Vedi Uzbekistan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Uzbekistan, già parte dell’Impero russo dal Diciannovesimo secolo e repubblica socialista sovietica dal 1924, è una della cinque repubbliche centroasiatiche nate nel 1991 a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’indipendenza non ha comportato in Uzbekistan, come in molte altre realtà regionali, una rottura con la precedente pratica di governo autoritaria, né con la nomenclatura che sino ad allora aveva retto il paese. Artefice dell’indipendenza uzbeka è stato Islom Karimov, attuale presidente e già segretario generale del Partito comunista uzbeko tra il 1989 e il 1991. Karimov ha guidato la transizione repubblicana controllando le leve del potere politico, istituzionale ed economico. Facendo affidamento su un sistema di spartizione delle cariche istituzionali basato su logiche claniche e sugli influenti e pervasivi servizi segreti nazionali, il presidente ha soppresso ogni forma di dissenso, mantenuto un forte controllo sui mezzi di comunicazione e limitato le influenze esterne, permettendo solo a un numero ristretto di organizzazioni internazionali e non governative di operare. Il suo approccio autoritario ha indotto Freedom House a giudicare il paese come ‘non libero’, assegnandogli il peggior punteggio tanto sotto il profilo politico quanto sotto quello sociale. Inoltre la corruzione percepita nel paese è aumentata fino a portarlo nel 2014 al 168° posto su 177 paesi monitorati. Secondo la Costituzione, approvata nel 1995, il presidente è eletto a suffragio universale e nomina il primo ministro. Nei fatti, il potere esecutivo è concentrato nelle mani del presidente e la figura del premier è svuotata di funzioni reali. Ai partiti politici è permesso organizzarsi in gruppi di maggioranza e opposizione soltanto dal 2007. In realtà l’Assemblea si limita ad apporre il proprio sigillo alle decisioni presidenziali. Nel 2002, con un referendum dagli esiti plebiscitari, l’elettorato uzbeko ha esteso il mandato presidenziale da cinque a sette anni. Sebbene secondo la Costituzione il presidente non possa restare in carica per più di due mandati, nel 2007 Karimov è stato rieletto per la terza volta, raccogliendo il 91% dei voti espressi. Le prossime elezioni presidenziali, che si terranno nel 2015, vedranno con ogni probabilità la ricandidatura di Karimov. Nonostante questo, dubbi e speculazioni sulle cattive condizioni di salute del presidente hanno aperto il dibattito su una possibile transizione al vertice. Attualmente sembra essere in atto uno scontro politico tra i due maggiori contendenti a questo ruolo: da un lato la figlia di Karimov, Gulnara Karimova, e dall’altro il capo dei servizi segreti interni, Rustam Inoyatov. L’approvazione nel corso del 2014, da parte del presidente, di una riforma costituzionale che trasferisce alcuni dei poteri presidenziali al legislativo e all’esecutivo, sembra indicare la volontà di preparare la transizione in modo tale da non accentrare eccessivo potere nelle mani del successore.
Sul versante delle relazioni internazionali, sin dall’indipendenza l’Uzbekistan ha nutrito l’ambizione di diventare la potenza egemone regionale, sulla base di considerazioni storico-culturali, demografiche e geografiche, oltre che su argomentazioni geopolitiche. Erede della tradizione del regno di Tamerlano, il paese è il più popoloso della regione centro-asiatica, ospita importanti minoranze etniche ed è l’unico a confinare, oltre che con l’Afghanistan, con ciascuno degli stati della regione. Nell’estremità orientale, l’Uzbekistan esercita la sua sovranità sulla parte pianeggiante della Valle di Fergana, la regione più fertile dell’Asia centrale, mentre condivide il controllo di monti e vallate secondarie con Kirghizistan e Tagikistan in una sorta di complesso mosaico di confini che, lascito del periodo sovietico, ancora oggi non manca di provocare attriti tra i tre paesi.
Le aspirazioni egemoniche uzbeke si riflettono sulle altalenanti relazioni con i principali attori statali e sovranazionali dello scacchiere centro-asiatico, caratterizzate da un’alternanza di allineamenti che, finalizzata a evitare l’assoggettamento alle politiche regionali di Russia, Cina e Stati Uniti, ha conferito al paese un connotato di inaffidabilità agli occhi degli interlocutori esteri. L’Uzbekistan ha aderito alla Comunità degli stati indipendenti (Cis) nel 1991 ed è stato tra i fondatori del suo trattato di sicurezza collettiva (Cst) nel 1992. Però, pur avendo sostenuto i meccanismi di cooperazione politica e di sicurezza inaugurati da Mosca nello spazio post-sovietico, ne ha preso progressivamente le distanze nella seconda metà degli anni Novanta. Dopo aver avviato una timida cooperazione con la Nato nel 1995, nel 1999 l’Uzbekistan ha deciso di non rinnovare la propria partecipazione al Cst e di entrare invece nel Guam, meccanismo di cooperazione composto da Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldavia, rivolto all’approfondimento delle relazioni con i partner euro-atlantici, in una prospettiva sostanzialmente anti-russa. Questa scelta fu capovolta già dal 2001, quando l’Uzbekistan congelò la sua partecipazione all’organizzazione (dalla quale sarebbe formalmente uscito nel 2005) per entrare a far parte dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), meccanismo di cooperazione centro-asiatico a guida russo-cinese. D’altra parte, nel clima regionale più cooperativo successivo all’11 settembre 2001, Toškent ha approfondito anche la cooperazione di sicurezza con gli Stati Uniti, ai quali ha concesso l’utilizzo di una base aerea per lo svolgimento delle operazioni militari in Afghanistan. Tuttavia, sullo sfondo del sostegno garantito dagli Stati Uniti alle ‘rivoluzioni colorate’ verificatesi nello spazio post-sovietico tra il 2003 e il 2005, e a seguito della dura condanna della comunità internazionale e della Casa Bianca alla brutale repressione delle manifestazioni di piazza nel 2005, Karimov ha impresso un nuovo mutamento alla politica estera del suo paese. Ha così espulso le forze statunitensi ed è rientrato nel 2006 nel Cst, nel frattempo istituzionalizzatosi in organizzazione internazionale (Csto). Infine, la congiuntura determinata dalla prospettiva di ritiro delle forze Isaf dall’Afghanistan e dal crescente interesse dell’Unione Europea per le risorse energetiche centro-asiatiche ha determinato nel corso dell’ultimo biennio una nuova fase di avvicinamento agli interlocutori euro-atlantici, culminata con la sospensione della partecipazione al Csto, ufficializzata nel dicembre 2012.
In questi continui cambi di fronte, è comunque crescente l’intesa strategica ed economica con la Cina, elevata al livello di partenariato nell’estate del 2012. Coerentemente con quanto va avvenendo nelle altre repubbliche centro-asiatiche, a trainare le relazioni dell’Uzbekistan con la Cina è il crescente interscambio economico. Nel 2012 la Cina è divenuta il primo partner per le esportazioni uzbeke, segnalando la volontà di Toškent di differenziare le proprie opzioni per non risultare eccessivamente dipendente da Mosca. La visita del presidente cinese Xi Jinping, nel settembre 2013, ha rappresentato una chiara testimonianza della volontà dei due paesi di stringere più strette relazioni economiche, a scapito della Russia.
La distanza tra Mosca e Toškent si è ulteriormente ampliata nel corso del 2014, in seguito alla maggiore proiezione russa nel suo ‘estero vicino’. Nel mese di marzo, il Ministro degli esteri uzbeko ha criticato in maniera velata l’annessione russa della Crimea, mentre nel mese di settembre Karimov stesso ha criticato, in un discorso pubblico, l’eredità ‘coloniale’ dell’epoca sovietica.
Con oltre 30 milioni di abitanti, l’Uzbekistan è il paese più popoloso dell’Asia centrale e la sua popolazione è ancora in crescita. Nel 2013 più di un terzo degli abitanti aveva meno di 15 anni. L’80% dei residenti è di etnia propriamente uzbeka, ma esistono importanti minoranze quali quella russa (5,5% della popolazione), tagika (5%), kazaka (3%), karakalpaka (2,5%) e tatara (1,5%). Secondo alcune stime, tuttavia, il numero dei tagiki potrebbe essere notevolmente sottostimato per colpa delle politiche governative di assimilazione e di repressione delle minoranze. È dunque probabile che i tagiki rappresentino addirittura un quinto dell’intera popolazione. L’estrema frammentazione etnolinguistica dell’Asia centrale è ben sintetizzata dal modo in cui la popolazione di etnia uzbeka si distribuisce negli altri stati dell’area. Sono 2,6 milioni gli uzbeki che vivono in Afghanistan (il 9% della popolazione), mentre 1,1 milioni risiedono in Tagikistan (il 16,5% del totale), 760.000 in Kirghizistan (14,5%) e 470.000 in Kazakistan (2,9%).
All’interno del paese si registrano forti squilibri demografici: la popolazione si concentra in massima parte nell’est, nella Valle di Fergana e intorno a Toškent, la capitale (regioni separate da un’alta catena montuosa), mentre nell’ovest si raggiunge una sufficiente densità abitativa solo lungo il corso del fiume Amu Darya, immissario del lago Aral. Il resto del paese è pressoché desertico e la rarità delle piogge, tipica della regione centroasiatica, aggrava le condizioni di accesso all’acqua anche nelle regioni più fertili, come Fergana. La quasi totalità della popolazione è di religione musulmana (96%) e la gran parte degli abitanti parla l’uzbeko, lingua ufficiale del paese, di derivazione turca. Anche il russo è molto conosciuto e parlato, mentre il tagiko è la lingua maggioritaria a Samarcanda e a Bukhara. La massiccia immigrazione di russi verso l’Uzbekistan durante i 65 anni di comunismo si è invertita a partire dal 1970, conoscendo un’accelerazione dal 1989.
L’architettura istituzionale, politica e sociale dell’Uzbekistan è totalmente sottoposta alla volontà del presidente Karimov e dei circoli di potere a lui collegati. Tutti i partiti che hanno eletto propri rappresentanti al parlamento uzbeko oggi sostengono il presidente, mentre le opposizioni sono deboli e divise, rappresentate soltanto da un piccolo gruppo di deputati indipendenti. Parallelamente – e in maniera più intensa a seguito delle ‘rivoluzioni colorate’ del 2003-05 – le manifestazioni popolari di dissenso hanno dovuto sottostare negli ultimi anni all’ulteriore inasprimento del sistema repressivo: secondo gli indici di Freedom House, tra il 2005 e il 2010 l’Uzbekistan avrebbe percorso fino in fondo la china dell’autoritarismo, spingendo verso il basso il suo indice di democrazia.
Nel primo lustro dall’indipendenza, l’Uzbekistan sprofondò in una crisi economica che toccò il suo culmine nel 1992 (con una decrescita del pil dell’11%). Dal 1996 però l’economia si riprese, assestandosi su tassi di crescita attorno al 4%. A partire dal 2005 il paese è poi cresciuto notevolmente, facendo segnare una crescita media annua superiore all’8% che, sia pur nel quadro di un lieve rallentamento dovuto al peggioramento delle condizioni economiche regionali, dovrebbe essere confermata nel quinquennio 2013-17 attestandosi attorno al 6,4%. Grazie a questa straordinaria espansione economica, il pil è più che raddoppiato in vent’anni (e oggi supera i 60 miliardi di dollari). L’Uzbekistan è la seconda economia dell’Asia centrale, dopo quella del Kazakistan (che ha un pil di 216 miliardi di dollari), sebbene il pil pro capite uzbeko, a parità di potere d’acquisto, sia ancora ben distante da quello kazako e da quello turkmeno: 4038 dollari nel 2014 contro, rispettivamente, 15.219 e 10.520 dollari.
La straordinaria crescita economica è stata trainata dall’aumento delle esportazioni di cotone e, soprattutto, dalla crescita del prezzo dell’oro, di cui il paese è il decimo produttore mondiale. Il settore agricolo ha tuttavia vissuto periodi altalenanti, in ragione del fatto che solo il 9% della superficie del paese può essere coltivata e che quasi tutta necessita di canali di irrigazione artificiali (fonte di importanti dispute con Kirghizistan e Tagikistan). Nonostante la crescita, l’Uzbekistan si è incamminato lentamente e con esiti contraddittori sulla strada delle riforme economiche. Pur dichiarandosi a favore dell’economia di mercato, il presidente Karimov ha avviato timide liberalizzazioni solo dall’inizio del Ventunesimo secolo. Delle parimenti timide privatizzazioni hanno d’altra parte beneficiato soltanto i circoli oligarchici vicini a Karimov, il quale influenza sovente l’esito delle gare d’appalto e concepisce la liberalizzazione dell’economia come un’estensione del suo sistema di patronato. L’estrema diffusione della corruzione ostacola l’attrazione di capitali esteri.
Il principale settore industriale è quello energetico. Diversamente dai suoi vicini che si affacciano sul Caspio, l’Uzbekistan non dispone di vaste riserve di petrolio (com’è il caso del Kazakistan) o di gas (come il Turkmenistan). Il petrolio è stato tuttavia sufficiente ad assicurare l’autosufficienza energetica fino al 2010, quando il paese ha iniziato a importarne limitate quantità. L’espansione nella produzione di gas ha permesso invece nel 2009 di esportare una parte significativa della produzione. Le esportazioni di gas hanno come principali destinatari la Russia e il Kazakistan, anche perché il paese era collegato solo alla rete infrastrutturale kazaka. Nuove prospettive di diversificazione dei canali di esportazione si sono aperte con l’inaugurazione, a fine 2009, del gasdotto tra il Turkmenistan e la Cina, che transita in territorio uzbeko. A partire dall’agosto 2012, l’Uzbekistan ha iniziato a esportare gas verso oriente, in base ad un accordo di fornitura di 10 Gmc/a di metano – volume che potrebbe essere incrementato grazie all’intesa sino-uzbeka per l’aumento della capacità dell’infrastruttura. Inoltre, il territorio uzbeko è compreso nel progetto di ampliamento del gasdotto tra il Turkmenistan e la Cina, che comprenderà anche Tagikistan e Kirghizistan.
Sull’aumento dei flussi di esportazione di gas pesa tuttavia l’elevato consumo interno della risorsa, che copre più dell’87% del mix energetico nazionale. A meno di introdurre strumenti di razionalizzazione e diversificazione dei consumi nazionali, l’incremento della produzione di gas stimato per il prossimo ventennio potrebbe essere totalmente assorbito dal parallelo incremento della domanda interna. Tanto che, stando ai dati previsionali dell’agenzia internazionale per l’energia, l’Uzbekistan potrebbe addirittura divenire importatore netto di gas attorno al 2035.
Quello uzbeko è l’esercito più numeroso dell’Asia centrale. Nei vent’anni dalla sua indipendenza il paese non ha mai subito minacce dirette alla sua sicurezza dall’esterno, ma ha dovuto far fronte al problema dell’instabilità delle sue frontiere, intervenendo anche con un proprio contingente militare durante la guerra civile in Tagikistan (1992-97). L’ascesa e la caduta dei talebani in Afghanistan, poi, hanno spinto l’Uzbekistan a rafforzare la cooperazio
ne con gli Stati Uniti. Dal 2001 al 2005 il paese ha concesso agli Usa l’utilizzo della base di Karshi-Khanabad, impiegata dall’aviazione statunitense come punto di smistamento della rotta di rifornimento settentrionale per i militari in Afghanistan. La lotta alle reti transfrontaliere del terrorismo è stata, d’altra parte, la più tradizionale delle preoccupazioni del governo uzbeko che, sin dalla seconda metà degli anni Novanta, ha individuato nel fondamentalismo islamico la principale minaccia per il paese e la regione. Alla riduzione al silenzio dell’opposizione politica e parlamentare ha corrisposto l’ascesa, nella seconda metà degli anni Novanta, di gruppi islamici clandestini che hanno adottato la lotta armata, come Hizb ut-Tahrir e il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu), verso i quali si sono indirizzate le frequenti repressioni delle forze di sicurezza, spesso utilizzate anche per colpire avversari politici e come strumento di pressione sui paesi confinanti. Il governo, accusato dalla comunità internazionale e dagli Stati Uniti di utilizzare l’estremismo islamico per giustificare reazioni sproporzionate da parte delle forze di sicurezza, con l’intento di prevenire un possibile contagio delle ‘rivoluzioni colorate’ che proprio in quel periodo andavano diffondendosi nello spazio post-sovietico, revocò la concessione della base agli statunitensi e, nel 2006, fece ritorno nella Csto. Inoltre, il governo uzbeko ha costruito, negli ultimi anni, una barriera di protezione elettrificata e, in alcune parti, minata, soprattutto ai suoi confini sudorientali con Turkmenistan, Afghanistan e Tagikistan. La barriera è lunga quasi 2800 chilometri, pari al 45% dei confini terrestri. Il riavvicinamento a Mosca nella cooperazione per la sicurezza non è stato tuttavia univoco: l’Uzbekistan ha progressivamente approfondito i rapporti con la Cina, mentre non ha interrotto del tutto il dialogo con gli interlocutori occidentali e, in particolare, con gli Stati Uniti.
Nel 1904 Halford Mackinder, geografo britannico, presentava alla Royal Geographic Society un saggio dal titolo The Geographical Pivot of History (Il perno geografico della storia). Nell’esordio, Mackinder decretava la conclusione della lunga era delle scoperte geografiche che segnava la fine della spartizione del mondo tra le potenze coloniali: il sistema politico internazionale era tornato dunque a chiudersi, ma a differenza dall’epoca pre-1492 non comprendeva più soltanto l’Europa e gli attori limitrofi, bensì l’intero globo terrestre. Alle grandi potenze non restava dunque che contendersi spazi già occupati: ovunque fosse avvenuta, l’espansione territoriale diveniva così un gioco a somma zero. Mackinder immaginava un mondo in cui il potere fosse distribuito in maniera non omogenea nello spazio, secondo criteri macrogeografici. Postulava dunque l’esistenza di un ‘perno geografico’, ovvero di una regione del mondo che, ospitando una quantità sproporzionata di materie prime inaccessibili alle potenze marittime, avrebbe conferito alla potenza continentale che fosse riuscita a controllarla un vantaggio potenziale incolmabile rispetto a chi ne fosse escluso. Il progredire dei sistemi ferroviari avrebbe d’altra parte consentito di rendere effettivo tale vantaggio, capovolgendo in favore delle potenze continentali il divario sul controllo delle rotte di comunicazione, fino ad allora appannaggio delle potenze marittime. La teoria geopolitica di Mackinder appiattiva così la strategia sulla geografia: ogni zona del mondo occupava una certa rilevanza strategica in conseguenza della sua posizione nello spazio. Per identificare il ‘perno geografico’ del mondo Mackinder si concentrava sull’Eurasia: le zone che lo avrebbero composto sarebbero state l’Europa orientale, l’entroterra russo e l’Asia centrale, regioni eterogenee ma contigue, che qualche anno più tardi egli stesso indicherà con il nome comune di ‘Heartland’. Seguivano poi aree disposte concentricamente rispetto allo Heartland, di importanza decrescente in misura della loro distanza dal ‘cuore’ del sistema-mondo. Il saggio di Mackinder, sebbene oggetto di forti critiche, sin dalla data della sua pubblicazione ha rapidamente raccolto vasti consensi tra gli accademici, i politici e gli strateghi militari europei e mondiali, ed è oggi considerato uno dei capisaldi della teoria geopolitica. Dall’inizio del Ventunesimo secolo, in Uzbekistan le élite intellettuali e militari hanno dato avvio a una vera e propria riscoperta e attualizzazione del lascito teorico del geografo inglese. Il rispolvero delle sue tesi, vecchie di oltre un secolo, appare tuttavia più strumentale che reale. Utile, in primo luogo, ad ammantare di classicità la politica estera uzbeka e a semplificarne gli obiettivi in poche, semplici massime – prima tra tutte quella che prescrive di tentare di imporre la propria egemonia, se non politica quantomeno culturale, su una regione ricca di risorse naturali e oggi fondamentale sia per Mosca, sia per Pechino. Funzionale, in secondo luogo, a procrastinare il mito della rilevanza globale di una regione, quella dell’Asia centrale, cui gli stessi Stati Uniti dell’epoca Bush hanno guardato con limitato interesse, concentrandosi piuttosto – e per motivi non solo o non tanto geopolitici – su un’area vicina ma notevolmente diversa, vale a dire quell’Asia meridionale che abbraccia Iran, Afghanistan e Pakistan.
Nel febbraio del 1999 una serie di attentati dinamitardi a Toškent causò la morte di almeno 15 persone; pochi giorni dopo, il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu) pubblicò il suo manifesto politico a sostegno della costituzione di uno stato islamico nel paese, pur non rivendicando direttamente gli attentati. Le posizioni dell’Imu venivano innanzitutto a differenziarsi da altri movimenti islamici storici diffusi nel paese, come Hizb ut-Tahrir, favorevoli alla costituzione di un califfato islamico sotto la cui egida si raccogliessero tutti i paesi musulmani del mondo. Gli attentati e la pubblicazione del manifesto provocarono una stretta repressiva nel paese e molti membri dell’Imu furono costretti all’esilio, impiantando la propria base principale nell’Afghanistan talebano e in aree remote e scarsamente popolate del Tagikistan. Molti protagonisti del movimento non erano tuttavia estranei a periodi di confino all’estero, dal momento che il nocciolo duro dell’Imu era costituito da esuli uzbeki che avevano combattuto al fianco degli insorti durante la guerra civile tagika e che avevano rinsaldato le loro connessioni con i talebani. L’invasione dell’Afghanistan da parte della coalizione militare a guida statunitense, nel 2001, indebolì molto il movimento, soprattutto perché fu ucciso uno dei suoi leader (Juma Namangani). Ancora oggi, tuttavia, alcune cellule dell’organizzazione restano attive sia in Uzbekistan, sia al confine tra Afghanistan e Pakistan, mentre una scissione di una frangia ancora più estremista dell’Imu ha dato vita, nel 2004, all’Unione del jihad islamico (Iju). La Iju, scarsamente attiva e composta da pochi membri, è stata la prima organizzazione terroristica a utilizzare attacchi suicidi in Asia centrale, e sembra che fino al 2008 abbia disposto di alcune importanti connessioni internazionali: proprio in quell’anno una serie di attentati sventati in Germania portava la sua firma.