vaccinazione
Vaccinazione, memoria, crossreazione
Nel 1780 E. Jenner, medico di campagna inglese, iniettò il contenuto di pustole provocate da vaiolo vaccino (cioè il vaiolo delle mucche) e constatò che i pazienti così trattati non si ammalarono quando infettati di vaiolo umano. Il motivo stava nel fatto che il virus del vaiolo vaccino e quello dell’uomo sono simili ma nell’uomo l’infezione da vaiolo vaccino guarisce in pochi giorni. La vaccinazione alla Jenner fu un grandissimo successo ed è stato il più spettacolare contributo dell’immunologia (che in pratica nasce allora) alla pratica medica. Grazie agli studi immunologici il vaiolo è stato prima contenuto e recentemente eradicato dal pianeta Terra. Dalla prima esperienza di Jenner le pratiche dello stesso tipo, rivolte alla prevenzione di altre malattie infettive (difterite, rabbia, tetano, poliomelite, pertosse e molte altre), vengono chiamate per estensione vaccinazioni.
Ancora prima di Jenner il concetto di memoria specifica, ossia il fatto che se un organismo sopravvive a un’infezione ha buona probabilità di essere immune durante una successiva epidemia dello stesso patogeno, era già radicato nel patrimonio culturale dell’umanità. I sopravvissuti della peste manzoniana esercitavano l’attività di monatti, perché potevano avere contatti con i malati senza correre pericolo di infettarsi. Furono molti i tentativi di provocare artificialmente la memoria e proprio nel caso del vaiolo, poi risolto da Jenner, furono fatti tentativi di prevenire il vaiolo con il vaiolo (variolizzazione), ma la pratica risultava troppo rischiosa e non fu applicata su larga scala, dato che molti variolati morivano.
Il salto culturale dellavaccinazione non è stato, perciò, la scoperta e l’applicazione della memoria immunologica, ma l’intuizione di sfruttare il fenomeno della crossreattività, per cui un antigene può indurre una risposta immunitaria (e la relativa memoria) che investe anche una rosa di antigeni simili ma non identici al primo. La riduzione di pericolosità del vaccino rispetto a un patogeno infettante può essere ottenuta artificialmente, sottoponendo il vaccino a trattamenti chimici o fisici che ne diminuiscano la vitalità o patogenicità. Un grande protagonista di questa strategia fu L. Pasteur, che inventò e usò trattamenti ‘attenuanti’ per la rabbia, il carbonchio e altri vaccini. L’abilità sta nel dosare attentamente il trattamento: infatti più si modifica l’antigene da usare come vaccino, e meno efficiente risulterà l’effetto immunologico.
La grande realizzazione degli anni Cinquanta del secolo scorso è stato il vaccino antipoliomielite costruito da J.E. Salk, che per questo, nel 1954, fu insignito del premio Nobel per la medicina o la fisiologia. Il suo metodo di attenuazione del virus era l’uccisione chimica, ma l’efficacia del vaccino non era del tutto soddisfacente ed era inoltre necessario ripetere le inoculazioni di richiamo. Un grande miglioramento fu introdotto da A.B. Sabin, che propose il vaccino vivo, ma attenuato. Questo virus vivo si moltiplica per un certo tempo nelle cellule dell’organismo, producendo un’ottimale quantità di antigene che permette una presentazione dell’antigene stesso ai linfociti T nel modo più fisiologico, senza gli effetti citotossici tipici del patogeno originale.
L’esperienza con il vaccino antipolio ha dimostrato che la crossreattività non è del tipo ‘tutto o niente’, ma è misurabile: dal punto di vista della efficienza della risposta, il vaccino migliore sarebbe un antigene identico a quello del patogeno; più il vaccino viene attenuato, e meno risulta efficiente. Questo concetto è stato recentemente studiato anche dal punto di vista matematico con un modello che studia l’effetto della distanza strutturale tra l’antigene (virus) usato per la prima infezione (o vaccinazione) e il virus presente nella seconda. La diminuzione del successo del virus, calcolato dal numero di particelle virali prodotte e dalla durata dell’infezione, rappresenta l’indice dell’efficienza della risposta: più alta è l’efficienza, più basso è il successo del virus.
Fino a pochi anni fa la memoria immunologica era considerata come l’insieme dei cloni memoria prodotti durante una risposta di una popolazione di cellule (linfociti B o T) che, grazie alla crossreattività e a un allungamento della vita cellulare, rimane a disposizione dell’organismo per anni e decenni, ed è pronto a produrre una risposta secondaria all’arrivo dell’antigene. Questa concezione statica è stata modificata da studi più recenti dei genetisti Liisa K. Selin e Raymond M. Welsh in Massachusetts, i quali hanno provato che se la seconda infezione è attuata da un virus non identico al primo ma crossreagente, avviene una piccola rivoluzione nel patrimonio dei cloni memoria dell’organismo. Infatti soltanto quelli che crossreagiscono proliferano e diventano dominanti, mentre quelli che non crossreagiscono subiscono invece un contrasto mediato da linfochine che li impoverisce fino, talvolta, a farli scomparire; in altre parole si modifica completamente la gerarchia clonale. Perciò la memoria immunologica, per es. quella ottenuta mediante le vaccinazioni dell’adolescenza, non rappresenta, come si pensava fino a poco tempo fa, un ‘gruzzolo di lingotti in cassaforte’, ma un ‘portfolio di titoli di borsa’ che possono cambiare di valore o essere commercializzati a ogni turbolenza del mercato (nella fattispecie, a ogni influenza o raffreddore di cui ci si ammala). Questo avviene perché, specialmente tra i virus, è stato evidenziato che le crossreattività risultano più frequenti di quanto si pensasse in precedenza.