti possa essere in larga misura permeata di fattori ideologici. Da ultimo, connettere l'utopia alla situazione sociale non significa affatto escludere che essa nasca prima come aspirazione fantastica di un solo individuo e soltanto più tardi venga incorporata nella tendenza di un gruppo politico più vasto; l'essenziale è però tener fermo che soltanto quando la concezione utopica dell'individuo si impadronisce delle tendenze già presenti nella società e dà loro espressione, quando in tale forma rifluisce nella prospettiva di tutto il gruppo e si traduce in azione, solo allora l'ordine esistente può essere attaccato da chi lotta per un mondo diverso.
In base a tale criterio Mannheim individua nell'età moderna il successivo formarsi di quattro grandi mentalità utopiche: quella chiliastica, quella liberale-umanitaria, quella conservatrice, quella socialista e comunista. Profondamente diverse per le classi sociali a cui si richiamano e che esprimono (contadini, borghesia e intellettuali, proletariato) e per il rapporto che assumono con la nozione di tempo, ora proiettando l'utopia in un momento eccezionale e fortuito, ora nel futuro, ora nel passato, le utopie hanno intrapreso una disperata battaglia volta alla demolizione delle credenze e delle proposte avversarie. Ma in realtà, secondo Mannheim, il nostro tempo vede, più che la vittoria dell'una o dell'altra, l'indebolimento tanto dell'utopia che dell'ideologia, nella misura in cui vengono dimensionate dalla comprensione delle loro motivazioni storiche. Il paradosso di questo processo di storicizzazione sta però, secondo Mannheim, nel fatto che, al limite, esso porta a privare l'uomo della capacità stessa di un senso storico, proprio in quanto è ipotizzabile una scomparsa dell'utopia. Mentre ‟il declino dell'ideologia rappresenta una crisi solo per certi strati e l'obiettività che deriva dallo smascheramento delle ideologie comporta una maggiore autoconsapevolezza della società nel suo complesso, la completa sparizione dell'elemento utopico dal pensiero e dalla prassi dell'individuo verrebbe a dare alla natura e allo sviluppo dell'uomo un carattere radicalmente nuovo. La scomparsa dell'utopia porta ad una condizione statica in cui l'uomo non è più che una cosa"; si avrebbe così il maggior paradosso possibile, e cioè che, quando la storia cessa di essere un cieco destino e diventa sempre più creazione dell'uomo, l'uomo, con la perdita dell'elemento utopico, verrebbe a perdere ogni capacità di dare un senso alla storia e, quindi, di intenderla (v. Mannheim, 1929; tr. it., p. 278).
Questo tema di una possibile ‛fine' dell'utopia dovrà venire ulteriormente considerato rispetto a prospettive di altro tipo, ma fin da ora è interessante sottolineare come per Mannheim sia proprio la mentalità utopica a evitare alla società quel carattere di staticità e di chiusura che da altre prospettive, e in particolare dalla ‛controutopia', vedremo essere considerato invece conseguenza inevitabile dell'utopia. Ma a questo punto è invece interessante soffermarsi sulle tesi del sociologo americano D. Riesman, non solo per la sua proposta di una diversa definizione del rapporto tra ideologia e utopia, rispetto a quella di Mannheim, ma anche per la sua impostazione del problema in rapporto a una società specifica, quella americana, e alla funzione utopica di un tipo particolare di attività, e cioè l'architettura e l'urbanistica. Nel saggio Some observations on community plans and utopia del 1947, Riesman (v., 1954) precisa anzitutto la sua concezione della differenza tra utopia e ideologia. L'utopia è una fede razionale che, a lungo termine, serve all'interesse dei suoi seguaci; tale fede si rivolge a una realtà che non è presente, ma tuttavia possibile, e non deve essere in contraddizione con quanto sappiamo della natura, compresa la natura umana, anche se può andare oltre lo stato attuale della tecnologia e deve necessariamente trascendere la nostra attuale organizzazione sociale. L'ideologia è invece un sistema irrazionale di fede che non coincide con l'interesse dei suoi seguaci, ma viene loro spacciato da chi ha interesse a ingannarli, e viene accettato per bisogni di carattere irrazionale. Un'ideologia può così contenere degli elementi di verità che servono più a renderla plausibile che non ad aprire gli occhi di coloro a cui si rivolge, mentre l'utopia può contenere dei momenti di errore che all'inizio non hanno molto peso, ma, più tardi, provocano la sua trasformazione in ideologia; così le utopie di un'epoca tendono a irrigidirsi, in forma distorta, nelle ideologie di quella successiva. L'utopia quindi, a differenza dal puro sogno o dalla semplice descrizione dei fatti, è un piano di qualcosa che ancora non esiste in nessun luogo, ma, secondo le previsioni della scienza, non è escluso possa esistere. Muovendo da tali presupposti Riesman mette in luce le ragioni storiche e sociali che hanno limitato la diffusione e il successo dell'utopia nell'America dell'Ottocento e del Novecento, per sottolineare come forse l'unica eccezione di rilievo sia rappresentata da un piccolo gruppo sociale, e cioè gli architetti e gli urbanisti. Nella loro capacità di unire a un'esatta conoscenza delle condizioni materiali l'entusiasmo per il superamento del semplice dato, è toccato loro tener desta la tradizione utopica nella società americana, come viene pure ribadito nel volume The lonely crowd (del 1950). Nel generale conformismo che opprime sia le classi povere che quelle agiate, sono gli urbanisti il gruppo professionale più importante in grado di mettere almeno in dubbio i quadri mentali e sociali di tale conformismo. Con la loro capacità critica nei confronti delle definizioni culturali sistematicamente diffuse per giustificare le inadeguatezze della vita urbana d'oggi, gli urbanisti sono rimasti i guardiani della tradizione liberale e progressista in America, proprio perché nelle loro opere si trovano prospettive non strettamente legate ai problemi del lavoro e aperte a una visione della città come luogo non soltanto di lavoro, ma anche di riposo e di benessere, prospettive, insomma, che rientrano nella tradizione e negli intenti del pensiero utopico.
Del rapporto tra utopia e urbanistica nella società americana si può poi trovare un'interessante verifica, anche documentaria, nell'opera di Th. Reiner, The place of the ideal community in urban planning del 1963, che presenta un ampio esame critico di una serie cospicua di progetti di ‛comunità ideali' dal 1896 al 1947, tra i cui autori figurano Le Corbusier, Wright, Gropius, i Goodmann, ecc. Il concetto chiave di questa lettura utopica dell'urbanistica è quello di comunità ideale, intesa come ‟rappresentazione planimetrica di un ambiente urbano in cui sono definiti l'utilizzazione del suolo proposta, uno schema di circolazione e la localizzazione di alcune attrezzature pubbliche" (v. Reiner, 1963; tr. it., p. 3). In questo senso la comunità ideale si distingue dalle altre forme di utopia poiché si impegna concretamente nello studio delle possibilità di modifica dell'ambiente e offre un progetto che può essere analizzato con gli strumenti di pianificazione attualmente disponibili. La valutazione delle implicanze anche sociali di tali comunità ideali deve pertanto muovere dalla consapevolezza dell'intreccio storico e teorico tra urbanistica e utopia. Per un verso infatti utopia e urbanistica hanno una sostanziale comunanza di intenti, in quanto sono rivolte a modificare l'ambiente in funzione di un tipo di vita più sano e sereno; per altro verso, però, la situazione concreta delle realtà urbanistiche è già ampiamente determinata dalle utopie del passato come progetti di trasformazione dell'ambiente e dalle conseguenze psicologiche e sociologiche che se ne sono tratte sul piano teorico. D'altra parte non si può neppure semplicisticamente assumere come criterio di valutazione del carattere utopico oppure ideologico dei progetti urbanistici la richiesta di maggiori o minori modifiche dell'ambiente, giacché talvolta può essere proprio una proposta socialmente conservatrice a comportare interventi più ampi e radicali di ristrutturazione urbana. (Sul problema del nesso complessivo tra architettura e utopia v. anche Choay, 1965, e Tafuri, 1973).
Tornando al rapporto tra ideologia e utopia qual è stato impostato da Mannheim, non si è mancato di ravvisare la necessità di un suo approfondimento o, più esattamente, di una sua integrazione, concentrando l'attenzione soprattutto sui modi in cui ideologia e utopia possono effettivamente esercitare la loro funzione rispetto allo sviluppo storicosociale. È questo l'intento dello studio di P. Ricoeur, Ideology and utopia as cultural imagination del 1 976, che muove dalla necessità di andare oltre la genericità delle affermazioni (correnti anche nel marxismo) secondo le quali ideologia e utopia sono espressione di interessi e conflitti sociali. Questo problema può essere risolto soltanto evidenziando il processo autonomo di formulazione simbolica attraverso il quale tali interessi e tali conflitti vengono esplicitati. Proprio perché l'azione sociale già ai suoi livelli più elementari è sempre mediata e articolata da ‛sistemi simbolici', l'ideologia può essere espressione efficace di interessi in quanto rappresenta come universali e ideali gli interessi della classe dominante e fornisce, per così dire, una sorta di plusvalore simbolico all'autorità, legittimando l'eccedenza delle sue pretese rispetto alla sua credibilità. Per la stessa ragione allora l'utopia può essere considerata come uno smascheramento di tali pretese, una evidenziazione contrastiva di tale plusvalore non dichiarato, nel senso che la rappresentazione fantastica di una società alternativa e la sua figurazione topografica in un ‛luogo che non è' agiscono come contestazione del dato. Soltanto attraverso la ‛fenomenologia dell'immaginazione sociale' è possibile dunque vedere come ideologia e utopia rappresentino le due direzioni fondamentali, di cui l'una tende all'integrazione, alla ripetizione e al rispecchiamento del dato, l'altra invece a uscire da esso, a contrapporvisi criticamente come eversione. E, ancora, nell'immaginazione sociale è possibile cogliere la genesi della patologia dell'utopia, ossia del suo scadere a ‛evasionismo' come eclissi della prassi, rifiuto della logica dell'azione, alternativa radicale tra il tutto e il niente. Di fronte a questa possibile patologia dell'utopia non è però lecito, afferma Ricoeur (v., 1976), assumere un atteggiamento puramente negativo, poiché in una certa misura tale patologia mette in luce la sclerosi delle istituzioni. Più esattamente, è soltanto attraverso e per mezzo delle figure della ‛falsa coscienza' che si può cogliere il potere creativo dell'immaginazione sociale e comprendere che ideologia e utopia non sono termini opposti e reciprocamente escludentisi, ma, piuttosto, funzioni complementari; così, se all'ideologia spetta una funzione terapeutica nei confronti della ‛pazzia dell'utopia', viceversa la critica dell'ideologia può essere condotta solo da una coscienza capace di guardare a se stessa dal punto di vista eccentrico proprio dell'utopia.
Il ruolo centrale dell'immaginazione sociale nella genesi e nella spiegazione dell'utopia è stato poi affermato, in un contesto di pensiero molto diverso, quale lo studio dell'utopia nell'età dei lumi, da H. Baczko (v., 1978), che insiste soprattutto sulla necessità di un'analisi storicamente concreta delle caratteristiche del discorso utopico. Per Baczko non è produttivo procedere per semplici contrapposizioni astratte né cercare un criterio di verifica dell'utopia nella sua capacità di realizzarsi o meno, poiché è vero esattamente il contrario, e cioè che l'utopia ha influito storicamente non in virtù del ‛realismo' delle sue previsioni, ma proprio in quanto ha proposto un futuro impossibile. L'utopia cioè è l'espressione e la manifestazione delle diverse epoche nelle loro ossessioni e nelle loro rivolte, come pure delle direzioni seguite dall'immaginazione sociale, dal suo modo di considerare il possibile e l'impossibile. Superare la realtà sociale, sia pur soltanto in sogno e per evaderne, sottolinea Baczko, fa parte di questa realtà e offre una testimonianza rivelatrice su di essa; proprio per questo l'‛immaginario' va tenuto accuratamente distinto dall'‛illusorio'. Ciò premesso, va però precisato che l'immaginario può avere volta a volta funzione utopica o ideologica, essere spinta all'azione oppure supporto di stabilizzazione del potere perfino istituzionalizzando e monopolizzando contenuti utopici. Se dunque occorre essere molto attenti a non identificare indebitamente l'utopia con certi contenuti e con certe tematiche dell'immaginazione sociale, non per questo si deve rinunciare a individuarne alcune caratteristiche formali e strutturali. Si può dire che l'immaginazione sociale assume funzione utopica quando tende a concretizzare le sue rappresentazioni attraverso un riferimento esplicito e organico al quotidiano, avvalendosi, come criterio e guida, del ‛sapere', ossia di criteri scientifici e razionali, nell'articolazione del proprio quadro. Questo discorso poi può assumere una delle due forme principali dell'utopia, e cioè quella di viaggio immaginario oppure di progetto politico ideale, e si avvale di una pluralità di linguaggi (politico, filosofico, pedagogico, architettonico, ecc.) in un contesto e in un senso che li modifica e li qualifica in un modo diverso rispetto a quello originario.
4. Marxismo e utopia
Il rapporto tra utopia e marxismo richiede una trattazione specifica non solo in considerazione delle componenti metodologiche proprie del materialismo storico e della ricchezza e complessità dei suoi sviluppi, ma anche perché, in questo caso, è indispensabile un richiamo piuttosto ampio ai precedenti ottocenteschi, che rimangono come punto di riferimento più o meno esplicito o scontato anche negli sviluppi più recenti. Dovendo semplificare e condensare al massimo il quadro complessivo della questione, si può dire che il marxismo ottocentesco non poteva non essere fortemente interessato ai motivi utopistici, anche e soprattutto, di quel socialismo (Saint-Simon, Owen, Fourier, ecc.) a cui rivolge le sue critiche e da cui prende le distanze. L'aver auspicato forme di rivoluzione proletaria, la soppressione della proprietà privata, l'abolizione del potere politico statale, l'aver anticipato forme di vita e di produzione comunitaria o addirittura comunista, l'aver rivendicato come determinante il nesso tra economia e politica, per non citare che alcuni punti essenziali, sono tutti temi con i quali il marxismo non può non confrontarsi e in un certo senso non sentire come propri. Ma appunto per questo tanto più aspra è la critica marxista al modo di prospettare tali temi o, se si vuole, tali contenuti, un modo ‛utopistico' poiché non indica le condizioni effettive della loro realizzabilità. Il passaggio dal socialismo utopistico al socialismo scientifico (è il titolo del celebre opuscolo dove Engels raccoglie e condensa la polemica antiutopistica svolta nell'Antidühring: v. Engels, 1878 e 1883) corrisponde a un salto di qualità metodologico, e cioè alla ricerca e scoperta di rapporti storico-economici di tipo dialettico che consentono di prospettare l'avvento del socialismo non come un soguo o come un'aspirazione, bensì come l'esito della crisi del sistema dei rapporti di produzione e delle sue conseguenze politiche e sociali. Un salto metodologico, però, che non è in nessun modo frutto di una conquista puramente filosofica o teorica, ma dello sviluppo storico dei rapporti di produzione, così come l'insufficienza del pensiero utopistico non è da imputare agli utopisti, bensì alla situazione storica in cui operavano. Più esattamente, il marxismo distingue nettamente tra il carattere arbitrario, infondato, del disegno utopico - in quanto nato puramente dalla ‛testa' degli utopisti - e la genesi storica dell'utopia stessa o, se si preferisce, la sua necessità, per cui gli ideali socialisti non potevano non presentarsi in forma utopistica nei periodi precedenti la rivoluzione industriale e nella prima metà dell'Ottocento. Come afferma Engels, ‟gli utopisti furono utopisti perché non potevano essere null'altro in un'epoca in cui la produzione capitalistica era ancora così poco sviluppata. Essi furono obbligati a costruire gli elementi di una nuova società traendoli dal proprio cervello, perché nella vecchia società questi elementi generalmente non erano ancora chiaramente visibili; per i tratti fondamentali del loro nuovo edificio essi furono ridotti a fare appello alla ragione precisamente perché non potevano ancora fare appello alla storia del loro tempo" (v. Engels, 1878; tr. it., p. 283). Se dunque gli utopisti possono in un certo senso essere considerati come ‟alchimisti sociali", bisogna riconoscere che l'alchimia a suo tempo fu necessaria; quello che invece è arbitrario e inammissibile, e anzi storicamente controproducente, è voler riproporre forme di pensiero utopico dopo che ‟la grande industria ha sviluppato le contraddizioni che erano latenti nel modo di produzione capitalistico, facendole diventare antagonismi così stridenti che l'imminente crollo di questo modo di produzione si può, per così dire, toccare con mano [...] e dopo che la lotta delle due classi prodotte dal modo di produzione sinora vigente e che si riproducono sempre in una posizione di inasprito agonismo ha invaso tutti i paesi civili e diventa ogni giorno più accanita; e che, infine, anche la conoscenza di questo nesso storico, delle condizioni della trasformazione sociale che esso rende necessaria e dei tratti essenziali di questa trasformazione da esso parimenti condizionati, è già acquisita" (ibid.).
Veniva così sancita la fine dell'utopia non per motivi di insufficienza teorica dei suoi contenuti o delle sue proposte, ma per ragioni storico-sociali, nel senso che ormai l'avvento del socialismo non poteva più essere considerato come termine di costruzioni o aspirazioni utopiche, fantastiche o teoriche, bensì come esito ‛scientificamente' prevedibile in base all'analisi delle condizioni storico-sociali e delle loro contraddizioni. Se poi in questa stessa pretesa di scientificità del marxismo non si annidassero ancora supporti e motivi utopici è questione che è stata sollevata ripetutamente (tra gli interventi più recenti ricordiamo quello del filosofo polacco L. Kolakowski: v., 1974), ma che esula dal presente discorso nella misura in cui costituisce un capitolo dell'ermeneutica del pensiero di Marx in quanto tale, mentre importa qui proseguire l'analisi degli sviluppi del concetto di utopia nel marxismo e nel confronto con il marxismo.
A questo proposito va segnalata anzitutto la posizione di Georges Sorel, che presenta una critica dell'utopia, in una forma e in una terminologia del tutto peculiare, nel saggio La décomposition du marxisme del 1908, come pure, più in generale, nelle Réflexions sur la violence anch'esse del 1908. Mentre nel marxismo infatti veniva sottolineato l'aspetto fantastico e, in un certo senso, irrealistico dell'utopia, Sorel, al contrario, la considera frutto di un modo di pensare intellettualistico (nel senso bergsoniano del termine) e quindi come un programma di azione politica razionale e astratto, che corrisponde a una concezione altrettanto generica e astratta dell'uomo e dei suoi bisogni e che, appunto perciò, può facilmente prestarsi a una strumentalizzazione riformistica. Nessuna meraviglia perciò, secondo Sorel, se tanto spesso gli utopisti si sono poi dimostrati saggi amministratori e avveduti politici. Il contrario dell'utopia è invece il mito sociale (ad esempio quello dello sciopero generale), ossia un ideale di azione che non deve essere valutato in base alla sua intrinseca razionalità e alla sua possibile legittimazione storica, bensì in base alla sua capacità di stimolare l'immaginazione e l'azione delle masse impedendo loro di rimanere irretite e paralizzate nei processi riformistici e partitici. In questo senso Sorel giunge a una valutazione diametralmente opposta a quella marxiana ed engelsiana del rapporto tra utopia, scienza e rivoluzione: ciò che garantisce il potenziale rivoluzionario del marxismo non è l'essersi allontanato dall'utopia in direzione della scienza, ma, al contrario, l'aver mantenuto desti quei motivi miticamente rivoluzionari che non si lasciano ricondurre al passaggio dall'utopia alla scienza, dall'immaginazione alla razionalità. L'utopia viene in tal modo svalutata e respinta perché impedisce il processo rivoluzionario non per il suo carattere fantastico e arbitrario, ma, al contrario, per il suo carattere troppo razionale e coerente e, quindi, potenzialmente riformistico.
Tornando poi allo schema classico della ‛fine dell'utopia' come conseguenza dell'avvento del socialismo scientifico e del materialismo storico, si può dire che nel nostro secolo esso permane nelle correnti, per così dire, ortodosse e ufficiali del marxismo, in particolare nei paesi socialisti. Esemplare in questo senso la voce Utopia nel Philosophisches Wörterbuch pubblicato nella Repubblica Democratica Tedesca, che muove dichiaratamente dalle opere di Marx, Engels e Lenin e dai documenti fondamentali della Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, come pure del movimento operaio internazionale e, in particolare, del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (v. Klaus e Buhr, 1969, vol. I, p. 5). La voce Utopia si conclude infatti affermando che, siccome il socialismo scientifico significa la fine dell'utopia e questa perciò ha perso nel socialismo la sua dimensione peculiare, non soltanto il concetto di utopia non è applicabile a piacere, ma anche i romanzi utopici del XIX e XX secolo sono, in fondo, anacronistici (v. Klaus e Buhr, 1969, vol. II, p. 1113).
Il concetto di ‛fine dell'utopia' ha trovato poi una versione molto diversa, sempre nel marxismo, che non si richiama nè all'avvento della società socialista né al carattere scientifico del materialismo storico, quanto piuttosto agli sviluppi della società industriale avanzata. È la tesi di H. Marcuse (v., 1967) che non esita a rovesciare in modo provocatorio la tesi di Engels, dicendo che semmai si tratta di perseguire l'idea di una via del socialismo dalla scienza all'utopia, proprio perché gli ideali del socialismo nella società industriale avanzata hanno perso ogni carattere utopistico, ossia di progetto irrealizzabile. Secondo Marcuse esistono ormai le condizioni intellettuali e materiali necessarie e indispensabili per realizzare una società veramente libera, poiché lo sviluppo tecnologico è giunto a un punto tale da consentire materialmente l'eliminazione della povertà e della miseria, del lavoro estraniato e della repressione addizionale, ossia di quel surplus di repressione che è inerente alla ‛nostra' civiltà, ma non, come erroneamente si pretende, a ogni civiltà. Proprio per questo però è necessaria una nuova definizione del socialismo che superi la stessa concezione marxiana in un punto cruciale, e cioè il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. Che per Marx il regno della libertà possa essere pensato e sorgere soltanto al di là di quello della necessità significa, secondo Marcuse, che quest'ultimo è considerato come condannato a rimanere tale, e cioè il lavoro è considerato come estraniazione, quale che sia il livello di razionalizzazione a cui si compie. Si tratta, al contrario, di cercare l'attuazione del regno della libertà già all'interno di quello della necessità o, come è detto nel precedente volume Eros and civilization (del 1955), di creare una nuova ‛antropologia' che affermi un nuovo modo di vita come sviluppo dei bisogni di libertà. In questo senso, secondo Marcuse, non è certo un caso la rinascita di interesse per Fourier e per la sua affermazione della necessità di far convergere tecnica e arte, lavoro e gioco. La fine dell'utopia dunque, sostiene Marcuse in Eros and civilization, non è un atteggiamento di rassegnazione, ma al contrario una posizione estremamente combattiva poiché le cosiddette possibilità utopistiche non sono affatto tali nel senso comune e dispregiativo del termine, ma corrispondono a una negazione storico-sociale dell'esistente ben determinata, e comportano una individuazione molto realistica e pragmatica delle forze che ne impediscono la realizzazione.
La tematizzazione più ampia e sistematica, e anche la più positiva, dell'utopia all'interno del marxismo una vera e propria riabilitazione dell'utopia è poi quella svolta dal filosofo tedesco Ernst Bloch in tutto l'arco del suo pensiero, in una serie di opere che vanno dal Geist der Utopie del 1918, al monumentale Das Prinzip Hoffnung scritto tra il 1938 e il 1947, per non citare che le maggiori, senza peraltro trascurare la raccolta Abschied von der Utopie?, del 1980, che si segnala per la concisione ed efficacia dei cinque saggi Zum Begriff der Utopie (v. Bloch, 1980, pp. 41-116). In un certo senso Bloch fa perfino sua la tesi del passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza con il marxismo, ma in un modo del tutto paradossale, che non consiste nel risolvere l'utopia nella scienza, bensì nello scoprire nell'utopia e nella speranza la condizione stessa della scienza. In altri termini il passaggio dall'utopia alla scienza non va inteso sulla base di un concetto positivistico di scienza, ma, al contrario, come l'avvento di una nozione di scienza, sostanzialmente di matrice dialettico-hegeliana, che renda definitivamente giustizia alla funzione utopica della coscienza e alle possibilità utopiche della realtà, consentendo così il passaggio dall'utopia astratta - giustamente criticata dai classici del marxismo - a quella concreta, e cioè storicamente e naturalisticamente fondata. La riabilitazione blochiana dell'utopia si inserisce così in una ripresa e affermazione del marxismo che punta su quelle che Bloch chiama le sue ‟correnti calde", volte a valorizzare l'aspetto umanistico e rivoluzionario della storia, contro le ‟correnti fredde" che tendono a ridurre il marxismo stesso entro quadri puramente economicistici e la dialettica a negazione determinata all'interno di un processo il cui esito è deterministicamente scontato. La svolta, per Bloch, è segnata dal Marx delle Elf Thesen über Feuerbach e dall'affermazione più radicale dell'unità di teoria e prassi che consente di liberare l'utopia dall'astrattezza in cui per secoli è rimasta, poichè le condizioni storico-sociali ancora non consentivano di coglierne e realizzarne la funzione essenziale e universale per l'uomo e per la natura o, meglio, per la loro conciliazione reciproca.
Si ha così in Bloch una sorta di rivendicazione dell'universalità dell'utopia che non deve più essere intesa come una delle tante possibilità del pensiero umano, ma come la sua dimensione caratteristica e caratterizzante, senza la quale non si può comprendere la storia nè promuoverne gli sviluppi. Questo porta Bloch a una sorta di fenomenologia della coscienza utopica (sviluppata soprattutto in Das Prinzip Hoffnung), e cioè a mettere in luce, con un procedimento analogo a quello della fenomenologia hegeliana, come tutte le forme e le figure della coscienza e della storia dell'uomo che si sono via via succedute si spieghino in base alla funzione utopica o, più esattamente, al suo confronto con i limiti della situazione storico-sociale del tempo. Proprio questo condizionamento spiega l'astrattezza e l'unilateralità di tali forme e figure nel passato. Soltanto oggi, secondo Bloch, la situazione storico-sociale è giunta a un punto tale da consentire oggettivamente, con l'evoluzione del proletariato, il riconoscimento di tale condizionatezza della coscienza, e anzi la scientificità del marxismo consiste proprio nella sua capacità di consentire e promuovere questo riconoscimento.
Di qui una serrata polemica contro le concezioni che tendono in qualche modo a stravolgere o a mortificare il senso dell'utopia o, comunque, impediscono di intenderne correttamente la funzione. Cosi Bloch rivolge una critica piuttosto aspra alla psicanalisi e alla psicologia del profondo e al loro privilegiamento del sogno notturno rispetto a quello diurno, il sogno ‛a occhi aperti'. Il primo infatti è anamnestico, è rivolto al ‛non più', non è controllabile, mentre il secondo è innovativo, è rivolto al ‛non ancora', è controllabile. Del resto, che l'uomo sogni a occhi aperti, che desideri e prospetti possibilità alternative rispetto al dato e al presente non è qualcosa di strano, marginale, arbitrario ma, al contrario, è una necessità proprio perché l'uomo è già fisiologicamente un essere ‛manchevole', indifeso, inadatto a sopravvivere nell'ambiente. La stessa scienza neppure sorgerebbe senza questo carattere ‛anticipatore' dell'uomo. Come esempi particolarmente perspicui e significativi della funzione utopica Bloch addita la gioventù, le svolte epocali, il momento della produttività, ma sempre sottolineando che in nessun caso l'universalità della funzione utopica va intesa come qualcosa di puramente psicologico e antropologico, chiuso entro la cerchia della coscienza e dell'azione umana. In un mondo che fosse compiuto di senso, la funzione utopica sarebbe del tutto sterile e futile, veramente astratta, mentre è concreta e necessaria in un mondo che è tutto permeato di ‛tendenze' e di ‛latenze', di tensioni e di possibilità non ancora realizzate. Questo comporta pure il rifiuto della concezione puramente meccanicistica della natura che è stata imposta dalla scienza moderna e la ripresa di quel senso vivo della natura, o meglio della materia, come ‛potenzialità' che dalla ‛sinistra aristotelica' su su, attraverso il naturalismo del Rinascimento e i romantici, ha continuato a vivere come istanza polemica contro il meccanicismo quantificante. Proprio perché la natura è essa stessa un ‛non ancora', è pensabile una naturalizzazione dell'uomo e umanizzazione della natura che non comporti in alcun modo il rifiuto o lo scavalcamento della tecnica, bensì la promozione di una tecnica che non sia puro dominio, ma liberazione e provocazione delle potenzialità della natura stessa.
Assume così particolare rilievo, anche dal punto di vista logico-metodologico, la categoria della ‛possibilità', e la dialettica viene liberata dalle sue componenti e limitazioni idealistiche in quanto non e più intesa come una sintesi conclusiva degli opposti bensì come una continua apertura di possibilità reali, oggettive, attraverso una negazione anticipatrice. Vera scienza dunque sarà quella che non respinge, ma assume in sé il ‛non ancora' ed è quindi docta spes. In questo senso, nella scienza stessa, marxisticamente intesa, vive quella tensione utopica che ha generato sempre le grandi religioni e che ne costituisce il significato più profondo, accessibile una volta che si sia scoperto che la creazione non sta all'inizio ma alla fine della storia, e una volta che la religione sia stata liberata da qualsiasi fondazione ontologica o, comunque, da qualsiasi presupposto dell'esistenza di un Dio.
Questa rivalutazione della religione da parte di Bloch rientra in un quadro complessivo di rivendicazione dell'importanza della ‛sovrastruttura' proprio per la sua necessaria componente utopica, e anzi porta a una riabilitazione del concetto stesso di ideologia (v. Bloch, 1980). Indubbiamente c'è stata e ci può essere, secondo Bloch, un'ideologia che è falsificazione intenzionale e propagandistica della realtà storica, funzionale alla sua conservazione. L'ideologia come trasfigurazione proiettiva inconsapevole della realtà è invece qualcosa di assai diverso e si avvicina di molto a quello che Hegel ha detto essere la filosofia, ossia il proprio tempo appreso con il pensiero e, per ciò stesso, già una forma di superamento del proprio tempo in direzione di ulteriori sviluppi ancora latenti. In altri termini l'ideologia come ‛cultura', ossia come arte, religione, filosofia, scienza, si è costituita in forza dell'utopia, ossia in vista di quelle ‛mete remote' che non si devono mai dimenticare nè sacrificare a favore delle ‛mete prossime', anche se, come il marxismo ha insegnato, l'utopia deve essere concreta, e cioè articolarsi in rapporto alle mete prossime e non limitarsi a contrapporre astrattamente le mete remote alla situazione esistente. L'ideologia corrisponde in questo senso al fatto che il vero mistero della storia non è il Deus absconditus ma l'homo absconditus, ma tale sua corrispondenza funzionale non sussisterebbe se l'ideologia non avesse essa stessa una componente utopica, ragion per cui non può affatto essere considerata come l'opposto dell'utopia.
In questa rivendicazione complessiva della centralità della funzione utopica nell'uomo, nella storia e in rapporto alla natura, un ruolo particolare viene attribuito da Bloch all'arte o, quanto meno, alla dimensione estetica, muovendo soprattutto dal concetto di Vor-Schein (v. anche Bloch, 1974). Caratteristica della coscienza e della sua necessaria dimensione utopica è il non poter cogliere l'immediatezza che ne costituisce il vero punto oscuro e quindi la necessità di andare oltre il ‛buio' dell'attimo. Ora è proprio il Vor-Schein (pre-apparire, pre-lucere) che indica il modo necessario in cui si attua il collegamento utopico tra futuro e passato, poiché il Vor-Schein non è affatto un'apparenza in qualche modo contrapposta a una realtà ben definita a cui deve essere commisurata o in cui addirittura deve risolversi. Al contrario, ciò che pre-appare, che si manifesta inizialmente come un barlume nell'opera d'arte, sono ‛significati' incastrati, incastonati nelle immagini, poiché soltanto nelle immagini può prefigurarsi quel ‛non ancora' che nutre e alimenta tali significati.
Di riabilitazione dell'utopia in funzione di una prospettiva marxista e rivoluzionaria si può parlare anche per l'opera di Walter Benjamin, dove però il concetto di utopia come tale viene tematizzato piuttosto sporadicamente e rientra in una polemica complessiva contro le concezioni storicistiche del tempo come tempo ‟vuoto e omogeneo", che infirmano pure la portata rivoluzionaria del marxismo (v. Benjamin, 1955). Per il marxista cioè la storia non deve essere una serie di eventi che scorre in modo continuo e omogeneo, ma un processo interrotto da ‛catastrofi', punteggiato da attimi dirompenti. In questo quadro, come si vede soprattutto dal saggio Paris die Hauptstadt des XIX Jahrhunderts, dove non a caso Benjamin si confronta con Fourier, e dalle Geschichtsphilosophische Thesen, all'immaginazione utopica viene attribuita una funzione autenticamente rivoluzionaria proprio in quanto nell'anticipazione dei tratti della società a venire riprende e trasfonde, attingendoli alla memoria e alla coscienza collettive, gli elementi rivoluzionari. Le immagini utopiche sono Wunschbilder, dove il collettivo con la fantasia e il desiderio cerca di superare e trasfigurare l'immaturità e l'inadeguatezza della realtà sociale presente; in questi sogni, in queste costruzioni fantastiche l'epoca successiva, futura, si configura agli occhi di quella presente in forma di immagine e mescolata con elementi di una storia originaria, di una società senza classi, e questo caleidoscopio di immagini utopiche in mille configurazioni lascia la sua traccia in tutta la nostra vita, dalle costruzioni durevoli alle mode. Esemplare in questo senso, per Benjamin, l'opera di Fourier che reagisce all'avvento delle macchine con una costruzione estremamente elaborata, una sorta di meccanismo capace di un tale controllo diretto e indiretto delle passioni da portarle a realizzare il ‛paese di Cuccagna', l'antichissimo simbolo originario delle aspirazioni dell'uomo, e in tal modo riempie l'utopia di nuova vita. Nell'utopia opera così un momento messianico ed escatologico che, attraverso le capacità mimetiche del linguaggio, tende a riguadagnare uno stato originario diverso dall'attuale contrapposizione tra l'uomo e la natura, ridotta a strumento di dominio, e a prospettare una nuova continuità tra i due termini (v. anche Schwarz, 1981).
In Adorno infine si ha la completa radicalizzazione della funzione utopica come funzione storicamente e socialmente critica, attraverso il divieto di qualsiasi sua identificazione con un progetto utopico concreto, contenutisticamente articolato, che pretenda di esprimerla. Riprendendo l'antico motivo biblico del ‛divieto delle immagini', Adorno considera qualsiasi formulazione dell'intenzione utopica come un suo tradimento, poiché il senso dell'utopia è strettamente connesso al carattere socialmente critico della razionalità come principio totale. Com'è detto forse nel modo più perspicuo in un colloquio radiofonico con Bloch del 1964, dal titolo Etwas fehlt ... Über die Widersprüche der utopischen Sehnsucht (v. Traub e Wieser, 1975), l'utopia è connessa a t u t t e le categorie della vita nella loro sistematicità e non può perciò essere collegata in modo esclusivo o privilegiato a una di esse, foss'anche quella della felicità o della libertà. L'utopia cioè ha senso come esigenza di un mutamento del tutto nella sua sistematicità, è una sorta di argomento ontologico alla rovescia, come falsum index sui et veri. Di qui il riconoscimento di una intenzionalità utopica intrinseca all'arte, lo voglia o meno, poiché l'arte è una sorta di luogotenente di una società a venire non più soggetta alla forza e al dominio, di cui non ha neppure più bisogno. Ma l'intenzionalità utopica intrinseca all'arte come ‛contromovimento' rispetto alla società esistente non può mai pretendere o illudersi di tradursi in un'immagine positiva e descrittiva della società a venire. Al contrario, la nuova arte riesce a esprimere l'inesprimibile solo attraverso la sua assoluta negatività, solo attraverso l'immagine dello sfacelo, della rovina. A formare tale immagine concorrono tutte le stimmate del repellente e dell'orrido. Ma è soltanto cosi, e cioè rinunciando alla pretesa di esprimere la conciliazione, che l'arte può mantenersi saldamente all'interno dell'inconciliato ed essere coscienza critica di un'epoca dove la possibilità dell'utopia (che la terra in base allo sviluppo raggiunto dalle forze produttive sia già adesso, qui, immediatamente, un paradiso) si unisce con la possibilità della catastrofe totale (v. Adorno, 1970).
5. Utopia, staticità o progresso sociale
Sempre in rapporto alla funzione storica e sociale dell'utopia vanno ricordati altri importanti momenti del dibattito teorico in corso nel nostro secolo, che sono approdati a esiti tra loro non solo diversi ma addirittura opposti. Da un lato si è visto infatti nell'utopismo un modo di pensare intrinsecamente statico e inevitabilmente totalitario nel suo perfezionismo; dall'altro invece l'utopia è stata presentata come il principio insostituibile di ogni azione alternativa e riformatrice di contro all'acquiescenza allo stato di fatto.
Tra le più recise polemiche contro l'utopia come modo di pensare totalitario è quella condotta da Karl Popper in un'ottica sostanzialmente liberale e in base ai principi di una razionalità critica (cfr. in particolare la conferenza del 1947, Utopia and violence, in Popper, 1963). Secondo Popper l'utopismo è una forma di pseudorazionalismo inevitabilmente condannato al fallimento ed esposto perciò a tradursi in esasperazioni totalitarie. La capziosità dell'argomentazione utopica consiste nel muovere dalla giusta considerazione che per agire occorre conoscere e proporsi dei fini, e poi nel presumere, erroneamente, che si possano individuare fini assoluti e modelli altrettanto assoluti a essi corrispondenti, ai quali andrebbe subordinata ogni azione prossima. Non essendo possibile fondare razionalmente tali fini assoluti non resta che ricorrere alla violenza per imporre il fine particolare scelto come assoluto, e questo modo di agire e di pensare appare tanto più insensato in quanto nel corso stesso del processo di realizzazione del fine prescelto possono emergere mutamenti più o meno rilevanti di interesse, al punto che quel fine può essere considerato non più desiderabile nelle nuove condizioni prodottesi. In altri termini, se l'utopia per il suo carattere di progetto statico e totale genera al tempo stesso frustrazione e violenza e ha quindi un esito totalitario, per altro verso impedisce o distoglie dall'eliminazione dei mali concreti e parziali sui quali sarebbe possibile invece intervenire razionalmente con una serie di riforme concrete, purché si rinunciasse all'ideale di una società assolutamente perfetta e alla pretesa di sacrificare incessantemente il presente al futuro.
Pochi anni dopo, nel 1950, usciva in Francia una vera e propria requisitoria contro le ‛tare profonde' dell'utopia sociale in un'opera che è venuta a occupare per diversi aspetti un posto di rilievo in questo dibattito, L'utopie et les utopies di R. Ruyer. La polemica contro il carattere chiuso, statico, ‛irrespirabile' dell'utopia sociale viene condotta qui non tanto in nome di considerazioni o principî teorici, quanto piuttosto di un'analisi comparativa e strutturale delle diverse forme di utopia succedutesi nella storia e nell'evidenziazione dei loro caratteri costitutivi, come uniformità, dirigismo, collettivismo, autarchia, accademismo, istituzionalismo, e così via. Ma, per tornare più specificamente alla valutazione teorica del modo di pensare utopico rispetto alla realtà sociale, va ancora ricordata la posizione del sociologo R. Dahrendorf (v., 1967), che in parte si ricollega alle tesi di Popper e sviluppa la sua critica al pensiero utopico specificamente in rapporto a certi aspetti della sociologia contemporanea. Secondo Dahrendorf infatti la costruzione utopica non è affatto arbitraria o una semplice fantasticheria, ma costituisce un modello dotato di una intrinseca razionalità; più esattamente, il carattere ottimale del modello utopico è la perfezione funzionale dei suoi elementi, la cui tenuta è garantita dalla completa chiusura del modello stesso e quindi dalla sua staticità e dal suo isolamento rispetto a ogni fattore di perturbazione. L'utopia, in altri termini, presenta proprio i caratteri del modello logico in base a cui opera la sociologia funzionalistica. Questa nuova forma di utopia che è la sociologia funzionalistica si distingue però radicalmente dalle forme tradizionali di utopia perché ne rovescia il segno e la funzione: non vale infatti a prospettare possibilità alternative, bensi a giustificare la società esistente e, precisamente, i suoi caratteri immutabili e statici. In un certo senso si può dire dunque che dalle critiche di un Popper, di un Ruyer e di un Dahrendorf emergono sul piano teorico molti di quelli che si vedranno più avanti essere i parametri e i principî della controutopia: da un lato l'incriminazione dell'utopia come modello totalitario, statico, oppressivo di società, e dall'altro l'affermazione che tale modello non è affatto qualcosa di puramente astratto o immaginario, bensi corrisponde (in tutto o in parte) alla realtà sociale presente nei suoi aspetti negativi, per cui quello che nell'utopia tradizionale veniva prospettato come scopo ottimale appare piuttosto come una minaccia da cui difendersi.
Più sfumata invece la posizione del filosofo americano R. Nozick (v., 1974) che, mentre distingue diverse possibilità all'interno dell'atteggiamento utopico, per altro verso prospetta, sempre tenendo ferme esigenze di carattere riformatore e liberale, la possibilità di una ‛metautopia'. Per Nozick vi sono infatti degli utopisti ‛imperialisti' che vogliono costringere tutti al loro modello, ma vi sono anche altri tipi di utopisti, come quelli che si possono chiamare missionari, che si limitano alla speranza di poter convincere gli altri ad aderire ai propri ideali, senza però pensare di costringerveli, e infine quelli ‛esistenziali', che sperano di realizzare un certo tipo di comunità senza considerarla come una necessità universale nè tanto meno pensando di dover costringere altri ad aderirvi. Soltanto gli utopisti imperialisti rifiuteranno di consentire alla proposta di un'utopia intesa come lo spazio ideale entro cui si collocano e confrontano le diverse utopie, di intendere insomma l'utopia come una sorta di ‛idea regolativa' e non come un complesso di norme rigide e statiche. Anche per Nozick infatti è assurdo pensare che si possa ragionevolmente definire e dettare un modello complessivo ottimale a cui tutti sarebbero tenuti ad aderire, ma questo non esclude la funzione delle diverse utopie e del loro confronto come modelli di vita e di comunità ideali, purché nessuno di essi pretenda di imporsi agli altri. Così l'idea dello ‟Stato minimo a cui Nozick lavora, e cioè di uno Stato che non si limiti a dettare regole puramente formali e negative, ma neppure esorbiti in direzioni dirigistiche o totalitarie, si presenta come una sorta di ‛metautopia', una sorta di impalcatura della convivenza politico-sociale, dalla quale peraltro non si potrà mai dedurre descrittivamente e contenutisticamente un modello di comunità utopica e che, proprio per questo, rimarrà aperta al contenuto di tutte.
Che poi l'utopia non sia in contrasto con le tendenze riformatrici, ma anzi ne sia la dimensione essenziale o, quanto meno, una condizione indispensabile, è invece la tesi di Ernst Cassirer, fondata sull'affermazione del carattere intrinsecamente ‛simbolico' dell'intelletto umano. Tanto la forza, quanto i limiti della conoscenza umana dipendono dalla sua necessità di valersi di simboli e, quindi, di distinguere nettamente tra cose reali e possibili, attuali e ideali. Ora il simbolo è precisamente qualcosa che non ha un'esistenza attuale come parte del mondo fisico, bensì ha un ‛significato', ed è questa la distinzione essenziale da cui ha preso le mosse e da cui è condizionato lo sviluppo della cultura umana. La vera natura del pensiero simbolico (verificabile anche nel pensiero scientifico) trova poi la sua piena esplicitazione proprio nello sviluppo degli ideali etici che sussistono solo quando si vada oltre la pura attualità, la si trascenda in direzione utopica. Un'utopia infatti non è un ritratto del mondo reale o dell'attuale ordine politico e sociale, non esiste in nessun luogo e in nessun punto dello spazio, ma, appunto per questo, corrisponde al carattere del pensiero etico che consiste nel non poter mai accondiscendere ad accettare semplicemente il dato. In questo senso, secondo Cassirer, si può dire che ‟i grandi riformatori politici e sociali hanno sempre bisogno di trattare l'impossibile come se fosse possibile" e nella storia della civiltà l'utopia ha sempre adempiuto a questo compito. ‟La grande missione dell'utopia è di dar adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all'attuale stato di cose. È il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell'uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo" (v. Cassirer, 1944; tr. it., pp. 90-96).
Anche queste poche, seppur significative, testimonianze del dibattito sulla funzione storico-sociale dell'utopia in rapporto al suo possibile esito totalitario o riformatore, a cui è stato necessario limitarsi per ragioni di spazio, dimostrano il persistere a livello teorico della dialettica intrinseca al carattere di alternativa ottimale del progetto utopico, per cui gli si possono attribuire caratteri di maggiore o minore apertura o chiusura, a seconda appunto che l'uno dei due aspetti venga accentuato o addirittura assolutizzato rispetto all'altro. Tuttavia è tempo di considerare la questione da un aspetto diverso e cioè non più in linea di principio, ma di fatto, ossia di domandarsi se effettivamente l'utopia come genere letterario abbia presentato o meglio debba necessariamente presentare quei caratteri che ne giustificano o quanto meno ne motivano le accuse di chiusura, staticità e totalitarismo. A questo proposito può essere interessante ricordare il recente intervento di D. Suvin (v., 1979) inteso precisamente a contestare che l'utopia sia stata necessariamente la proposta di un progetto ‛perfetto' di società alternativa e a sottolineare invece la sua funzione critica come proposta di una perfezione maggiore, ma non assoluta, rispetto alla situazione esistente. Di questo risvolto del problema non è però possibile fare qui un'indagine esauriente che dovrebbe articolarsi in un esame sistematico delle utopie del passato o dei testi che convenzionalmente si considerano appartenenti al ‛genere utopico', mentre occorre proseguire invece l'analisi dell'utopia nel nostro secolo. A questo proposito va segnalato un altro tipo di sviluppo del problema, dovuto a uno dei più importanti autori di scritti utopici del nostro tempo, e cioè H. G. Wells. In A modem utopia infatti Wells distingue nettamente l'utopia moderna o, quanto meno, quello che dovrebbe essere un' ‟utopia moderna" da quelle classiche o del passato, proprio perché queste ultime hanno un carattere chiuso, statico, perfezionistico, mentre la prima deve essere ‟cinetica", dinamica, aperta. Ma questo non per una scelta dell'autore, bensì per una ragione profonda connessa all'evoluzione della storia e della cultura o, più esattamente, al fatto che lo scontro tra ideologie collettivistiche da una parte e individualistiche dall'altra si è ormai consumato, mostrando la necessità di una sintesi o di una compenetrazione delle loro rispettive esigenze, così come la scoperta darwiniana dell'evoluzione della specie comporta il rifiuto di ogni concezione statica della vita dell'uomo. Proprio dalla scienza darwiniana infatti si deve imparare che il contrasto, il conflitto sono essenziali alla vita, al che, sul piano sociale, equivale la consapevolezza che il disordine non potra mai essere eliminato, ma dovrà essere soltanto contenuto, perché possa affermarsi l'iniziativa degli individui nella loro insopprimibile unicità. Di qui Wells ricava una quantità di indicazioni critiche sulle utopie tradizionali e precisamente la necessità di evitare qualsiasi irrigidimento schematico in campo politico-sociale, così come di non adottare regolamentazioni troppo strette e particolareggiate circa l'amore e la vita sessuale, di non condizionare la felicità alla costrizione entro piccole comunità isolate e così via. Ma, al di là delle sue articolazioni programmatiche, l'essenziale dell'utopia moderna di Wells è il rifiuto di identificare gli scopi dell'utopia con alcuni schemi tradizionali, nei quali peraltro la libertà veniva di solito sacrificata all'illusione di una felicità garantita da un equilibrio intoccabile. Senza contare che questo rifiuto del carattere statico dell'utopia non può non comportare per Wells anche una sua profonda evoluzione stilistica e poetica, nel senso che all'utopia tradizionale corrispondevano descrizioni piuttosto scolorite di caratteri generali, mentre la nuova utopia deve portare il suo interesse sugli individui, tenere aperto il campo alle distinzioni individuali e alla produttività poetica.
6. Utopia, epistemologia ed estetica
Al di là del problema della funzione o, perfino, dell'utilizzazione politico-sociale dell'utopia, non ha mancato di attirare l'attenzione quello, per così dire, della sua natura interna, del tipo di ragionamento o di immaginazione a cui corrisponde e da cui è sorretta. In questo senso già in Bloch si sono visti alcuni spunti di accostamento dell'utopia al pensiero scientifico, anch'esso condizionato dalla natura ‛anticipatrice' della coscienza, e precisazioni non meno importanti in merito si trovano nel testo di Cassirer poc'anzi citato. Proprio perché non esiste conoscenza scientifica che possa nascere o svilupparsi se non come conoscenza simbolica, e la conoscenza simbolica è sempre in qualche modo avviata in una direzione utopica, non avendo il simbolo alcuna esistenza attuale, è partendo dalla scienza che, per Cassirer, si possono comprendere la genesi e il funzionamento di quel pensiero alternativo, di quello studio della ‛possibilità' da cui traggono poi alimento le utopie eticopolitiche. Tuttavia è forse nell'opera di Ruyer, già citata, che si trova lo sviluppo più organico della tematica utopia-scienza, in quanto Ruyer ritrova l'‛essenza' dell'utopia, o, meglio, del ‛modo' utopico di pensare, al di là delle sue diverse costruzioni e realizzazioni, in quel tipo di attività che si può definire ‛esercizio mentale sui possibili laterali'. Proprio per questo l'utopia si distingue dalla conoscenza della realtà e si mostra profondamente affine alla scienza, che può essere considerata anch'essa una ricerca di possibili laterali rispetto alla realtà esistente o, addirittura, rispetto a precedenti scoperte. Così, ad esempio, già i numeri interi costituiscono un'idealizzazione delle cose, ma a sua volta questo tipo di numeri costituisce ormai per l'uomo una sorta di dato che è stato superato in molte essenze laterali (numeri negativi, irrazionali, immaginari, ecc.); lo stesso si può dire delle geometrie non euclidee rispetto a quella euclidea e così via. Al limite, ogni progresso della scienza è dovuto proprio a una ‛finzione', a un esperimento mentale analogo a quello utopico, di cui poi si è cercata la verifica. Anche nell'utopia come nella scienza è essenziale il distacco critico rispetto non solo alla realtà, ma anche ai modi di pensare invalsi, e c'è l'impegno a rimanere entro le regole fissate, anche se nell'utopia, a differenza dalla scienza, quello che conta non è la verità della costruzione, ma la sua coerenza interna.
Al di là delle affinità puramente formali tra pensiero utopico e pensiero scientifico e dell'efficacia euristica dell'utopia come liberazione dalla routine del pensiero comune, si è giunti di recente ad affermazioni anche più radicali del nesso tra utopia e scienza, soprattutto in nuove scienze come la cibernetica e la futurologia (v. Marsch, 1969). In questi campi infatti prevale il convincimento che il procedere a esperimenti mentali su possibilità alternative dotate di intrinseca logicità e coerenza non sia affatto un semplice gioco o divertimento intellettuale, sia pur stimolante, ma al contrario, la necessità più grave e impellente per l'uomo d'oggi. Gravissime catastrofi ecologiche e biologiche (di cui già in parte, purtroppo, si sono avute le avvisaglie) minacciano l'ambiente e la specie umana in modo addirittura irreparabile se l'uomo non sarà in grado di impiegare in modo sistematico il suo pensiero allo studio dei modelli possibili di sviluppo della scienza e della tecnologia. Lo studio del futuro e la costruzione di modelli utopici come anticipazione di esiti possibili delle attuali condizioni della scienza e della tecnica non sono dunque qualcosa di riservato a piccole minoranze di visionari, di teologi, di scrittori, ma un'impellente necessità politica e sociale. Ed è interessante che, di recente, la qualifica di ‛nuovi utopisti' sia stata attribuita proprio a quel particolare tipo di scienziati che sono gli ‛ingegneri dei sistemi', e cioè i costruttori dei calcolatori, gli specialisti della ricerca operativa, i programmatori elettronici e di sistemi (v. Boguslaw, 1965). In questo tipo di scienza è giunta all'estremo e si è radicalizzata quell'‛analisi funzionale' che è stata alla base di tutte le costruzioni utopiche, da More a Orwell, senza però essere elaborata in modo sistematico e formale. Rimane il fatto che i nuovi utopisti, a differenza di quelli del passato, prescindono da qualsiasi interesse per i problemi umani e sociali suscitati o minacciati dal loro calcolo e dall'automazione; non si occupano dell'uomo ma di ‛surrogati' dell'uomo, e si propongono unicamente di studiare la funzionalità di tali automatismi; ma questo non esclude affatto che una tale ‛rinascenza utopistica', al di là delle sue intenzioni, abbia profonde ripercussioni sulla redistribuzione della potenza scientifica e tecnologica tra gli uomini e sull'assunzione di determinati criteri di realizzabilità di certi valori.
Ma se il riscontro di affinità tra utopia e invenzione scientifica, tra utopia e programmazione, può costituire un utile correttivo alle tendenze a relegare l'utopia nel campo del chimerico e del gratuito, è indubbio che dal lato formale sono stati maggiormente sottolineati i rapporti tra utopia e letteratura e, in un certo senso, è stata privilegiata come forma letteraria dell'utopia la narrazione, il romanzo di tematica politico-sociale. Prima di affrontare la questione dell'utopia come genere letterario va però ricordata una concezione dell'utopia di grande importanza e complessità, dove ‛precisione' e ‛anima', razionalità matematica e sensibilità mistica si incontrano in un'affermazione del carattere radicalmente utopico non solo della letteratura, ma, al limite, della vita. Sono le tesi che affiorano nel capolavoro di Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (v. anche Wiegmann, 1980), che può essere considerato come una serie di esperimenti, di ‛saggi' utopici. Per Musil infatti l'utopia è quella possibilità che si trova inattuata per le circostanze in cui è attualmente impigliata; sciolta da quei vincoli e lasciata sviluppare, tale possibilità diventa un'utopia, ossia un esperimento che consente di osservare il possibile mutamento di un elemento della situazione e gli effetti che esso provocherebbe in quel fenomeno composito che è la vita. Per questo il romanzo non è altro che una pluralità di utopie diverse che si intersecano e, in un certo senso, dovrebbero dialettizzarsi; e, soprattutto, questo procedimento sperimentale, logico-poetico, in quanto mostra di non riferirsi a una presunta realtà a cui tali utopie dovrebbero commisurarsi o contrapporsi, consente di comprendere il carattere utopico della vita stessa, dissoltasi ormai, come mostrano anche le scienze, in una serie di relazioni funzionali reciproche. Più esattamente, il romanzo parla dell' ‛uomo senza proprietà' nel senso che vi sono soltanto ‛proprietà senza l'uomo', e cioè è sorto ormai un mondo di esperienze vissute senza chi le viva. La dissoluzione della concezione antropocentrica dell'Universo ha investito ormai lo stesso ‛io', le esperienze vissute dell' ‛io' si sono rese indipendenti da lui e la responsabilità personale si è dissolta in un sistema di possibili relazioni. Tutta la nostra vita è in un certo senso letteratura, proprio come in un certo senso tutta la letteratura è utopica come la vita.
Venendo invece ai tentativi di definire la specificità del genere utopico, si può ricordare anzitutto quel tipo di procedimento che consiste nel dare tale definizione attraverso contrapposizioni ad altri generi affini. Tra i più recenti tentativi in questo senso è quello di R. Trousson, che in apertura della sua storia letteraria del pensiero utopico definisce utopica un'opera letteraria quando, nel quadro di un racconto (il che esclude i trattati politici), viene descritta una comunità (il che esclude le robinsonate) socialmente organizzata secondo certi principi politici, economici e morali (il che esclude i racconti dell'età dell'oro e l'arcadia); non importa poi se questa comunità sia presentata come un ideale da realizzare (utopia costruttiva) o come previsione di un inferno (utopia moderna), se sia collocata in uno spazio reale o immaginario o, ancora, nel tempo o, infine, se sia descritta in rapporto a un viaggio immaginario verisimile o meno (v. Trousson, 19792). Indubbiamente un tal procedimento consente una notevole linearità nello studio dell'utopia, ma comporta, come riconosce lo stesso Trousson, esclusioni piuttosto radicali come, ad esempio, quella dei trattati o progetti politici che, a torto o a ragione, sono stati considerati componenti essenziali del pensiero utopico.
Per altro verso si è cercato di individuare la specificità del genere utopico piuttosto nella sua funzione critica rispetto alla realtà esistente, per cui esso è stato avvicinato alla satira, a cui sarebbe affine anche dal punto di vista stilistico e costruttivo. Per i suoi intenti politici e filosofici l'utopia, infatti, non mira tanto alla descrizione di personaggi individuali, all'analisi delle loro sfumature e componenti psicologiche, quanto piuttosto allo studio di comportamenti umani generali e li considera con un distacco che consente di metterne pienamente in luce l'anomalia e di riverberarla quindi sui comportamenti sociali invalsi; in tal modo l'utopia ne offre e rappresenta il rovesciamento paradossale (v. Frye, 1957; cfr. anche i saggi di R. C. Elliott, Die Gestalt Utopias, e di B. Vickers, Die satirische Struktur von Swifts ‛Gullivers Reisen' und Mores ‛Utopia', in Viligradter e Krey, 1973).
Il termine di riferimento, però, rispetto al quale è apparso più complesso il problema di mantenere salda una specificità dell'utopia è un genere letterario nuovo, quella fantascienza che ha avuto inizialmente un maggior successo in America, ma che non ha mancato di imporsi anche in Europa. A questo proposito si possono, sia pure schematicamente, indicare due soluzioni estreme, l'una che scorge nella fantascienza l'esito storico, il surrogato, dell'utopia, l'altra invece che vede nella fantascienza un genere più ampio di cui l'utopia sarebbe una sottospecie, contraddistinta dalla scienza a cui si ispira, e cioè la scienza politica e sociale.
Una delle esposizioni più organiche e sistematiche della prima tesi è costituita dall'opera di M. Schwonke, Vom Staatsroman zur Science Fiction del 1957. Secondo Schwonke l'utopia passa dal romanzo politico alla fantascienza sotto la pressione della forza sempre maggiore delle scienze naturali e delle loro conquiste tecnologiche e in base all'esigenza di un'utopia dinamica, antiumanistica e tale da ridimensionare la posizione dell'uomo nel cosmo. Segno di questo mutamento è pure il passaggio dell'utopia dall'ambientazione nello spazio (luoghi lontani, sconosciuti, isolati) a quella in epoche diverse (viaggi nel tempo) e il prevalere dell'interesse per gli sviluppi tecnologici e le loro possibili proiezioni, piuttosto che l'invenzione di nuovi progetti politici, presunti ottimali. In questo gioca anche un ruolo importante una sorta di inversione di tendenza, per cui l'uomo di oggi è portato a temere più i sistemi di controllo sociale, di fronte ai quali si sente schiacciato, che non la natura che ha imparato in larga parte a dominare. Per questo la ricerca di esiti ottimali è semmai plausibile in questa seconda direzione, mentre rispetto alla prima c'è sostanzialmente un atteggiamento di sfiducia. A questa tesi non si è mancato di controbattere (v., ad esempio, Schaefer, 1977) che la stessa fantascienza è densa di implicanze e di funzioni ideologiche e quindi non può essere semplicisticamente intesa come una caduta di tensione ideologica e politica dell'utopia.
Mette però conto di ricordare un'altra e diversa ipotesi secondo la quale ci sarebbe un'evoluzione dall'utopia alla fantascienza, in una traiettoria che porta alla scomparsa o all'inattualità dell'utopia come genere letterario. E quanto sostiene J. Baudrillard nel saggio Simulacri e fantascienza del 1978 (v. Russo, 1980), muovendo dalla tesi che la situazione odierna è quella di una pura simulazione che non è più possibile distinguere in nessun modo dal reale, nè il reale da essa. L'utopia, come descrizione di un universo radicalmente diverso da quello esistente, era costituita da simulacri naturalistici fondati sull'imitazione e ottimisticamente miranti a restituire l'ideale di una natura a immagine di Dio. Con l'avvento dell'era della produzione industriale, all'utopia si è sostituita la fantascienza, costituita da simulacri produttivistici che all'universo potenzialmente infinito della produzione aggiungono la moltiplicazione all'infinito delle sue possibilità. Oggi però si è giunti alla terza fase, quella dei simulacri di simulazione, fondati sull'informazione, sul gioco cibernetico siamo in un'atmosfera di ‛iperrealtà' dove tanto l'utopia quanto la fantascienza hanno perduto ogni funzione; semmai, paradossalmente, l'unica vera utopia attuale è il reale, ma è un'utopia che non appartiene più all'ordine del possibile, perché non si può che sognarne come di un oggetto perduto.
Per Suvin, al contrario, il fatto che in qualche misura oggi la fantascienza abbia inghiottito e sostituito l'utopia dimostra che l'utopia in linea di principio è un ‛sottogenere' della fantascienza intesa nel senso più alto e più ampio del termine. Fantascienza infatti è per Suvin quel genere di letteratura che si attua in una forma di ‛estraniamento', costruendo un quadro fantastico come alternativa al mondo empirico, ma sempre in riferimento agli schemi e ai criteri della conoscenza, e per questo, tra l'altro, si distingue dal mito, dalla fiaba, dal racconto puramente fantastico. In questo quadro l'utopia si distingue dalla fantascienza in generale, perché la scienza a cui fa idealmente riferimento o alla quale si ispira, è la scienza della società. L'utopia, che per Suvin va considerata nella sua forma specifica di costruzione letteraria e non come generica forma mentis, può quindi essere definita come la costruzione verbale di una comunità concreta in cui gli ordinamenti sociopolitici, le norme e le relazioni personali sono regolati secondo un principio più perfetto di quello vigente nella comunità dell'autore; l'estraniamento nell'utopia è quindi costituito in base a un'ipotesi storica alternativa. Più esattamente, l'utopia opera una sorta di inversione formale dei caratteri importanti preminenti nel mondo dell'autore, inversione che serve a mostrare tanto all'autore quanto al lettore come essi vivano in un mondo che è esso stesso assiologicamente invertito; per questo la costruzione utopica costituisce la controparte, il polo logicamente opposto e complementare della satira, poiché espone in modo esplicito ciò a cui la satira soltanto allude (v. Suvin, 1979).
7. Tematiche utopiche nel Novecento
Passando dal dibattito teorico sull'utopia alle costruzioni utopiche del nostro secolo, è ugualmente necessario limitarsi ad alcuni momenti o testi particolarmente indicativi. In questo caso anzi l'impossibilità di una ricognizione esaustiva è particolarmente evidente, da un lato per l'affinità dell'utopia con la fantascienza e dall'altro per i caratteri profondamente e intrinsecamente utopici che si possono rilevare nell'arte e nella letteratura contemporanea d'avanguardia e, in particolare, nel futurismo e nel surrealismo: nel futurismo per il suo entusiasmo per il mondo della macchina e della fredda costruzione, nel surrealismo per la sua tendenza a scorgere nella dilatazione e nello sconvolgimento degli schemi della realtà usuale, attraverso l'immaginazione, la scoperta e la rivelazione di una realtà più profonda e più vera rispetto a essa.
Ma, dovendoci limitare alle costruzioni utopiche vere e proprie, conviene assumere come punto di riferimento quello che è stato uno dei tratti, se non il tratto caratterizzante il nostro secolo, e cioè lo sviluppo della società industriale con le sue conseguenze non soltanto politiche e sociali, ma morali, intellettuali e perfino ecologiche, in una parola con le profonde modifiche della vita umana che già ha causato e che minaccia o promette (a seconda delle prospettive) di apportare ulteriormente.
Volendo iniziare dalle utopie che in qualche modo si pongono come resistenza e critica a tale sviluppo in nome di sviluppi alternativi, si può dire che piuttosto scarso è stato il richiamo a forme di ‛utopia contadina', tra le quali va principalmente segnalata l'opera dell'economista russo A. V. Čajanov, Viaggio di mio fratello Aleksej nel paese dell'utopia contadina del 1920. Il viaggio si svolge alla fine del XX secolo e descrive una Russia dove la civiltà contadina ha interamente - e felicemente - soppiantato quella industriale. Contro il socialismo quale era stato elaborato in quella ‛camera di tortura' che era la fabbrica capitalistica tedesca, si afferma un socialismo che non considera il capitalismo industriale come una tappa necessaria dello sviluppo economico e sociale, ma imbocca la strada alternativa dell'agricoltura, che corrisponde allo stato naturale dell'uomo, da cui l'uomo è stato trascinato fuori a forza dal ‛demone' del capitalismo. Abolite le grandi metropoli, le città sono diventate nodi di relazioni culturali e sociali, dello Stato ci si è serviti per realizzare i contenuti della vita umana, considerandolo come un puro mezzo, per di più antiquato, ed è stata eliminata l'oligarchia di un gruppo di intellettuali sorretti dalla classe operaia. Al frenetico spirito di competizione con la civiltà industriale americana si è sostituito il recupero dei valori fondamentali della civiltà contadina russa, senza per questo rinunciare ai vantaggi del progresso tecnologico.
Maggiore risonanza ed efficacia ha avuto invece, anche per ragioni storiche, l'utopia comunitaria e cooperativistica maturata all'interno del sionismo o, più in generale, in rapporto all'esperienza e alle prospettive dello Stato ebraico in Palestina. Oltre al romanzo utopico di Th. Herzl, Altneuland del 1902, va soprattutto ricordata l'opera di Buber che contrappone il villaggio comunitario ebraico, come forma di socialismo libero e aperto, alla chiusura burocratica in cui si è irrigidito il socialismo sovietico, quel socialismo di cui, secondo Buber, lo stesso Lenin avrebbe detto: ‟Siamo diventati un'utopia burocratica" (v. Buber, 1950; tr. it., p. 125). Di fronte alla lacerazione e ai guasti prodotti dal capitalismo e dalla società industriale avanzata nei tessuti sociali, il movimento comunitario e cooperativo rappresenta un esperimento socialista nato spontaneamente, non per premesse dottrinarie, ma per forza di cose. A Mosca si contrappone così Gerusalemme, come polo di un socialismo che non vuole essere in nessun modo una restaurazione di forme di vita sociale precedenti la società industriale, ma neppure un ordine rigido imposto dall'alto, bensì il frutto di una continua invenzione di forme di vita in rapporto ai problemi quotidiani che via via si presentano.
Come reazione agli sviluppi della società industriale avanzata va poi ricordata quella che si potrebbe chiamare ‛utopia ecologica' e che ha trovato soprattutto sviluppo negli ultimi decenni, in risposta alle manifestazioni sempre più evidenti e minacciose della devastazione dell'ambiente e della dilapidazione irreversibile delle risor se naturali e delle materie prime e a forme sempre più gravi di squilibrio economico. La necessità di una inversione utopica di marcia nella civiltà contemporanea è prospettata qui non tanto e non solo in nome di motivi morali o in chiave di una forma di vita più felice e più sana, ma in base a principi di pura e semplice sopravvivenza della specie. Una delle trattazioni più organiche di questa tematica si trova in un'opera dell'agronomo e professore di agricoltura R. Dumont (v., 1973), in cui con ampio impiego di statistiche e di riferimenti alle condizioni di vita dei paesi industrializzati e di quelli sottosviluppati viene affermata la necessità di realizzare un ‟socialismo della sopravvivenza", che arresti e inverta la tendenza suicida della società capitalistica. A questo scopo è però necessario rinunciare, secondo Dumont, a qualsiasi progetto utopico rigido, a qualsiasi pretesa di un socialismo che sia l'unico vero, e allo stesso ideale di un comunismo di estrema abbondanza", e puntare tutto su un ‟socialismo imperfetto" costituito da modelli sempre suscettibili di revisione.
Non mancano però esempi significativi di utopia ecologica anche nella forma tradizionale del racconto utopico quale resoconto di un viaggio immaginario in una comunità del futuro, e tra questi merita di essere ricordata per il suo particolare riferimento alla società americana la fortunata opera di E. Callenbach, Ecotopia. The novel of your future, del 1975. Ambientato alla fine del XX secolo, il racconto descrive una comunità nata dal rifiuto dei principi della società americana e cioè del progresso ininterrotto, dell'industrializzazione al servizio di tutti e della crescita del prodotto nazionale lordo. Si tratta cioè di un radicale rovesciamento di quell'etica protestante del lavoro da cui è nata la società americana e che ha dominato negli ultimi due secoli, per affermare invece un nuovo principio, sostitutivo delle antiche dottrine della salvezza, il principio della sopravvivenza futura dell'umanità; in nome di tale principio non si teme di abbassare il tenore di vita e di incorrere in una certa recessione economica, poiché la comunità ordina la sua vita in base al riconoscimento del fatto che l'uomo non è stato concepito per la produzione come fine a se stessa, ma per occupare il suo posto nel continuum dell'equilibrio degli organismi viventi, perturbandolo il meno possibile.
Venendo alle utopie socialiste nel senso più tradizionale del termine, tra le più note, anche per la fama del suo autore, è quella delineata da Anatole France nel romanzo politico Sur la pierre blanche, del 1905. Attraverso uno sguardo retrospettivo, a partire dall'anno 2270 dell'era cristiana e 220 della nuova era della ‟federazione dei popoli", France descrive il passaggio da una società capitalistica, lacerata da conflitti e guerre, a una società socialista armonica che ha saputo andare perfino oltre gli slogans tradizionali - libertà, uguaglianza e fraternità - e stabilire una cooperazione effettiva tra i suoi membri. Le grandi metropoli sono state smembrate e sostituite da un'equilibrata distribuzione della popolazione tra città e campagna, estirpando cosi le radici della delinquenza e dell'alcolismo. Le guerre tra gli Stati sono state eliminate, gli eserciti permanenti, divenuti ormai puro strumento di dominio all'interno degli Stati, sono stati sostituiti da milizie socialiste; sono state superate le terribili crisi derivanti dal disordine della produzione e dalla ‟delizia della concorrenza" propri della società capitalistica. Si è instaurato così un regime collettivista dove è dato ampio spazio all'istruzione e alle arti, ma che non pretende in alcun modo di essere perfetto o immutabile; al contrario, la sua caratteristica e il suo proposito sono di mantenersi sufficientemente aperto per dare spazio alle ulteriori possibilità di sviluppo della specie umana o, addirittura, all'avvento di una specie superiore che sostituirà l'uomo nel dominio del pianeta. Pochi anni dopo, nel 1908, l'ottimismo dell'utopia socialista appariva, in Anatole France, ridimensionato o addirittura sostituito da una visione pessimistica in una nuova utopia, la descrizione dei ‛tempi futuri' con cui si chiude L'ile des pingouins. Il progresso tecnologico e sociale invece di aprire la strada alla crisi del capitalismo porterà a un sempre maggiore indebolimento, anche fisico e intellettuale, della classe operaia, sottoposta a una sorta di selezione naturale alla rovescia; l'arma dello sciopero perderà ogni efficacia a causa della crescente disoccupazione che consentirà di sostituire sempre più facilmente gli scioperanti; e così via. Ma neppure il futuro dei capitalisti, sempre secondo France, appare molto allettante, costretti come saranno a vivere in un'atmosfera inquinata, a nutrirsi di cibi sintetici, a sottoporsi a una stressante attività, con conseguenti gravi disturbi di stomaco e di nervi e il moltiplicarsi dei suicidi e delle malattie mentali. Di qui la previsione di una catastrofe finale attraverso periodi di anarchia, distruzioni e perfino una sorta di esplosione atomica, cui seguirà il ritorno alla vita primitiva per ricominciare il cammino verso la civiltà industrializzata e una nuova catastrofe, secondo il ciclo ripetitivo della ‟storia senza fine".
Tragicamente sfiduciata e atterrita, già nel suo stesso svolgimento ed esito, appare poi l'utopia socialista di J. London (v., 1907) ambientata nelle grandi città industriali dell'America inizio di secolo, con il loro grigiore ossessivo e opprimente e con l'acutizzarsi dei conflitti sociali. Avvalendosi di alcuni espedienti tipici del romanzo utopico (uno sguardo retrospettivo a oltre sette secoli di distanza, attraverso un manoscritto miracolosamente scampato alla repressione poliziesca), London descrive come disperata - almeno a breve termine - la crisi sociale in atto, cui non è certo pensabile trovare sbocco mediante la democrazia parlamentare, regime corrotto e corrompibile. Una certa suggestione esercita invece il grande sciopero generale, che riesce a soffocare il conflitto tra America e Germania di cui si ipotizza lo scoppio nel 1912. Ma l'oligarchia dominante impara la lezione, e riesce a imporre il suo ‛tallone di ferro', in parte attirando dalla sua alcuni potenti sindacati e in parte avvalendosi di spietate milizie mercenarie che daranno prova della loro efficienza nella feroce repressione della ‟Comune di Chicago". Un'utopia dunque non di una felice, prossima e armonica realizzazione del socialismo, ma piuttosto delle lotte feroci e disperate a cui doveva prepararsi l'umanità e, più in generale, dei terribili conflitti interni ed esterni che l'attendevano.
Una motivazione in un certo senso fisiologica della crudezza dei conflitti sociali, e perfino del loro fissarsi in classi contrapposte con caratteristiche fisiche diverse, si trova nell'opera di Wells dove anche il conflitto delle classi e, in generale, l'articolazione delle diverse strutture sociali vengono ricondotti alla legge più vasta della lotta per l'esistenza e la sopravvivenza da un lato e, dall'altro, il possibile rimedio viene indicato più in forma di iniziative politiche a carattere aristocratico e tecnocratico che non in chiave di mutamenti della struttura economica e sociale. In questo caso, più che mai, è però necessario limitarsi ad accenni sommari, perché si ha a che fare con un'opera vastissima che si sviluppa nell'arco di un cinquantennio e nella quale l'utopia non occupa un posto marginale o occasionale, ma costituisce piuttosto il filone centrale, pur intersecandosi con la fantascienza in modo da rendere spesso impossibile perfino il tentativo di distinguere i due ‛generi'. Da The time machine del 1895, attraverso When the sleeper wakes del 1899, A modern utopia del 1 905, The world set free del 1913, Men like Gods del 1923, The shape of things to come del 1933, fino a Star begotten del 1937, per non citare che alcune tra le sue opere ‛utopiche' principali, Wells svolge un discorso utopistico dove si intrecciano motivi evoluzionistici e audaci (e spesso confermate) previsioni tecnologiche. Filo conduttore di tale discorso è lo sforzo di individuare un progetto utopico adeguato rispetto alla necessità più urgente della specie umana oggi adattarsi e sopravvivere non più e non tanto rispetto ai disagi dell'ambiente naturale, quanto piuttosto rispetto agli spaventosi mezzi tecnologici e alla complessa organizzazione produttiva che l'uomo ha scoperto e messo in moto, ma che non sa dominare. Il timore, si potrebbe forse dire meglio l'ossessione, che sta alla base delle diverse utopie di Wells è che l'umanità sia avviata a crisi economiche, politiche, sociali e militari sempre più gravi, destinate a sfociare in una catastrofe e nell'annientamento della specie. A tale pericolo non possono certo mettere rimedio le istituzioni parlamentari né Stati separati sempre in conflitto tra loro, ma soltanto un ‛governo mondiale' che realizzi una comunità socialista, cosmopolita e creativa. Quanto alle forze su cui far leva perché l'umanità possa superare questo grave momento di crisi, Wells propende per soluzioni che si potrebbero chiamare elitarie dai Samurai di A modern utopia (una sorta di ordine simile agli antichi Templari, che si impone grazie al rigore nella selezione dei suoi membri, alla severità dei costumi e all'elevatezza della loro formazione intellettuale e morale) fino ai tecnocrati di The shape of things to come. Nel salto di qualità che la specie è chiamata a compiere, per Wells, appaiono come fattori determinanti la modifica del comportamento e il condizionamento psicologico, considerati di gran lunga più efficaci e capaci di stabilizzarsi nella specie che non semplici misure politiche estrinseche.
Se le tematiche utopiche sin qui considerate, pur nella diversità dei loro impianti e dei loro esiti, si riferiscono più o meno direttamente ai grandi problemi della società industriale contemporanea, va ancora ricordato un tipo di utopia che si potrebbe chiamare culturale o estetico-culturale, rivolta cioè non tanto a questo o quel tipo di ordinamento politico, quanto a un determinato tipo di uomo. Per certi aspetti si possono considerare tali anche gli esperimenti utopici di Musil, cui già si è accennato, ma soprattutto emblematica in questo senso appare la costruzione utopica di H. Hesse in Das Glasperlenspiel del 1943. Definita dal suo stesso autore (v. Hesse, 1943; tr. it., p. XXXVII) una possibilità di vita intellettuale, un sogno platonico, un mondo potenziale conscio della propria relatività, la ‟Castalia" è una sorta di provincia pedagogica qualificata dalla presenza di una comunità dedita al ‟gioco delle perle di vetro". Si tratta di un esercizio simile al gioco degli scacchi, dove però i pezzi sono i valori e i contenuti della nostra civiltà: le conoscenze, i pensieri elettivi e le opere d'arte che l'umanità ha prodotto nei suoi periodi creativi, tutto ciò che le successive epoche di studi hanno ridotto a concetti e possesso intellettuale, tutto questo enorme patrimonio di valori dello spirito viene usato dal giocatore di perle come l'organista usa il suo strumento; questo gioco raffinato e complesso è un esercizio polemico contro la cultura di massa, delle terze pagine dei giornali, ma al tempo stesso è anche un correttivo della pur necessaria specializzazione scientifica e serve a mantenere integra l'idea dell'unità di tutti gli sforzi spirituali dell'uomo. Un'utopia che a un certo punto, per bocca dello stesso ‟Maestro del gioco", giunge a dubitare della propria legittimità di fronte alla storia, a sentirsi minacciata dal rapido divenire di un mondo in declino, ma che riafferma la propria funzione e il proprio rifiuto dell'impegno politico: meglio sacrificare la propria persona che non la fedeltà allo spirito.
Meno profilati i contorni delle tematiche utopiche che animano l'opera di E. Jünger in scritti come Auf den Marmorklippen del 1939, Heliopolis del 1949, Glaserne Bienen del 1957 e Eumeswil del 1977. La loro componente utopica, più che in progetti o in programmi d'azione o di ordinamento politico e nonostante la presenza di alcune forme di ambientazione tipicamente utopica (luoghi e tempi immaginari, ma con riferimenti e analogie abbastanza trasparenti alla situazione europea e tedesca del tempo), sembra consistere nel culto della grandezza etico-culturale contrapposta all'usura e alla vacuità di tutti i costumi e di tutte le ideologie. Protagoniste non sono qui nè le masse nè le classi sociali, quanto piuttosto, da una parte, organismi militari, paramilitari o tecnologici così perfetti che si fanno dell'efficienza un culto e diventano, al limite, degli automatismi o, addirittura, tendono a sostituire la vita con dei robot (le ‟api di vetro"), dall'altra delle aristocrazie culturali ancora capaci di vita contemplativa. Più esplicita la dimensione teorica in Eumeswil con le ripetute, pungenti contrapposizioni dell' ‛anarchico' all' ‛anarchista': l'uno incarna un'aristocrazia dello spirito senza alcuna illusione di tradurla in una forma di potere - e pertanto vive piuttosto l'utopia concretamente, invece di progettarla in modo teorico -, l'altro invece segue il potere come un'ombra, nell'illusione di spossessarlo, di impadronirsene e piegarlo ai suoi scopi; l'uno non nutre alcuna illusione sulla natura umana, l'altro invece spera di poterla redimere con l'azione politica.
8. Gli sviluppi delle scienze e l'utopia
Una considerazione a parte merita poi il problema dell'incidenza degli sviluppi delle scienze sulla metamorfosi tematica e strutturale dell'utopia nel nostro secolo. In questa direzione sono stati particolarmente efficaci i mutamenti intervenuti nella concezione del rapporto spazio-tempo dopo la scoperta delle geometrie non euclidee e con la teoria della relatività, le prospettive biologiche e genetiche aperte dalla teoria dell'evoluzione e le possibilità di condizionamento e di controllo del comportamento dischiuse dalle nuove correnti della psicologia. Quanto al primo punto già si è accennato al fatto che, mentre nel passato il viaggio utopico si collocava usualmente in contrade inesplorate o immaginarie, e cioè nello spazio - tra le prime e più significative eccezioni si ricorda L'an 2440. Rêve s'il en fut jamais, pubblicato da L. S. Mercier nel 1771 -, dalla fine dell'Ottocento si va intensificando invece il rapporto tra utopia e tempo. Questo però non va inteso in senso riduttivo, come se si trattasse semplicemente di spostare il viaggio utopico dallo spazio al tempo, collocando la realtà utopica nel futuro (anche se, in effetti, questa via viene praticata), ma in un senso più radicale, come possibilità dell'uomo di muoversi nel tempo a suo piacimento dominandolo, come già è accaduto per lo spazio. Esemplare in questo senso è l'impostazione dell'opera di Wells, The time machine, dove il ‟viaggiatore nel tempo" introduce il suo racconto riferendosi precisamente al superamento della concezione tradizionale della geometria o, se si preferisce, esordisce piuttosto bruscamente facendo notare che la concezione usuale della geometria è errata poichè tiene separate le dimensioni spaziali da quella temporale. Più esattamente, si ammette di potersi muovere liberamente nello spazio (il che è vero solo fino a un certo punto, poiché, ad esempio, mentre è agevole il movimento in superficie o verso il basso, quello verso l'alto richiede macchine molto complicate) e non nel tempo. Ora, proprio lo studio della geometria delle ‛quattro dimensioni' consente di pensare che l'uomo, come può sollevarsi verso l'alto in un pallone, nonostante la forza di gravità, possa un giorno arrestarsi o accelerare la sua velocità nella dimensione del tempo o, addirittura, fare marcia indietro e andare nella direzione opposta, verso il passato. Del resto, con la scoperta della teoria della relatività si affaccia pure l'ipotesi o, quanto meno, l'immagine di una pluralità di tempi, ciascuno dei quali dotato di un suo sviluppo interno e nei quali ci si può collocare a piacere, passando dall'uno all'altro come ci si muove nelle diverse dimensioni dello spazio. Ancora una volta è Wells a offrire una delle espressioni più efficaci di questa prospettiva in Men like Gods con esplicito riferimento alle teorie einsteiniane. Un gruppo di attoniti cittadini inglesi del nostro secolo si trova improvvisamente sbalestrato in un mondo paradisiaco, abitato da splendide creature simili a divinità elleniche e in una natura idillica e pacificata dove perfino le belve feroci convivono serenamente con gli altri animali e con l'uomo. La spiegazione di questo fatto può essere data soltanto ‟evocando l'ombra di Einstein". Il sorprendente passaggio nell'universo utopiano, infatti, è dovuto a un esperimento compiuto dagli utopiani, di tanto più progrediti di noi anche nel sapere, in base alla nozione che un'infinità di universi si trovano, per così dire, fianco a fianco come fogli di carta, ciascuno svolgendo il proprio movimento rettilineo dal passato al futuro in modo indipendente; basta quindi spostare, far ruotare, un universo temporale per passare in uno di quelli contigui e viceversa.
Questo schema di viaggi nel tempo o, più precisamente, di incastri diversi tra universi temporali diversi portati a sovrapporsi e a incontrarsi l'uno con l'altro, realizzando quindi la coincidenza di epoche diverse, ha dato luogo a una serie praticamente illimitata di variazioni più o meno avventurose nell'utopia e nella fantascienza. Vale la pena di ricordarne una delle più recenti e fortunate: la ‟cronosofia" teorizzata nell' ‟ambigua" utopia di U. Le Guin, in quell'impasto di utopia e fantascienza che è il suo libro del 1974: The dispossessed. An ambiguous utopia. Lo scienziato che è protagonista del romanzo e del tentativo di superare il contrasto tra le due grandi comunità di opposto segno sociale fiorite su due diversi pianeti - l'una opulenta, capitalistica, l'altra austera, comunistica - addita nella cronosofia, ossia nella scienza del nesso funzionale tra il tempo e la ragione, non solo la possibilità di conciliare l'aspetto lineare e quello ciclico del tempo, ma anche il fondamento di una nuova etica che renda l'uomo veramente capace di realizzare in modo pieno e responsabile le sue potenzialità nell'Universo.
Tuttavia non era solo dalla matematica e dalla fisica che dovevano venire nuovi impulsi alle prospettive utopiche, bensì anche dalla biologia e, in particolare, dalla dottrina dell'evoluzione. Rompendo la nozione di fissità della specie si apriva infatti la strada a una serie praticamente illimitata di combinazioni di ipotesi evoluzionistiche che andavano da un'ulteriore evoluzione della specie umana rispetto al suo stato presente, fino a forme di evoluzioni alternative di piante o di animali con conseguenze, queste ultime, di duplice segno: da una parte l'avvento di nuove forme di vita che avrebbero preso il sopravvento rispetto all'uomo o gli avrebbero posto gravi problemi di coesistenza, dall'altra la realizzazione di condizioni ambientali che avrebbero facilitato la realizzazione delle speranze utopiche. Neppure è mancato il tentativo di leggere e fissare in termini genetici ed evolutivi gli stessi conflitti sociali. Ancora una volta esemplare in questo senso l'utopia wellsiana di The time machine. Il ‟viaggiatore nel tempo" approda infatti in un mondo futuro abitato alla superficie da creature fragili ed eteree, gli Eloïs, i discendenti delle antiche classi superiori, resi ormai inerti e indifesi dalla disaffezione al lavoro e alla lotta; al cadere delle tenebre essi si raccolgono in gruppi come presi da un improvviso terrore e ben presto se ne scorge la ragione: di notte si affacciano alla superficie i Morlocks, discendenti degli antichi proletari costretti a trasferirsi nel sottosuolo dove si erano dovute mettere al riparo le industrie. Astuti e feroci, i Morlocks fanno strage degli Eloïs, in un conflitto che non è ormai più tra due classi, quanto piuttosto tra due specie biologicamente distinte.
Anche delle variazioni utopiche sul tema dell'evoluzione, e anzi più di queste che di altre, non è possibile dare un quadro sommario data la loro varietà e proliferazione, e del resto se ne trovano agevolmente elenchi e rassegne nelle più recenti storie dell'utopia. Tuttavia vale la pena di ricordare un motivo che è stato evidenziato di recente da F. E. Manuel (v. Manuel e Manuel, 1979) e cioè il mutamento nel rapporto utopia-evoluzionismo prodottosi nel Novecento. Rispetto alla concezione ottocentesca dell'evoluzione come processo rudemente materialistico e spietatamente competitivo, tale da ridimensionare il primato dell'uomo nell'Universo e aprire prospettive pessimistiche sul suo futuro, nel Novecento si diffondono tendenze ‛neoevoluzionistiche' che prospettano invece la possibilità non solo di acquisire geneticamente gli aspetti migliori del processo intellettuale e morale della specie, ma anche di passare a forme di vita più alta e intelligente, caratterizzate da una minore pressione degli istinti rispetto al comportamento cosciente e così via. In questa ottica si può quindi annoverare nel pensiero utopico anche un autore come Teilhard de Chardin, con la sua concezione dell'Universo quale tensione evolutiva verso forme sempre più alte di vita a cui mirano congiuntamente l'uomo e il cosmo e in cui trova posto anche la realizzazione della speranza cristiana di cui l'evoluzionismo ottocentesco era stato per molti decenni considerato come l'avversario inconciliabile e come la smentita irrevocabile (v. Manuel e Manuel, 1979; v. Marsch, 1969). Per rimanere poi nelle costruzioni utopico-evoluzionistiche, un cenno almeno merita l'opera di W. O. Stapledon e soprattutto i suoi due scritti Last andfirst men, del 1930, e The star maker del 1937. Se già nel primo Stapledon ipotizza un'evoluzione ulteriore rispetto all'uomo odierno, nel secondo si ha una sorta di ricostruzione complessiva dell'evoluzione del cosmo partendo dalla sua convergenza verso una coscienza pura e assoluta, il ‟costruttore di stelle", che al tempo stesso contempla e produce la realtà. Da notare l'insistenza di Stapledon sul fatto che in un cosmo così inteso la realizzazione dell'utopia o, meglio, di diverse utopie non comporta affatto l'estinzione dell'azione, anzi mira a impedire ogni irrigidimento mentale preclusivo di ulteriori progressi e a promuovere forme di vita e di interesse nuove e più alte.
Un posto a sé va infine riservato all'utopia evoluzionistica di G. B. Shaw, Back to Methuselah del 1921, talmente intrisa di satira e di paradosso da apparire come una vera e propria parodia. Arricchita di un lungo Poscritto teorico nel 1944, rientra nel quadro complessivo della polemica di Shaw contro le interpretazioni del darwinismo che tra Otto e Novecento ne avevano fatto una sorta di dogma, uno strumento di lotta politica e religiosa, accentuando soprattutto gli aspetti fortuiti e meccanici dell'evoluzione. Al contrario, nel suo ‟Pentateuco metabiologico" Shaw mette l'accento sulle possibilità dell'uomo di scegliere e promuovere il proprio destino. Già il racconto biblico della caduta viene interpretato come scelta compiuta da Adamo ed Eva di perpetuarsi nella specie in modo da evitare la morte, ma anche di sottrarsi alla noia insopportabile di un'esistenza senza fine. Tuttavia la durata attuale della vita, in condizioni di disagio ambientale e sociale, non consente all'uomo di realizzarsi adeguatamente. L'uomo muore troppo presto, prima di aver potuto mettere a frutto la saggezza e l'esperienza acquisite, e perciò deve ‟tornare a Matusalemme". La speranza di realizzare l'utopia si fonda cioè sulla conquista evolutiva da parte della specie umana di una sempre maggiore longevità (dapprima alcuni secoli, poi millenni) e di una mutazione genetica che porterà alla riproduzione ovipara e alla nascita di creature già al culmine dell'adolescenza. Attraverso la voluta sopravvivenza dei migliori e dei più saggi l'uomo potrà così perseguire creativamente la realizzazione dell'ideale di onniscienza e onnipotenza in un mondo unificato e pacificato.
Quanto poi all'importanza degli sviluppi della psicologia nelle sue diverse forme, per l'utopia del Novecento, va anzitutto ricordata la tesi sostenuta da F. E. Manuel nel suo schema di ‟storia psicologica delle utopie" (v. Manuel, 1966, pp. 69-98). Muovendo da un'angolatura psicologica, nel senso lato del termine, secondo Manuel si possono individuare nella storia dell'utopia tre grandi fasi: quella dell'utopia della ‟calma felicità", che va da More fino alla Rivoluzione francese e tende a una società ideale, statica e perfetta; quella dell' ‟eucronia", nel periodo che va dalla Rivoluzione francese a gran parte dell'Ottocento, che idealizza invece una dinamica sociale volta a realizzare la perfezione utopica nel tempo e nella storia; la terza, infine, è quella del nostro secolo e potrebbe essere chiamata dell' ‟eupsichia". In altri termini, caratteristica dell'utopia novecentesca sarebbe quella di andare al di là del progetto di ordine sociale perfetto, statico o dinamico, e di ricostruirne le radici più profonde che si trovano a livello di istinti e di appetiti. In questo senso, secondo Manuel, il Novecento non solo, come già si è accennato, ha compiuto una revisione dei tratti pessimistici e competitivi dell'evoluzionismo, ma avrebbe pure superato gli aspetti pessimistici e antiutopici della teoria freudiana, riconducendo i motivi di insoddisfazione e di frustrazione a condizioni sociali eliminabili, piuttosto che a fattori psicologici costitutivi, istintuali e strutturali. Viene così a cadere il pregiudizio antiutopico essenziale, e cioè l'opposizione di principio tra felicità e civiltà o, comunque, viene eliminata la convinzione che tale opposizione non possa essere superata storicamente, proprio perché non avrebbe origini storiche. Reich, Fromm, Marcuse e N. Brown rappresentano in questo senso, per Manuel, una rinascita dell'utopia adamitica in una società meccanizzata dove le relazioni sono state danneggiate da un'atrofia dell'amore.
Non meno interessante il tentativo di collegare produttivamente psicologia e utopia su un altro versante, e cioè non in chiave di lettura psicologica e psicanalitica del disagio di fronte alla civiltà, bensì con la proposta di utilizzare a fondo le scoperte della psicologia più recente come strumento di realizzazione dell'ideale utopico, uno strumento perfino sostitutivo della politica o, comunque, alternativo rispetto a inutili e indebite forme di violenza e di coercizione. Anche questo tema ha trovato espressione nell'utopia di Wells e precisamente in Men like Gods, dove viene esaltata la sostituzione dello psicologo al poliziotto e l'avvento dello Stato educatore come superamento dell' ‟ultima età del disordine". Tuttavia la portata di questo tema è molto più vasta e va molto al di là della sua utilizzazione nel quadro della letteratura e del romanzo utopico, poiché è stato svolto espli citamente ad opera di psicologi che vi si sono direttamente impegnati con il loro prestigio di scienziati. Così di recente si è richiamata l'attenzione su una serie di utopie, non molto note, dovute ad autori come G. S. Hall (The fall of Atlantis del 1920), H. Münsterberg (Tomorrow: letters to a friend in Germany del 1916), W. Mc Dougall (The island of Eugenia del 1921), e J. B. Watson (The behaviorist's utopia del 1929), che hanno cercato di mettere in luce la funzione progressista e sociale di un adeguato impiego dei risultati della psicologia (v. Morawski, 1982).
A questo proposito poi l'opera forse più nota è quella dovuta a uno dei maggiori esponenti del comportamentismo, lo psicologo B. F. Skinner (v., 1948). La comunità utopica qui descritta è costruita in base al principio che la psicologia, o meglio l'‛ingegneria del comportamento', possa e debba sostituire la politica per avviare gli uomini a una forma di convivenza felice senza necessità di misure repressive o coercitive. Le tecniche usuali di governo, infatti, si servono della forza o della minaccia della forza, ma questo procedimento è assurdo, oltre che controproducente, perché nessuno può essere obbligato con la forza a essere felice. Il che non significa però cadere nell'estremo opposto, nell'anarchismo, che è ancora una forma eccessiva di perfezionismo e di fiducia nella natura umana. Non si tratta cioè di eliminare il governo, ma di instaurare una forma di governo che operi in base alla scienza del comportamento umano, il che soltanto ora è diventato possibile, poiché con la psicologia si è giunti a conoscerne scientificamente le leggi. Per ciò stesso verrà a cadere qualsiasi rischio di tirannide, poiché scopo ditale governo sarà soltanto quello di sviluppare gli istinti altruistici. Da ultimo, l'utopia di Walden two non correrà alcun rischio di chiusura e di staticità, poiché l'ingegneria comportamentale non opera in base a un progetto astratto di società, ma è la continua sollecitazione e valorizzazione delle potenzialità dell'uomo.
9. La controutopia
Caratteristica essenziale dello sviluppo dell'utopia nel Novecento è, infine, l'affermarsi e il diffondersi di quel genere letterario che è stato variamente qualificato come antiutopia, distopia, controutopia, e di cui si sono ravvisate anticipazioni in opere come i Gulliver's travels di J. Swift. Si tratta cioè di un tipo di letteratura che si avvale della tecnica narrativa consueta nelle costruzioni utopiche (memorie, racconti, resoconti dal futuro, ecc.) e che presenta al suo interno caratteri analoghi a quelli di queste costruzioni (sistematicità di ordinamenti alternativi rispetto a quelli esistenti), ma con l'intento opposto, e cioè non di proporli come ottimali, bensì di mostrare come il perfezionismo, la preoccupazione di realizzare l'ottimale, abbia comportato la soppressione di quello che veramente interessa e costituisce l'uomo. Forse non c'è modo migliore, per indicare le ragioni e le motivazioni della controutopia, che ricordare le parole di Berdjaev apposte da A. Huxley come motto a Brave new world: ‟Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? [...] Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d'evitare le utopie e di ritornare a una società meno utopistica, meno ‛perfetta' e più libera" (v. Huxley, 1932; tr. it., p. 19). La controutopia viene così a indicare tutte quelle opere che in qualche modo appaiono di carattere analogo, ma di segno opposto alle utopie tradizionali, poiché descrivono come negativa la loro realizzazione.
Tra le prime e più importanti testimonianze di questa tendenza nel Novecento è il romanzo My dell'ingegnere russo E. Zamjatin, scritto tra il 1920 e il 1923 e pubblicato poi in Inghilterra nel 1924. Quest'opera ripete dal lato formale molti dei tratti essenziali del genere utopico: vi è infatti descritta una realtà sociale isolata (c'è un grande muro che separa la comunità industrializzata e tecnicizzata dal vecchio mondo delle piante e degli animali) dove tutto è perfettamente regolato in modo da costringere gli uomini a essere felici. Si è provveduto infatti a mettere riparo all'errore compiuto dai nostri progenitori Adamo ed Eva, che hanno scelto la libertà a spese della felicità. Ma la felicità comporta l'abdicazione all'individualità, all'anima, ai sentimenti, all'amore. Non a caso titolo dell'opera è quel ‛noi' che è detto venire da Dio, mentre l'‛io' proviene dal diavolo. Fuor di metafora, l'anima, la coscienza sono una sorta di malattia dell'uomo preutopico di cui si è ormai ottenuta la guarigione e, in ogni caso, non è difficile intervenire, con una serie di semplici applicazioni radiologiche, su quel ‛nodo' del cervello che è la causa di tutti gli inconvenienti dell'uomo e della storia: la fantasia. Anche in My, come in genere nelle successive controutopie, è proprio l'amore a costituire l'elemento dirompente che mette in crisi la conformità al sistema, ma forse è più interessante sottolineare la chiave politica del discorso antiutopico di Zamjatin: il vero problema è se sia mai possibile pensare a una rivoluzione che sia veramente l'‛ultima', che realizzi un equilibrio sociale perfetto, o se, al contrario, l'‛entropia psicologica', l'acquiescenza così raggiunta e propugnata non siano invece qualcosa di terribilmente dannoso e paralizzante.
Più complessa, più articolata e più ironica la controutopia sviluppata da Huxley in Brave new world del 1932, dove l'obiettivo polemico non è tanto un regime politico totalitario, quanto lo sviluppo inesorabile della civiltà industriale e delle sue esigenze organizzative. A farne le spese non sono soltanto i valori tradizionali l'arte, la religione, la filosofia e perfino la scienza, che in quanto inventiva è considerata potenzialmente ‛eversiva' ma anche l'identità stessa dell'uomo. Il suo destino infatti viene deciso già prima della nascita, in modo da eliminare il problema costituito dalle differenze sociali, professionali e attitudinali: infatti si provvede intervenendo a livello genetico per produrre diversi tipi di uomini a seconda delle necessità del sistema. A questo condizionamento preliminare altri se ne aggiungono, messi a disposizione dalle più recenti scoperte della psicologia: riflessi condizionati, trasmissione di messaggi al di sotto della soglia della coscienza, ‛ipnopedia', ossia una sorta di persuasione morbida che si trasmette durante il sonno, e così via. Come se non bastasse questa completa pianificazione della soddisfazione degli istinti e degli appetiti, come rimedio a ogni possibile causa di depressione o di sconforto c'è poi una droga, il ‟soma", che Huxley definisce ‟un cristianesimo senza lacrime". A questa comunità perfettamente regolata e felice, dove peraltro non mancano talvolta di verificarsi incidenti di percorso e cioè l'emergere di elementi di disturbo, esemplari non perfettamente riusciti secondo gli schemi della programmazione genetica e psicologica, si contrappone il vecchio mondo e la morale del ‟Selvaggio" che in un appassionato confronto con il governatore del nuovo mondo rivendica il diritto alla solitudine, alla sofferenza, all'infelicità, a Dio, alla poesia, alla libertà, e perfino al peccato, insomma a tutti quegli elementi che l'utopia si era premurata di allontanare per sempre dall'uomo. Nel quadro di questa polemica antiutopica rientra pure l'opera più tarda di Huxley, Island del 1962, dove al mondo industrializzato, tormentato da profondi disagi psicologici e morali cui invano cercano di apportare rimedio terapie di tipo psicanalitico, vengono contrapposti una saggezza di tipo orientale e l'ideale di uno sviluppo libero e armonico della vita, con la natura non ancora ridotta a strumento di dominio e in un felice accordo di corpo e anima, di sensi e spirito.
Più cupa e, per certi aspetti, terrificante la controutopia dello scrittore inglese E. A. Blair, più noto con lo pseudonimo di George Orwell. Già in Animal farm del 1945 Orwell sviluppa una feroce satira contro il totalitarismo, con trasparenti allusioni al sistema sovietico, mostrando come la rivoluzione compiuta in nome dell'uguaglianza possa trasformarsi in una nuova e feroce tirannide. Ma è nell'opera di poco successiva, 1984, scritta nel 1948 e pubblicata nel 1949, che si ha l'esposizione più ampia e sistematica della controutopia di Orwell. Lo schema è quello consueto di un mondo perfettamente regolato, dove è soprattutto il sentimento, e in particolare l'amore, a introdurre dubbi, disagi e, poi, un vero e proprio scontro con il sistema e le sue regole oppressive e spersonalizzanti. Tuttavia, caratteristica di 1984 è l'atmosfera particolarmente plumbea e ossessiva del sistema totalitario, vigilato dallo sguardo inesorabile del ‟Grande Fratello" a cui non è possibile sottrarsi in alcun modo. Particolarmente interessante l'ampiezza dell'analisi dedicata alla mistificazione propagandistica propria del regime totalitario e alla sua completa strumentalizzazione del linguaggio. Più esattamente, come è detto anche nell'apposita Appendice dedicata alla ‟neolingua", il totalitarismo opera un deliberato rovesciamento dei sensi del linguaggio (così, ad esempio, ‟svagocampo" indica il campo per i lavori forzati, Ministero della Pace il Ministero della Guerra), poiché suo scopo è rendere impossibile ogni forma di pensiero diversa da quella imposta e diminuire, invece di estendere, la libertà di pensiero. A questo proposito, anzi, conviene sottolineare uno dei tratti comuni delle controutopie e cioè l'accentuazione della funzione antiutopica della cultura, considerata come momento anticonformistico e liberatorio rispetto alla chiusura del sistema compiuto, perfetto e totale. Bersaglio particolare della repressione utopica è il libro, che già in Brave new world vediamo custodito con cura come materiale non tanto desueto, quanto indice di una mentalità inconciliabile con il sistema, e che in Fahrenheit 451 di R. Bradbury diventa addirittura il simbolo e la quintessenza dell'opposizione e della resistenza al mondo utopico realizzato. Quelli che nel vecchio mondo erano i vigili del fuoco ora invece accorrono dovunque ci sia sentore che si siano occultati dei libri, per impedire che nel mondo perfettamente organizzato dilaghi il torrente della tristezza e del pessimismo, che gli uomini vengano resi infelici con teorie e ideologie contraddittorie, che i libri insomma rivelino aspetti problematici e negativi della vita di cui la gente ormai non vuole e non deve più sentir parlare.
Volendo ancora accennare brevemente ad altri temi tipici della controutopia (è impossibile infatti in questa sede dare un'indicazione anche solo sommaria delle opere in cui ha proliferato il ‛genere' controutopia) va sottolineato come molti di questi temi emergano e si affermino all'interno stesso delle costruzioni utopiche o, se si preferisce, come molte tematiche utopiche, portate all'estremo, si rovescino in prospettive minacciose e contrastanti con la speranza utopica stessa. Caso tipico in questo senso è ancora una volta Men like Gods di Wells, dove le splendide creature che popolano l'universo utopiano, dopo aver perso perfino il ricordo delle malattie che colpivano i loro lontani antenati, soccombono inesorabilmente a una banale influenza portata nel mondo utopiano da uno dei visitatori terrestri. Lo sviluppo secolare di nuove condizioni igieniche e genetiche ha infatti privato gli utopiani di qualsiasi capacità di difesa organica. Fuor di metafora, il pensiero utopico portando al limite le conquiste biologiche della specie avverte la possibilità di risvolti imprevedibili di questo processo o quanto meno di esiti estremamente sconcertanti. Da The island of Dr. Moreau di Wells, con la sua allucinante atmosfera di crudeli trapianti uomo-animale, fino alle più recenti divagazioni ironiche e parodistiche di S. Lem in Il congresso di futurologia, si ha tutta una serie di opere che tradiscono in forma utopica e fantascientifica la preoccupazione profonda per i possibili esiti negativi delle modifiche delle caratteristiche biologiche e genetiche della specie, su cui pure tanta utopia fa affidamento.
Un ultimo tema, caratteristico della controutopia, non può non essere menzionato ed è quello del rapporto tra l'uomo e la macchina, visto però nella versione opposta a quella trionfalistica per cui la macchina rappresenta un semplice prolungamento delle capacità dell'uomo di dominare la natura. Al contrario, si tratta di una prospettiva più cauta o perfino negativa, di cui si ha una significativa anticipazione in un'opera utopica dell'Ottocento, ossia in quella parte di Erewhon, intitolata Libro delle macchine, dove S. Butler descrive il potenziale rovesciamento del rapporto tra uomo e macchina, per cui sarà la macchina a ridurre l'uomo a proprio schiavo e a strumento del proprio sviluppo, provocandone per giunta un irrimediabile indebolimento.
Entrambi questi aspetti del problema hanno avuto nel Novecento ampi sviluppi di cui si possono ricordare due esempi celebri e significativi la rivolta dei robot, descritta dallo scrittore cecoslovacco K. Čapek (v., 1921), e l'‟arresto della macchina", di cui parla lo scrittore inglese E. M. Forster (v., 1947). I manichini meccanici costruiti a perfetta somiglianza dell'uomo che avranno una lunga e fortunata storia nella fantascienza lavorano in modo estremamente efficiente proprio per la loro assoluta mancanza di sentimenti e di problemi psicologici; ma un giorno, nell'opera di Čapek, si fanno protagonisti di un'insurrezione contro i loro costruttori e padroni, sterminandoli e soppiantandone il dominio. Per Forster invece è un improvviso arresto delle macchine, in un universo perfettamente organizzato, a mettere in luce come l'uomo sia ormai un essere totalmente sprovveduto e schiavo dei suoi strumenti, a cui ha delegato completamente le garanzie della sua esistenza e felicità.
In questo senso la controutopia non rappresenta soltanto, come talvolta si è detto (cfr., ad esempio, I. Howe, Der antiutopische Roman, in Villgradter e Krey, 1973), una reazione di sconforto al cadere di illusioni progressiste o di sconcerto di fronte ai paurosi aspetti del totalitarismo, ma una dimensione critica interna al pensiero utopico, un ammonimento a non perdere mai il doveroso distacco rispetto agli strumenti politici o tecnologici elaborati per realizzare il progetto alternativo ottimale e a non lasciarsi travolgere dalle loro potenzialità non sempre incondizionatamente positive. È come se nella sua stessa forma - la descrizione di una situazione immaginaria totale e sistematicamente coerente - l'intenzione utopica cercasse il correttivo agli eccessi dei suoi contenuti e quindi tendesse a riscattarsi dalle sue chiusure o, quanto meno, si dimostrasse disponibile a operare in tal senso.
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