Utopia
Fin dalla sua apparizione il termine 'utopia', coniato da Thomas More, presenta un carattere volutamente ambiguo e polisemico. Esso designa innanzitutto l'opera stessa di More, L'Utopia, Relazione dell'eccellentissimo Raffaele Itlodeo sulla miglior forma di repubblica, pubblicata a Lovanio nel 1516. È poi il nome della Città immaginaria, fondata dal re e grande legislatore Utopo, abitata dagli Utopiani, di cui More offre una descrizione dettagliata. Il nome di questo luogo è, come si è detto, volutamente ambiguo. In effetti, 'utopia' è una forma contratta che si riferisce tanto a eu-topos, luogo della felicità e della perfezione, che a ou-topos, luogo che non esiste in nessun luogo. Su questa ambiguità l'autore gioca coscientemente: il viaggio immaginario al di là dei mari è un viaggio al di là delle istituzioni esistenti; la Città felice, che gode della "migliore costituzione", non esiste da nessuna parte.
Nel corso del tempo, a questa prima ambiguità se ne sono aggiunte altre, relative, da un lato, all'estensione del significato del termine e, dall'altro, al suo carattere valutativo. 'Utopia' diviene rapidamente un termine generico per indicare ogni testo che obbedisca al paradigma inaugurato da More; il narratore scopre un paese e un popolo immaginari le cui istituzioni differiscono, più o meno radicalmente, da quelle delle società esistenti: essi non conoscono l'infelicità di queste ultime e perciò offrono un modello di Città felice. Si dà però questo nome anche a testi che non rientrano in tale genere letterario e che precedono quello di More: la Repubblica di Platone è l'opera più spesso evocata come esempio di quest'altra forma di discorso utopistico, cioè un progetto di legislazione ideale, di 'governo perfetto'.
Per indicare questa categoria di testi viene anche utilizzato il termine 'romanzo politico' (Staatsroman, in tedesco). Nome generico, 'utopia' diviene rapidamente un termine valutativo, assumendo il significato di 'impossibile', 'chimerico', 'sogno irrealizzabile', in particolare nella sfera politica e sociale. Così Spinoza, nel Trattato politico, critica quei sognatori le cui dottrine politiche non si applicano che al "paese di Utopia" o all'età dell'oro dei poeti, e sono concepite per gli uomini quali dovrebbero essere e non quali sono. Nel XVIII secolo si inventa il verbo utopiser per designare l'elaborazione di idee politiche astratte e chimeriche: "vous utopisez à perte de vue", rimprovera Diderot all'abate Galiani, giudicando chimerici i suoi progetti di riforma. Nel 1802, per indicare l'attività specifica della produzione di testi utopistici, Louis-Sébastien Mercier, autore del romanzo utopistico L'an 2440, propose il neologismo fictionner: mettere appunto le risorse della finzione letteraria al servizio di una dottrina politica, al servizio "della scienza che abbraccia l'economia generale degli Stati e la felicità dei popoli".
L'assimilazione dell'utopia al 'chimerico' non arrestò l'immaginazione e il pensiero utopistici. Nel corso del XVII e del XVIII secolo decine di opere ripresero il paradigma del viaggio immaginario e diedero rappresentazioni assai contrastanti della Città felice (tra le più importanti: La Città del Sole, 1623, di Tommaso Campanella; la New Atlantis, 1627, di Francis Bacon; L'histoire des Sévarambes, 1677, di Denis Veiras; L'île de l'Ajao, 1768, di Bernard de Fontenelle). Questo modello conosce tuttavia anche delle innovazioni. Da un lato, Swift parodizza il genere letterario, lo fa esplodere dall'interno, inventando la controutopia. Nei Gulliver's travels (1726) egli offre un'immagine caricaturale di società grottesche che si considerano perfette e dimostra che la sola società conforme alla natura umana è necessariamente laida e malvagia. La società ideale, trasparente e felice, è prerogativa esclusiva del popolo immaginario degli Houyhnhnm, composto da cavalli ossia da antiuomini.
Dall'altro lato, al termine del XVIII secolo si verifica una trasformazione importante su cui torneremo: l'utopia si apre al divenire storico, il viaggio immaginario nel tempo si sostituisce al viaggio nello spazio. Sin dal XVI secolo l'utopia supera rapidamente il modello angusto della finzione romanzesca. Così gli architetti formulano nel linguaggio delle forme spaziali le condizioni della comunità felice (si pensi ad esempio al progetto della città ideale di Chaux, 1774, di Claude-Nicolas Ledoux). Filosofi e pedagoghi elaborano sistemi educativi atti a formare dei cittadini liberi, illuminati e dediti al bene comune (per esempio Comenio, Rousseau, Condorcet, Pestalozzi). L'educazione si presenta come la condizione preliminare della rigenerazione sociale e anzi come una prefigurazione della società rinnovata. Ricordiamo infine degli esperimenti sociali immediatamente giudicati 'utopistici'. Nel XIX e nel XX secolo, sulla scia delle dottrine socialiste, nacquero ovunque delle comunità-modello, basate sulla libera associazione dei membri, che si proponevano di realizzare, su piccola scala, i valori-cardine del 'mondo migliore'. Abbiamo così le comunità oweniste, cabetiste, fourieriste e saintsimoniane nel secolo scorso; nel nostro secolo l'esempio più notevole è offerto dai kibbuzim, che hanno avuto un ruolo essenziale nello sviluppo del sionismo e, poi, nella fondazione dello Stato di Israele.
Per la sua ampiezza, le sue forme diverse e i mutevoli confini, il fenomeno utopistico diviene l'oggetto di ricerche storiche e sociologiche che si propongono di definire il concetto di utopia, di fissare una tipologia delle utopie e di analizzare le condizioni della loro produzione e diffusione. Così, in Marx ed Engels si ritrova l'opposizione utopia/scienza, o più esattamente socialismo utopistico/socialismo scientifico: le utopie collettiviste, in particolare quelle di Saint-Simon, Owen e Fourier, sono considerate come anticipazioni e i loro autori come precursori di un socialismo che, grazie al marxismo, è diventato scientifico. Per Karl Mannheim l'opposizione è invece tra utopia e ideologia: la prima è una visione del mondo, coerente e strutturata, nella quale si manifestano aspirazioni, ideali e sistemi di valori dei grandi movimenti sociali e attraverso la quale si esprimono i profondi bisogni di cambiamento di un'epoca; la seconda, al contrario, rappresenta la coscienza sociale di gruppi e classi che difendono lo status quo. Mannheim distingue quattro forme di mentalità utopistica: il chiliasmo, l'umanitarismo/liberalismo, la prospettiva conservatrice e nazionale, il socialismo/comunismo. Infine lo storico delle religioni Mircea Eliade vede nell'utopia una manifestazione della nostalgia delle origini, del desiderio di ritrovare una 'storia primordiale': in un mondo secolarizzato, 'disincantato' nel senso weberiano del termine, le utopie non sono che una forma residuale del mito del paradiso perduto e della nostalgia della legge originaria. All'inizio, dunque, 'utopia' designa un solo testo; si applica poi a un corpus di testi che obbediscono al medesimo paradigma, e conosce infine un uso assai esteso (filosofia, sociologia, antropologia, ecc.). Lo studio delle utopie deve quindi tener conto della evidente polisemia del termine come pure del carattere ibrido dei fenomeni studiati, dei loro mutevoli confini, delle loro diverse funzioni.
L'opera di More descrive il 'governo migliore', ma non si propone affatto come un programma di azione politica e sociale, e lo stesso vale per le utopie narrative che nel XVII e XVIII secolo ebbero nell'Utopia il proprio modello. L'opera contiene, da una parte, un'aspra critica della società dell'epoca, specialmente inglese, delle sue ingiustizie, della miseria del popolo a fronte del lusso dei ricchi. In particolare vengono denunciate le conseguenze nefaste delle enclosures: per produrre la lana occorre allevare pecore che, scacciando i contadini dalle loro terre, "divorano gli uomini", per riprendere la celebre formula di More. Dall'altra parte, il testo offre la descrizione di una società radicalmente diversa, una Città felice, in cui sono soppressi la proprietà privata e il denaro, fonti di tutti i mali sociali, dove tutti lavorano ma soltanto per sei ore al giorno, consacrando il tempo libero ad attività intellettuali (lettura, musica, conferenze, ecc.), e nella quale si vive, si abita, e si consuma 'in comune'. Queste regole fondamentali assicurano, senza alcuna coercizione, un'esistenza armoniosa a ciascun individuo e alla Città nel suo insieme. I magistrati vegliano sulla pubblica felicità, fatta di sobrietà e benessere individuali; le leggi non sono che il coronamento dei buoni costumi e della tradizione, assicurano l'educazione della gioventù e la tolleranza tra gli uomini.
Gli Utopiani vivono secondo natura e la natura prescrive all'essere umano la ricerca di una vita pacifica e piacevole. L'uomo è per l'altro uomo aiuto e conforto, è questo il principio stesso dell'umanità: nessuna virtù è più connaturata all'uomo che quella di addolcire il più possibile le pene altrui, di far scomparire la tristezza, di far conoscere a tutti la felicità e la gioia di vivere. Fedele alla tradizione umanistica, l'opera di More vuole istruire divertendo, unire morale e sapere, fornire una descrizione piacevole ed eloquente dell'alterità sociale, mostrare che la società esistente non è affatto necessaria e che una società diversa è, se non concretamente possibile, almeno immaginabile. All'immaginazione umanistica il libro di More offre anzi un formidabile stimolo. L'utopia di More - e lo stesso vale per quelle che ne seguono il modello - è un fenomeno moderno non solo per la data della sua composizione, ma anche per ragioni culturali e sociali. L'invenzione utopistica implica un'attività intellettuale che si afferma come autonoma, nel senso che trova in se stessa, nella sua ricerca disinteressata del vero, del buono e del bello la propria legittimazione.
Certo, il paradigma utopistico non nasce dal nulla: le rappresentazioni utopistiche costruiscono le comunità della felicità realizzata nello spazio simbolico già occupato dal mito del paradiso perduto. Nel corso dei secoli il paradiso ha rappresentato una riserva di simboli, metafore e sogni di felicità, di innocenza, di armonia con la natura e di comunicazione diretta con Dio. Tuttavia, nel caso delle utopie, gli autori non sono né profeti né indovini; non sognano di ritrovare il paradiso ma, attraverso il loro lavoro intellettuale, creano qualcosa di artificiale. Contrariamente all'Eden, luogo unico, donato da Dio all'uomo, le utopie sono costruzioni moltiplicabili e modificabili. Il sogno di felicità che esse offrono è opera puramente umana e profana e, in questo senso, esse contribuiscono a desacralizzare il paradiso. La storia degli Utopiani si situa in un divenire immaginario; tuttavia è una storia senza alcun legame con il racconto del Genesi, non è segnata dalla caduta, così come la Città utopistica non ha alcun legame con la speranza di redenzione. In tal senso, le utopie contribuiscono, a loro modo, al disincantamento dello spazio-tempo. Al sacro e al mitico esse sostituiscono delle rappresentazioni profane di una felicità secondo ragione. More non fu certo un ateo o uno scettico: all'epoca della redazione dell'Utopia egli aderiva all'umanesimo cristiano erasmiano, la cui influenza è manifesta nella sua opera. Il paradigma utopistico tuttavia dà un contributo essenziale alla risposta al grande problema della modernità in politica: quella di concepire una società auto-istituita, che non riposa su alcun ordine superiore al mondo profano, realizza obiettivi propriamente umani, si fonda sul libero consenso degli individui ed esercita un potere sovrano su se stessa. Al centro dell'immaginario utopistico si ritrova l'uomo che per sua natura è capace di determinarsi moralmente e socialmente, di costruire un mondo migliore, più umano.
Sulla scia dell'opera di More, il pensiero e l'immaginazione utopistici, pur nella diversità delle loro espressioni, danno voce a una duplice preoccupazione: da una parte, inventare le migliori istituzioni per gli uomini così come sono, con i loro vizi e le loro passioni; dall'altra, inventare istituzioni in grado di formare uomini migliori e fare in modo che la società eserciti su se stessa un'opera pedagogica. Le rappresentazioni di un mondo migliore offrono uno spazio in cui esercitare l'immaginazione sociale ed elaborare sogni e speranze legati alla ricerca di un ideale politico, morale e sociale. Alla nascita e all'evoluzione della politica moderna il pensiero e l'immaginazione utopistici danno il loro contributo specifico: con il metro della felicità pubblica, innalzando cioè a diritto legittimo l'aspirazione di ciascun individuo a trovare la felicità in questo mondo, essi misurano tutte le forme di governo. Queste particolarità del paradigma utopistico risaltano nettamente se si considerano altre trasformazioni che, sempre alle soglie della modernità, investono il modo stesso di pensare il 'politico' e il 'sociale'. In quegli anni Machiavelli scrive il Principe, e a prima vista tutto, salvo la prossimità temporale, oppone il suo neopaganesimo all'umanesimo a sfondo morale ed evangelico dell'autore dell'Utopia: alle costruzioni del governo migliore si oppone lo sguardo realista e disilluso di Machiavelli. Al centro della politica si trova la divisione in governanti e governati; la riuscita di un'azione politica dipende da rapporti di forza; il male è un fatto, è una passione, una molla essenziale dei comportamenti umani, e la politica implica una sua accorta manipolazione. Così, nella sfera pubblica, la fatalità del male contraddice e annulla l'illusoria aspirazione degli individui alla felicità.
Se l'opposizione tra Principe e Utopia è indubbia, vi è tuttavia un punto di convergenza: in entrambi i casi la società è vista come una realtà artificiale che ha in se stessa il proprio fondamento; in entrambi la politica è concepita come un dominio profano e intellegibile. Ad ogni modo, è soprattutto per la loro opposizione che le due opere contrassegnano insieme la svolta della modernità, che consiste nella liberazione dello spazio civile e nella sua definizione come campo governato dalle passioni e dai rapporti di forza, e insieme come luogo della legittima ricerca della felicità individuale e della felicità pubblica. Due poli certo opposti della modernità politica, ma anche due suoi elementi costitutivi; l'invenzione della modernità è legata alle tensioni intellettuali e morali che l'attraversano.
Nel corso del XVIII secolo, e soprattutto nella sua seconda metà, si profila sempre più la tendenza ad abbandonare le forme del discorso utopistico fino ad allora dominanti, in particolare l'utopia narrativa e il progetto di una legislazione perfetta. Tale cambiamento va di pari passo con un altro, la ricollocazione dell'utopia nel divenire storico. Il discorso utopistico diventa 'storico' nel senso che l'utopia si apre sull'avvenire e diventa futurocentrica. È con il metro di un avvenire migliore che essa giudica le infelicità della società presente. Una tendenza analoga si riscontra anche nell'utopia narrativa, come testimonia L'an 2440 di L.-S. Mercier (pubblicato nel 1770): il viaggio immaginario nello spazio è sostituito dal viaggio nel tempo. L'altrove sociale è situato in un avvenire immaginario, l'utopia si trasforma in ucronia. Il narratore si addormenta, fa un sogno e si ritrova, dopo quasi sette secoli, in una Parigi profondamente trasformata, così come è nuovo il mondo che scopre. L'autore ci dà una descrizione dettagliata della società nuova, armoniosa, trasparente e razionale, dei suoi costumi, istituzioni, urbanistica, ecc. Il mondo migliore dell'anno 2440 non si trova in un futuro qualsiasi ma è frutto del progresso intellettuale e sociale. Il tempo-progresso si è incaricato di realizzare le idee illuminate del presente, considerate dai contemporanei come nient'altro che chimere, e di trasformare i sogni utopistici in realtà. Questo cambiamento del modello narrativo è indicativo di una trasformazione più generale.
L'utopia è chiamata a dare un volto all'avvenire, è parte integrante di un discorso unitario sull'evoluzione continua, cumulativa e orientata della storia. Il sapere storico acquisito non è rivolto soltanto al passato e al presente ma illumina il futuro; dalla successione dei secoli fa sprigionare il senso della storia. L'Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain di Condorcet (scritto nel 1794, pubblicato postumo nel 1795) è notevole soprattutto come punto di partenza di un discorso specifico in cui non si parla di utopia che per il tramite del divenire storico che la genera. È anche una testimonianza sconvolgente di un'incrollabile fede nel progresso che fa tutt'uno con l'utopia. Condorcet redige il suo testo in pieno Terrore, di nascosto; braccato, messo fuori legge, appena terminato l'Esquisse viene arrestato e muore in prigione. Nell'Esquisse la narrazione storica si articola in dieci epoche, nove delle quali concernono il passato e il presente mentre la decima è quella dell'avvenire, dei progressi futuri dell'umanità. Poiché la storia è divenuta una scienza, il futuro appartiene al suo dominio e non più a quello delle 'chimere'. Ciò non impedisce a Condorcet di offrire la rappresentazione di una società altra che contrasta con lo Stato che l'umanità ha conosciuto finora. Finalmente liberi, gli uomini non riconosceranno altro sovrano che la ragione e la verità; tra i popoli scomparirà l'ineguaglianza e, grazie a una pace perpetua, essi godranno tutti insieme delle conquiste della civiltà; il perfezionamento dello spirito umano, i progressi delle arti e delle scienze avranno come conseguenza la razionalizzazione delle istituzioni politiche, l'accrescimento della felicità pubblica e del benessere individuale. Gli uomini sono dunque perfettamente capaci di determinare il proprio futuro.
L'opera di Condorcet è profondamente segnata dall'esperienza e dall'immaginario della Rivoluzione francese. Tuttavia, ciò che viene messo in risalto non è la frattura ma la continuità temporale: la Rivoluzione non ha fatto che accelerare l'avvento di una Città felice verso la quale procede il divenire storico definito dalle leggi del progresso. Lo spostamento dell'utopia nel divenire storico e nel progresso caratterizza anche il fiorire di utopie nella prima metà del XIX secolo e, in particolare, le dottrine socialiste e riformatrici di Saint-Simon e della sua scuola, di Fourier, Owen e Cabet. La gran parte dei testi utopistici è costituita da opere filosofiche e sociologiche, da trattati, rassegne, ecc., che espongono i progetti di riforma sociale sostenuti da una critica più o meno radicale della società contemporanea, da una filosofia della storia, da analisi economiche, o ancora da considerazioni di ordine spirituale. La riforma globale è presentata come la risposta alla crisi profonda che caratterizza la società, e in particolare alle conseguenze nefaste dell'urbanizzazione e dell'industrializzazione capitalistica selvagge. D'altra parte, queste dottrine ispirano la formazione di comunità-modello le quali mirano a dimostrare che una vita in comune migliore è realizzabile. Coniugando armonia sociale e sviluppo individuale queste comunità rappresentano, in una società ingiusta e infelice, delle isole che prefigurano la nuova società. L'utopia realizzata costituirebbe il risultato della storia.
Di conseguenza, cambia anche il ruolo dell'utopista: egli non si pone più come sognatore e costruttore di mondi fittizi, ma come un riformatore sociale che contribuisce a far emergere un mondo migliore. La simbologia utopistica è anche parte integrante dell'immaginario rivoluzionario e, di conseguenza, le idee utopistiche si ritrovano nell'orizzonte delle attese dei rivoluzionari. Il rivoluzionario nel senso in cui lo intendiamo oggi, vale a dire colui che organizza la sua azione politica allo scopo di preparare e portare a termine una rivoluzione, è un attore politico recente. Esso è nato, in particolare, dall'esperienza della Rivoluzione francese, dai suoi successi e dai suoi fallimenti: giacché una rivoluzione di fatto c'è stata, essa è realizzabile anche in avvenire; anzi, poiché non ha mantenuto le sue promesse iniziali, dovrà essere rifatta. La Rivoluzione francese presenta un immenso processo socioculturale in cui l'immaginario sociale ha un ruolo basilare. Al centro di tale immaginario vi è la rappresentazione della frattura del divenire storico, della divisione tra tempo 'vecchio' e 'nuovo' - frattura che viene superata con la promessa di un avvenire diverso, di una nazione rigenerata e di un uomo nuovo. In virtù del suo stesso carattere indefinito la promessa rivoluzionaria è condannata a radicalizzarsi; nell'entusiasmo rivoluzionario si fondono e al tempo stesso si oppongono le grandi passioni democratiche, quella della libertà e quella dell'eguaglianza.
Lo slancio rivoluzionario lega l'utopia al volontarismo politico e al costruttivismo sociale, nel quadro delle capacità creatrici pressoché illimitate tanto dello Stato rivoluzionario quanto dell'azione popolare. Così le rappresentazioni della società rigenerata diventano i luoghi in cui confluiscono e si strutturano, sul piano simbolico, i conflitti politici e sociali. I rivoluzionari credono nella loro utopia e questa si alimenta della loro fede. La congiura di Babeuf (1796) offre un notevole esempio del ruolo svolto dall'utopia nella formazione del rivoluzionario come attore politico. Reclutando i suoi adepti essenzialmente all'interno di quello che era stato il personale del Terrore e tra i giacobini delusi dalla svolta termidoriana, la congiura offre loro la possibilità di ottenere una rivincita, di riprendere e di portare a termine la rivoluzione. Così i cospiratori progettano di impadronirsi del potere combinando un atto di forza militare e una insurrezione popolare, e di instaurare una dittatura rivoluzionaria ricorrendo alla repressione terroristica. Essi si propongono di realizzare la promessa iniziale della rivoluzione che consiste, per Babeuf, nella 'perfetta uguaglianza' e nella 'pubblica felicità', idee che riassumono il progetto di un sistema fondato sull'egualitarismo che implica la comunità dei beni, lo scambio diretto tra le città e le campagne, l'abolizione del denaro e della disuguaglianza. Così l'utopia legittima l'azione rivoluzionaria la quale, a sua volta, è chiamata a tradurre il progetto utopistico nei fatti. La congiura fallì, ma tale sconfitta ha nutrito l'immaginario utopistico e rivoluzionario. Uno dei suoi capi, Filippo Buonarroti, cospiratore infaticabile, divenne il mentore della prima generazione di rivoluzionari del XIX secolo; il suo libro, Conspiration pour l'égalité (1828), perpetua la memoria di Babeuf, espone e dà forma sistematica alla sua utopia e si presenta come una sorta di manuale dell'azione politica rivoluzionaria.
Non è facile definire la linea storica seguita dalle utopie. Non si tratta di una storia lineare e cumulativa: gli utopisti sembrano ogni volta ricominciare daccapo il proprio lavoro, meno preoccupati di ascoltare i loro predecessori che di criticare i mali del presente e rispondere all'esigenza di giustizia e all'aspirazione alla felicità. Ma non si tratta nemmeno di una storia ciclica: l'immaginazione utopistica non sembra percorrere un circolo, dall'invenzione dell'utopia al suo confronto con la realtà, per ricominciare il proprio lavoro. Nella loro storia le utopie conoscono piuttosto una sorta di alternanza, a periodicità molto variabile, di 'epoche calde' in cui la produzione, la diversità e la diffusione delle loro rappresentazioni sono considerevoli, e di 'epoche fredde' in cui esse diventano rare, non suscitano interesse e non risvegliano passioni sociali. Abbiamo segnalato alcuni periodi caldi della creatività utopistica: la prima metà del XVI secolo, segnata dall'Utopia di More e dai suoi sviluppi; l'età dei Lumi e il passaggio dall'utopia all'ucronia; il secondo quarto del XIX secolo, ricco di produzioni utopistiche dei riformatori sociali, ecc. Aggiungiamo ancora due momenti 'forti', particolarmente rivelatori dei contesti ideologici contrastanti, e anzi opposti, nei quali si iscrivono le rappresentazioni utopistiche del futuro: nell'ultimo quarto del XIX secolo l'utopia socialista e sindacalista; negli anni venti e trenta del nostro secolo lo sviluppo delle utopie totalitarie. A più riprese Marx ed Engels hanno manifestato il loro rifiuto in linea di principio di elaborare un progetto dettagliato della società del futuro.
Essi intendevano così distinguersi dai visionari chimerici e dare prova della scientificità del proprio socialismo. Tuttavia, se non altro tramite la critica della società capitalistica, essi furono inevitabilmente condotti ad abbozzare le caratteristiche generali di una società senza classi e senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo. In seguito lo sviluppo del movimento operaio e la formazione dei partiti socialisti e di un movimento sindacale di massa fecero nascere, in particolare fra i militanti, il bisogno di una rappresentazione della società che costituiva il fine della loro azione collettiva. Le risposte vennero abbozzate nei numerosi testi dei teorici della Seconda Internazionale, in particolare di Bebel, Kautsky, Jaurès e Vandervelde, che si proponevano di dare un volto all'avvenire voluto e sperato. Attraverso la definizione dei fini del socialismo si forniva un'immagine del mondo migliore che la rivoluzione avrebbe fatto seguire alla società capitalistica: soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione; emancipazione dell'individuo dallo sfruttamento economico e dall'oppressione sociale; società senza classi, che assicura le libertà democratiche e l'uguaglianza, in particolare tra le razze e i sessi; pianificazione economica che scongiura le crisi e semplifica i rapporti sociali nel loro complesso; mondo pacifico, in quanto l'unione dei lavoratori mette fine ai conflitti nazionali, al militarismo e all'imperialismo e realizza la pace perpetua.
È un'utopia che confida nell'avvenire: nella loro storia, gli uomini non si sono confrontati che con problemi risolvibili e suscettibili di una soluzione razionale. Condividendo con il liberalismo del tempo la fede nel progresso e un certo produttivismo, le utopie socialiste insistono sulle possibilità pressoché illimitate offerte a ciascun individuo e alla società nel suo insieme dalla crescita economica e dall'umanizzazione delle condizioni lavorative. Le rappresentazioni di un avvenire migliore si configurano così come una sorta di prolungamento delle rivendicazioni sociali e, a loro volta, mobilitano le energie necessarie per ottenere una legislazione sociale e, in particolare, la limitazione dell'orario lavorativo. Il 1° maggio, giornata di sciopero, di rivendicazione sociale e di solidarietà internazionale contro le minacce di guerra, è vissuto come una prefigurazione della società futura. Tuttavia gli sforzi per impedire la guerra falliranno e la carneficina della prima guerra mondiale infliggerà un duro colpo all'ottimismo dell'utopia socialista e progressista. Negli anni venti e trenta del nostro secolo, le ideologie comuniste e fasciste (nel senso lato del termine, comprendente anche il nazismo) si impadroniscono delle rappresentazioni del futuro. Le ideologie totalitarie in effetti si distinguono per una prospettiva temporale che nel divenire storico accorda al futuro il posto centrale. Passioni rivoluzionarie e volontà di rottura radicale con il presente, appelli al Nuovo Ordine e all'Uomo nuovo, la gioventù come incarnazione dei valori collettivi, il volontarismo politico e l'esaltazione dell'azione dello Stato, sono altrettanti elementi ideologici che proiettano nell'avvenire i modelli di vita comunitaria. Negli anni venti, d'altra parte, i movimenti culturali d'avanguardia, come il futurismo e il surrealismo, scoprono delle affinità con il fascismo italiano e/o il comunismo. Le rappresentazioni totalitarie dell'avvenire non si esprimono solo discorsivamente ma anche, e anzi soprattutto, attraverso simboli e rituali specifici, in particolare in un sistema di adunate di massa, dimostrazione di nuove identità e solidarietà. Utilizzate sistematicamente come mezzi di propaganda e di manipolazione, le rappresentazioni dell'avvenire esercitano sugli animi un temibile potere di seduzione: esse facilitano l'abbandono della democrazia rappresentativa, suscitano illusioni, legittimano i regimi totalitari e ne occultano le pratiche.
Al di là delle somiglianze riemergono però con forza le differenze. Tutti i regimi totalitari utilizzano le utopie come un elemento del loro strumentario ideologico e simbolico; ma le loro utopie non sono intercambiabili, come non lo sono né le loro ideologie né i loro simboli. Le utopie sono 'prolungamenti' dei grandi miti politici propri dell'una o dell'altra ideologia; inoltre, nello spazio simbolico dell'uno e dell'altro sistema totalitario, la loro posizione non è affatto la stessa. Recuperando le tradizioni nazionalistico-romantiche (e, in Germania, in particolare la tradizione völkisch) le ideologie fasciste manifestano il proprio irrazionalismo. Le loro immagini del futuro fanno tutt'uno con l'esaltazione del particolarismo e della grandezza nazionali, della volontà di potenza, delle virtù guerriere, della purezza razziale e dell'odio mortale che ne consegue. L'utopia si confonde con la parola e l'azione del capo, guida di un popolo che ha una missione storica e che perciò deve avere una sola e identica volontà. Riprendendo invece l'universalismo e il razionalismo illuministici, l'utopia comunista si presenta come il prolungamento della teoria marxista e, perciò, come il punto di arrivo della marcia razionale della storia. Essa fa propri numerosi elementi delle utopie socialiste (ma non i diritti democratici), specialmente l'ideale di una società senza classi e di un'economia centralizzata e pianificata. Lo statuto dell'utopia è segnato da un'evidente ambiguità: da una parte essa legittima il potere e la politica del partito, e in particolare l'industrializzazione e la collettivizzazione forzate, la repressione di massa contro i 'nemici di classe', gli oppositori del regime, gli 'elementi piccolo-borghesi', ecc.; dall'altra, richiamandosi proprio ai fini dichiarati del regime, l'utopia conserva una certa autonomia dottrinale: le flagranti contraddizioni tra gli obiettivi enfatizzati e i mezzi oppressivi impiegati, tra l'avvenire radioso e il presente opprimente, si rivoltano contro le promesse del regime e, di conseguenza, contro i detentori del potere. Nella loro caduta, i regimi totalitari coinvolgono le utopie che esaltano il loro avvenire.
Le utopie fasciste non sono sopravvissute alla fine della seconda guerra mondiale, mentre l'implosione dell'impero sovietico ha segnato la fine dell'utopia comunista. Ma nel 1989-1991 quest'ultima era già stata erosa, svuotata della sua sostanza e della fede che l'aveva animata. Nell'epoca del socialismo reale il discorso utopico, ridotto ad alcuni clichés del linguaggio ufficiale, serviva a imbellettare più o meno efficacemente gli arcaismi e le inefficienze del sistema così come i rischi di una politica sempre più rozzamente pragmatica. L'utopia comunista non è stata mai, evidentemente, al potere: è il potere che l'ha utilizzata come strumento di dominio nel campo simbolico, e tuttavia il fallimento e il crollo del regime che si richiamava al 'socialismo scientifico' e a un avvenire assicurato dalla marcia della storia, non potevano che ridar vita e forza alla diffidenza nei confronti delle utopie, delle chimere di ogni origine e colore. Alla fine di questo secolo lo statuto dell'utopia è assai incerto. Se il suo passato è oggetto di numerosi studi storici specialistici, il suo presente e il suo avvenire sono problematici. Sta attraversando uno di quei periodi 'freddi' di cui si è detto, o è giunta alla sua fine, dopo aver compiuto il suo percorso storico? Il neoliberalismo dominante, la diffidenza nei confronti di soluzioni sociali globali, e anzi nei confronti di ogni progetto di società, il rifiuto del volontarismo politico, la forte coesione sociale delle società liberali, la fede nella 'mano visibile' che porta gli stessi vizi privati a contribuire alla virtù pubblica, sono tutti fattori che annunciano l'abbandono di progetti alternativi di società e di politica.
D'altra parte, però, le nostre società sono investite da un irresistibile processo di mondializzazione dell'economia e della comunicazione dai costi umani e dall'evoluzione largamente imprevedibili e incontrollabili. La democrazia non può rinunciare al suo principio che accorda a ciascun individuo il diritto di ricercare la propria felicità; la crescita della miseria e dell'esclusione che mina le nostre società non è considerata ineluttabile: l'evoluzione stessa della democrazia la rende anzi intollerabile. In un'epoca e in un mondo sempre più disincantati, le nostre società si limiteranno ad amministrare il presente, relegando l'utopia a una delle sue funzioni primitive, quella di divertire, racchiudendola nel dominio ludico della fantascienza e dei mondi virtuali? Oppure il futuro sarà così incerto, l'opposizione tra principio di realtà e desiderio di felicità così forte, lo scarto tra la massa delle miserie e l'aspettativa di giustizia così notevole, le disfunzioni delle istituzioni democratiche così inquietanti, che tutti questi fattori congiuntamente porteranno a rinnovare l'utopia democratica?
(V. anche Comunismo; Giacobinismo; Ideologia; Millenarismo; Socialismo; Teoria critica della società).
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