Utpaladeva
Filosofo indiano (900/925 - 950/975). Discepolo di Somānanda, U. sviluppa il pensiero del maestro attraverso un confronto con quello di Bhartr̥hari. La scuola della Pratyabhijñā («riconoscimento»), fondata da Somānanda e divenuta famosa soprattutto attraverso gli scritti di Abhinavagupta, prende il nome dall’opera fondamentale di U., le Īśvarapratyabhijñākārikā («Stanze sul riconoscimento del Signore», d’ora in poi ĪPK). Rispetto alla Śivadṛṣṭi di Somānanda, queste escono al di fuori dell’ambito scivaita, confrontandosi con il Pramāṇavāda buddista invece che con lo Śaivasiddhānta e portando avanti le proprie tesi su un piano argomentativo, senza ricorrere ai testi sacri scivaiti (la discussione dei quali è limitata al terzo capitolo) come autorità ultima. U. esprime inoltre il proprio afflato religioso nei suoi inni e non nelle ĪPK. Così facendo, U. può utilizzare gli strumenti filosofici elaborati dal Pramāṇavāda contro le scuole realiste, soprattutto il Nyāya. Seguendo il Pramāṇavāda, U. nega la separazione fra atto conoscitivo e soggetto conoscente, mostrando che l’idea di soggetto difesa dal Nyāya può essere resa filosoficamente invulnerabile agli attacchi buddisti solo dagli assunti della Pratyabhijñā. Infatti, anche la posizione del Pramāṇavāda non è in ultima analisi accettabile, giacché non riesce a render conto della nostra esperienza ordinaria (➔ loka). Fenomeni come la memoria mostrano invece, agli occhi di U., che la realtà non è istantanea. La costanza della realtà e la non distinzione ontologica fra soggetto e oggetto sono invece spiegabili dalla Pratyabhijñā in base all’idea che un’unica coscienza crei e pervada l’intero mondo dell’esperienza. La natura di coscienza di ogni cosa spiega la possibilità stessa della conoscenza, giacché altrimenti sarebbe impossibile che un oggetto di natura non conoscitiva possa divenire il contenuto di un atto conoscitivo (➔ Abhinavagupta). La conoscenza, continua U., non è un attributo di un soggetto di per sé incosciente (come, secondo U., il soggetto del Nyāya una volta raggiunta la liberazione e quindi la separazione dagli organi conoscitivi), bensì costituisce la sua stessa essenza. Tale coscienza non può che essere non duale (advaita), proprio perché il Pramāṇavāda ha dimostrato che le distinzioni fra oggetto e soggetto e fra vari soggetti e oggetti sono solo illusorie. Con un ulteriore passaggio, U. afferma che tale coscienza è inoltre libera e quindi attiva ed è perciò uguale a Dio, Śiva. Proseguendo l’idea di Somānanda per cui Dio è ovunque, anche nella differenziazione, U. (e Abhinavagupta dopo di lui) tende a non rifiutare le altre Weltanschauungen, bensì a ordinarle gerarchicamente di modo che ognuna rappresenti un aspetto parziale della realtà che sul piano assoluto è non duale ed equivale a Dio stesso. Il riconoscimento di cui parlano le ĪPK è appunto il riconoscimento della propria sostanziale identità con tale coscienza assoluta e libera. Da notare è che il riconoscimento avviene nei confronti di una soggettività personale, un ‘Io’ che si autoafferma come tale, e non con un assoluto indistinto. U. utilizza i tre gradi della parola descritti da Bhartr̥hari, interpretandoli alla luce dell’identità fra linguaggio e pensiero implicita anche in gran parte delle opere del tantrismo. Bhartr̥hari parla di parola corporea (quella effettivamente pronunciata), parola mediana (quella già formulata, ma non materialmente pronunciata) e parola «veggente» (quella non ancora formulata e quindi equivalente al pensiero stesso). A queste, un passaggio più controverso sembra aggiungere un ulteriore livello – secondo uno schema 3+1 frequentissimo in India, a partire dalle Saṃhitā (➔ Veda) – considerato da U. come un accenno al livello supremo di Śiva stesso, di cui gli altri livelli sarebbero emanazioni. Esce parimenti rafforzato dal confronto con Bhartr̥hari l’assunto di una coscienza onnipervadente e costituiva del mondo (che Bhartr̥hari afferma essere di natura linguistica e U. identifica con Dio).